venerdì 6 settembre 2013

Al caldo dell’autunno. Prime considerazioni su una stagione che continua

di ∫CONNESSIONI PRECARIE

Non saremo certo noi gli statalisti, ma qui ci preme sottolineare come l’ideologia del “meno Stato più mercato” che il governo di unità nazionale sta portando avanti, per superare la crisi, potrà al più fornire qualche beneficio a qualche azionista o a vecchi e nuovi capitani d’industria che si ritroveranno qualche gallina dalle uova d’oro tra le mani

Mentre l’autunno si avvicina, sono in molti a chiedersi per l’ennesima volta se sarà caldo. Già alcune organizzazioni sindacali e politiche hanno prenotato manifestazioni nazionali e scioperi generali, nella convinzione di mobilitare le masse e innescare l’annunciata conflittualità. L’arretramento politico e sociale che già abbiamo vissuto dopo gli ultimi one-day-spot, atti unici di irruzione della soggettività precaria durante qualche manifestazione, dovrebbe spingerci alla cautela. Sembra ormai evidente che questi sfogatoi allontanano le forme di conflittualità dentro e intorno ai posti di lavoro. Come le recenti lotte nella logistica hanno mostrato, la questione non è tanto la forza immediata con cui si manifesta il conflitto, quanto il suo localizzarsi nei punti strategici dei processi economici. Ma si sa quanto sia complicato frenare l’autonomia di certe soggettività e quanto sia ampia la smania delle varie organizzazioni di sovradeterminare i processi politici.
Nonostante gli auspici, i proclami e le paure sull’aumento della conflittualità, uno degli elementi senza dubbio più eclatanti della crisi economica italiana è la sua sostanziale assenza, almeno in confronto agli altri paesi dell’area euro-mediterranea. Si può senza dubbio convenire sul fatto che le abitudini concertative incistate nei sindacati confederali italiani abbiano smorzato l’emergere di estese lotte operaie per contrastare la gestione della crisi economica.
Tanto l’accordo sulla Rappresentanza sui posti di lavoro, siglato il 31 maggio 2013, quanto il recentissimo documento comune con Confindustria ne sono la prova più tangibile. Eppure, ci sembra che l’accusa rivolta ai sindacati di troncare e sopire le tensioni colga solo una parte della questione. Uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche, è stato il ricorso ai cosiddetti ammortizzatori sociali, in particolare alla cassa integrazione. Ricostruire la gestione delle politiche del lavoro e della cittadinanza, cioè del welfare nel suo complesso, è di assoluta rilevanza per non immaginarlo solamente come uno spazio liscio, aperto a rivendicazioni soggettive in grado di sovvertire le forme attuali dello sfruttamento. Per quanto la spesa pubblica italiana per le politiche del lavoro rimanga tra le più basse a livello europeo, dal 2008 al 2011 essa è passata dai 19 ai 27 miliardi di euro, cioè da 322 a 442 euro per abitante. Si tratta di una spesa che finanzia in larga misura le politiche passive del lavoro, cioè qualche beneficio economico per chi ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Se lo Stato sociale è in crisi da almeno un ventennio, i governi che si sono succeduti in questi cinque anni di recessione economica hanno mantenuto una certa attenzione alla distribuzione di briciole di massa, che non ha escluso neppure quanti non ne avevano alcuna titolarità grazie alle numerose deroghe.
L’uso della cassa integrazione in funzione anti-operaia era stato una delle principali strategie messe in campo a partire dalla metà degli anni Settanta, quando però il livello di conflittualità aveva raggiunto punte elevate. Nella situazione odierna la cassa integrazione sembra invece essere un mezzo per prevenire la conflittualità, per quanto le forze dell’ordine e la magistratura non abbiano certo lesinato il loro apporto anche nella gestione dell’attuale congiuntura. È evidente che per quanti non sottostanno allo scambio politico, di cui la cassa integrazione è uno degli strumenti, il piccolo teorema estremista è sempre pronto. Come ha notato perfino un giudice, le scandalose legnate somministrate agli operai negli ultimi mesi, quelle stesse legnate che hanno fatto sussultare qualche mezzo d’informazione, sono ben poca cosa rispetto a quanto è stato messo in campo contro gli attivisti No Tav, su alcuni dei quali pende l’accusa di terrorismo.
La crisi economica e le misure previste per contrastarne gli effetti, dalla cassa integrazione ai contratti di solidarietà, hanno rinvigorito i rapporti tra sindacati e aziende, finendo per chiudere sempre più nella sfera privata i rapporti lavorativi. Gli accordi di cassa integrazione e di riduzione del personale con gli annessi incentivi all’esodo hanno frammentato ulteriormente la forza lavoro alle prese con le proprie situazioni personali, le proprie capacità lavorative e la propria rete di sostegno per la sopravvivenza e per la ricerca di un nuovo posto di lavoro. Là dove questo era possibile. Ma dov’era e dov’è possibile?

L’autonomia dell’intelletto generale: ecco il problema. Intervista a Franco Bifo Berardi

di COMMONWARE

affinché il lavoro cognitivo possa emanciparsi dalla sua destinazione capitalista e quindi affinché possa essere rimesso all’ordine del giorno il problema della liberazione dallo sfruttamento, occorre tutto il lavoro necessario perché i saperi si dispieghino in una condizione libera. Il problema è appunto la piattaforma tecnica per l’autorganizzazione. Se siamo disperati perché le nostre capacità d’invenzione limitate al campo della politica non sono in grado di impostare il problema, bisogna allora che trasferiamo i nostri bagagli su un altro territorio, quello dell’autorganizzazione epistemica dei contenuti del sapere
d. Rispetto alla tua recente esperienza in Corea hai evidenziato la tendenza a una disiscrizione dall’università, da cui anche l’estremo interesse che hanno esperienze come quella di ricerca e formazione indipendente di Sujonomo. Una tendenza per certi versi analoga può essere riscontrata anche in Italia, seppur in forme decisamente ridotte: i dati del Cun sui 50.000 immatricolati in meno negli ultimi dieci anni parlano di una dimensione non più espansiva dell’università. Questa parziale tendenza alla crescita della disiscrizione non deriva esclusivamente da questioni economiche, che pure ovviamente contano (rispetto alla Corea e agli Stati Uniti in Italia le tasse universitarie sono ancora relativamente basse), ma probabilmente ha a che fare anche con una perdita di senso complessiva dell’università e dell’esperienza formativa che lì si può fare. Se questo è il trend (per quanto contraddittorio e con forme e tempi estremamente differenziati), come si può agire dentro questa tendenza?
r. A Seul ho partecipato a più iniziative: una di queste è stata una conferenza in una facoltà umanistica, cui prendevano parte rappresentanze studentesche di diverse università cittadine. Veniva fuori come in Corea il modello americano (così come lì è chiamato) tenda a diventare quello prevalente, l’università pubblica tende a essere svalutata a favore di quella privata. Il titolo di studio pubblico perde sempre più valore a favore di quello privato, e naturalmente privatizzazione vuol dire aumento di costi e tutto quello che sappiamo. In alcune situazioni universitarie c’è un movimento contro questo processo, ma contemporaneamente succede che un numero consistente di persone alla domanda “cosa fai nella vita?” risponda “il ricercatore indipendente”.
All’inizio pensavo che chiunque di noi può definirsi un ricercatore indipendente, invece in Corea è proprio una scelta di autodefinizione che ha un significato preciso. Andare all’università costa sempre di più e serve sempre di meno dal punto di vista professionale lavorativo, ma serve sempre di meno anche rispetto alla qualità e all’interesse dell’esperienza formativa. Sono andato a pranzo con un gruppo di persone capitanato da un professore che mi ha dichiarato la sua decisione di abbandonare il posto di lavoro: lo pagavano sempre di meno (c’è da dire che i salari degli insegnanti in Corea, a tutti i livelli, sono piuttosto alti), si lamentava di essere trattato sempre peggio, il rapporto con gli studenti era diventato intollerabile nelle condizioni che si stanno determinando, allora aveva deciso di costituire un gruppo di ricercatori indipendenti.
Sujonomo è appunto un gruppo di ricercatori indipendenti, alcuni di loro insegnano o studiano all’università, altri fanno il benzinaio o il prete. La composizione del gruppo è molto eterogenea, ma il carattere essenziale è proprio quello di un’istituzione della ricerca indipendente: è il fenomeno più interessante con cui sono entrato in contatto nella mia esperienza coreana.
Tradurlo nella situazione europea è forse un modo per collegarsi a una tendenza che già esiste. É evidente che la gente ragiona su molte cose: in primo luogo sul fatto che la laurea, nella maggioranza dei casi, ti serve sempre di meno; in secondo luogo, non sono mica tutti imbecilli, qualcuno pensa che andare all’università sia ormai un’esperienza priva di qualsiasi fascino e interesse intellettuale.
Una tendenza del genere dovrebbe essere presentata in maniera meno dura possibile: il problema non è la scelta morale o politica di abbandonare l’università, ma poiché è probabile che si manifesti anche qui una tendenza di questo genere interpretiamola, diamole consapevolezza e realismo. É difficile, perché realismo vuole dire anche questioni come il futuro professionale. Insomma vale la pena di chiedersi: per quali ragioni studiamo? Uno, perché abbiamo bisogno di un salario domani, e la questione è molto complicata in quanto non dipende solo dal titolo di studio; due, perché ci piace nella vita non essere coglioni. Ma l’università nell’epoca attuale serve sempre meno per avere un salario, e serve sempre di più per diventare coglioni.
Commonware parte ovviamente da una storia e una piattaforma teorica largamente definite, al contempo dovrebbero crearsi le condizioni per progetti di ricerca e autoformazione più ampi. C’è per esempio l’esperienza di Public School, piattaforma online lanciata a Berlino e New York che consiste di gruppi di studenti o altre persone che comunicano al sito di voler studiare il pensiero di Newton, o chissà cosa d’altro. Cercano un esperto stabiliscono la location fisica oppure, se gli studenti sono in luoghi distanti fra loro, il sito mette a disposizione uno spazio per il virtual learning. Mi dicono che a Berlino e a New York ora ci sono proprio delle classi organizzate fisicamente in luoghi definiti e poi c’è un’attività in rete. Public School ovviamente è avviata da gente che viene dal movimento, ma non è un progetto di ricerca finalizzato o prestrutturato, è semplicemente una struttura di servizio. Questa potrebbe essere una delle possibili evoluzioni di Commonware.
d. Hai più volte sostenuto che la lotta è tra neuro-totalitarismo e autorganizzazione dell’intelletto generale. Cosa significa e quali conseguenze politiche pone?
r. Il tema del neuro-totalitarismo è un tema su cui sto lavorando, raccolgo informazioni e scrivo, ma forse si potrebbe pensare a un’iniziativa di tipo seminariale a partire da alcune questioni di grande attualità, tipo google glass, georeferenzialità o Prism.
Cosa significano questi dati dell’evoluzione tecnologica attuale dal punto di vista della soggettività futura?
Pensiamo al grande scandalo che è sorto intorno a Prism dopo le rivelazioni fatte da Edward Snowden. A mio parere non si tratta di un problema di privacy, infatti la privacy non esiste più, è una parola per gli allocchi; il problema è la precostituzione di strutture di controllo sulle capacità di lavoro e di consumo della mente umana. Questo è il punto, il processo è già largamente attivo: non occorre che l’Nsa o la Cia si mettano a frugare nella tua mail, le strutture di rintracciamento del potenziale comportamento produttivo, economico e consumativo sono già tutte in atto, la questione è analizzarle e anche – questo è un nodo puramente politico, addirittura etico – chiedersi se l’atteggiamento tradizionale dei movimenti sia ancora efficace in una situazione di questo tipo. Puoi pensare di opporti a google glass? Naturalmente no, non vuole dire niente, devi elaborare strategie che abbiano un piano di consistenza totalmente diverso da quello dell’opposizione politica. I piani di elaborazione sono quindi molteplici: c’è il piano di analisi dei fenomeni in atto, c’è quello della comprensione del loro significato politico presente, c’è quello dell’elaborazione di possibili modulazioni della soggettività.

Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa*

di Toni Negri

perché l’Europa? Perché siamo “europeisti” anche dopo che del neoliberalismo abbiamo direttamente subito la repressione feroce, l’austerità orribile e ne abbiamo fatto l’oggetto del nostro odio? E dopo aver implicitamente riconosciuto che l’Europa rappresenta nel quadro istituzionale presente, il più completo esempio di consolidamento dello Stato neoliberale?

Scusate se la prendo da lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista.
Ci sono due argomenti, meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale. Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo: cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del biopolitico-sociale (cioè del welfare). Quando parliamo di consolidamento del potere del capitale finanziario ne parliamo ipotizzando (ed è una ipotesi che si avvicina ormai ad una verifica conclusiva) che la trasformazione del capitalismo abbia comportato (tra l’altro – ma l’osservazione è tanto limitativa dell’analisi, quanto importante per concentrare quest’ultima su quanto ci interessa) – abbia dunque comportato una assai profonda trasformazione delle forme territoriali e delle strutture istituzionali nell’assetto globale degli Stati e delle nazioni nel “secolo breve”. Questa trasformazione comincia all’interno dei singoli mercati nazionali dove, in ciascuno di essi, la struttura produttiva capitalistica è riorganizzata dopo la prima Grande Guerra (rispondendo al trionfo della rivoluzione bolscevica), secondo moduli contrattuali keynesiani. Nel secondo dopoguerra e dopo le “ricostruzioni”, questo modulo di organizzazione sociale e di comando capitalista comincia ad essere fragilizzato e talora a saltare sotto la pressione operaia: è allora che comincia la rivoluzione neoliberale a partire dalla fine degli anni ’70 con una straordinaria accelerazione all’inizio del XXI secolo. Essa riorganizza innanzitutto lo Stato secondo modalità fiscali nella gestione della crisi e nella governance del debito pubblico. Il procedere della mondializzazione che interviene in quel periodo e l’affermazione globale dei “mercati finanziari” spostano il controllo delle possibilità debitorie dello Stato dal potere pubblico alle strutture che organizzano il privato, dall’equilibrio dell’amministrazione interna  dello Stato all’equilibrio costruito sotto il dominio dei “mercati” globali.
È a questo punto che si dà una definitiva frattura fra il nuovo ordine capitalistico globale e i soggetti che vivevano nel precedente ordinamento capitalistico dei singoli Stati-nazione – in quell’ordinamento “riformista” del capitale, cioè, che avendo introdotto keynesianamente il movimento operaio nel contratto sociale, ne disciplinava i comportamenti secondo regole cosiddette “democratiche”. Se nello Stato fiscale, presto pervenuto alla crisi, il debito statale aveva assunto quel ruolo di anticipazione della spesa che prima aveva avuto l’inflazione (in senso opposto, come strumento di devalorizzazione della spesa) e se presto la fiscalità non è più sufficiente a sostenere il debito promosso dallo Stato – se dunque la struttura del debito muta e il neoliberalismo, facendo del mercato la regola dello sviluppo e dei “mercati” la giustizia del pianeta, impone la privatizzazione globale del debito…. dato tutto questo, la crisi capitalistica si presenta oggi come impossibilità di far agire all’interno dello sviluppo stesso qualsiasi elemento di mediazione, qualunque  struttura contrattuale, insomma il keynesismo in tutte le diverse accezioni riformiste che esso possa eventualmente assumere. D’altra parte, questo sviluppo (se riguardato dal punto di vista delle lotte del soggetto sovversivo) ci restituisce un modulo assai consistente di lotta di classe. Da un lato tutti coloro che possono partecipare all’”interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe media” fra queste due realtà etiche.
Il secondo presupposto è soggettivo, ne abbiamo accennato le caratteristiche etiche – ora si tratta di studiarne (anche in questo caso riassumendo un lavoro collettivamente compiuto) l’ontologia della produzione. In essa si ricompongono dunque le modificazioni intervenute nella composizione della classe lavoratrice. Essa non è più (come da molto tempo si sa) “operaia” in senso esclusivo, tanto meno può essere qualificata come centrale nei processi di valorizzazione – la dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete (come tessuto di ogni attività produttiva)  sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. La forza-lavoro si è dunque radicalmente modificata. Nessuna nostalgia della vecchia classe operaia. Impegno, invece, a ritrovarne le stigmate nel continuum della “disindustrializzazione”, determinata (non tanto dal capitale finanziario quanto) dall’automazione industriale e dalla sua espansione a tutto il sistema dei servizi produttivi (sicché anche l’operaio industriale è oggi lavoratore immateriale). La radicalità di questa modificazione è estrema. Altrove abbiamo definito l’insieme della forza-lavoro nella sua dimensione di soggetto sfruttato nello sviluppo del capitale finanziario come un composto da individui “indebitati, mediatizzati, securizzati, rappresentati”. In questo quadro lo sfruttamento avviene assumendo la società come totalità, investe e sussume l’intera società. È uno sfruttamento estrattivo. La qualità estrattiva dello sfruttamento significa che l’analitica “temporale” (quella marxiana, per esempio) delle figure e delle quantità di pluslavoro e di plusvalore, dev’essere rivista e analizzata secondo nuovi criteri. È qui infatti che il capitale finanziario si segnala come potente agente di un’”estorsione” compatta e massificata di plusvalore, come mistificatore di ogni assemblaggio di lavoro cooperativo e infine – in tal modo – come forza estrattiva del comuneNel concetto di “estrazione” si modifica quindi quello di “sfruttamento”. “Estrazione” significa appropriazione di plusvalore attraverso una continua scrematura dell’attività sociale, la riduzione dellesingolarità che cooperano nella produzione sociale (e che così esprimono comune) ad una massa che ha perduto ogni controllo di se stessa ed ogni autodeterminazione, la trasformazione dell’imprenditorialità capitalista in una funzione ormai incapace di organizzare il lavoro, immersa nel gioco finanziario e solo attenta alle cedole azionarie. Il concetto marxiano di sfruttamento sembra così pateticamente lontano – nella sua insistenza sulla temporalità della giornata lavorativa e dello sfruttamento individuale che in essa si misura. Se non fosse che la massa esiste solo nella logica del capitale finanziario (come il popolo in quella dei sovrani). Mentre la vita sfruttata è singolare. Da questo punto di vista, dunque, le soggettività implicate in questo sviluppo del capitalismo, espropriate come massa, sfruttate come singolarità, avvertono che la frattura sociale, meglio, la scissione del concetto di capitale si è data in maniera ormai piena. Al punto in cui lo sviluppo capitalistico è stato spinto dall’azione neoliberale, una qualsiasi mediazione interna allo sviluppo capitalistico (anche se imposta dalla moltitudine dei lavoratori bisognosi, insomma comunque essa si presenti, qualsiasi sia la forma in cui le singolarità sono rinchiuse nella massa espropriata) – ogni mediazione, dunque, è stata rotta. Assistiamo all’azzeramento del politico, meglio, del valore della composizione politica del soggetto antagonista: in questa prospettiva “la politica” è solo considerata una mediazione – e questa non potrà certo darsi con gli “esclusi”.
Dobbiamo dunque concludere che la dialettica operaista che sempre teneva presente un rapporto antagonista tra sviluppo capitalistico e lotta di classe operaia e ad essa imputava ogni sviluppo, è terminata? È possibile, con tutta probabilità è avvenuto. Infatti la relazione delle singolarità che costituiscono moltitudine è divenuta del tutto intransitiva nel rapporto di capitale. Il neoliberalismo ci impone questa verità. La valorizzazione capitalista nasce infatti dal fatto che la moltitudine di singolarità è ridotta a massa – è resa “transitiva” in quanto capitale variabile ma non può più esprimersi come classe – neppure all’interno del capitale, come la dialettica “socialista” esigeva. Affermare questo non significa che la concezione marxiana dello sviluppo sia obsoleta o la metodologia operaista ormai desueta; significa solo che il metodo va innovato, che le “armi della critica” vanno adeguate alla nuova situazione complessiva e che “far politica oggi” è concetto che non può esser legittimato, per esempio, semplicemente dal ricorso all’inchiesta operaia – modulata sul couplet composizione tecnica e composizione politica – ma che i temi del potere e del contropotere, della guerra e della pace, del potere costituente e dell’insurrezione, insomma, del programma comunista, vanno riproposti – in prima linea.

Controcernobbio. Sbilanciamo l'informazione

di Redazione SBILANCIAMOCI
In un mercato sempre più concentrato, si rende necessario per l’informazione alternativa passare fino in fondo a una “cultura della rete”. Con questo obiettivo, sabato mattina, negli spazi della Controcernobbio, si terrà il workshop "Sbilanciamo l'informazione. Come informare sull'economia, la crisi, le vie d'uscita" (scarica il programma_controcernobbio2013.pdf) 
La questione dell’informazione avrà per la prima volta un posto nelle discussioni della “contro-Cernobbio” della Campagna Sbilanciamoci! Sabato 7 settembre, dalle 10 alle 12, al Teatro Valle Occupato di Roma si terrà un gruppo di lavoro promosso dalla redazione di Sbilanciamoci.info. Ci saranno rappresentanti di oltre venti giornali, riviste, radio, siti web d’informazione, documentaristi video, case editrici, dal Manifesto a Left, da Radio Popolare a Micromega, dalle Edizioni dell’Asino a InGenere.it. Esperienze diverse, voci essenziali a un’informazione alternativa, espressioni di culture preziose, realtà che mantengono un rapporto vitale con il proprio pubblico. Ma, allo stesso tempo, esperienze fragili, che operano in nicchie particolari, faticano ad allargare il proprio pubblico, a rinnovare il proprio modo di comunicare. Sbilanciamoci.info ha invitato queste realtà – e le altre che vorranno aggiungersi – a discutere su come ripensare il lavoro che stiamo svolgendo.
Il problema
Siamo di fronte a un ulteriore indebolimento della libertà di stampa: la Fiat è alla guida anche del Corriere della Sera, il sistema televisivo è da paese totalitario – Berlusconi controlla Mediaset, quasi tutta la Rai e ora, indirettamente, anche La7; l’unico “concorrente” è la Sky di Murdoch – mentre una crisi devastante colpisce quotidiani e riviste dei grandi gruppi, con migliaia di giornalisti prepensionati e di precari che non troveranno sbocco occupazionale. Questo controllo pressoché totale dell’informazione è stato un elemento chiave nel mantenimento del consenso durante il ventennio berlusconiano e della deriva della politica italiana che si è sempre più allontanata dalla società. Le voci “fuori dal coro”, che nel nostro paese hanno una lunga e importante storia, sono sempre più flebili; quelle nuove che sono emerse hanno finito per riprodurre, pur con orientamenti “anti-berlusconiani”, il modello di informazione dominante tutto centrato sul “palazzo” e sulla sua rappresentazione mediatica.
L’apparente libertà del web e dei social media ha fatto emergere molte nuove esperienze di comunicazione e apre possibilità alternative, ma è spesso segnata da una forte autoreferenzialità della comunicazione, da una scarsa capacità di dialogo, incontro, elaborazione di identità e visioni “dal basso”, mentre i grandi della comunicazione ne fanno un uso sempre più incisivo “dall’alto”; nel complesso queste esperienze non hanno effetti rilevanti sul dibattito politico e sociale del paese.
Naturalmente, in nessun altro paese occidentale il sistema dell’informazione è caduto così in basso.
Pensiamo che si debba fare qualcosa su questo fronte. Per difendere la libertà di stampa e di espressione, ma anche per costruire una visione condivisa della realtà, nuove identità collettive, per fare dell’informazione uno strumento di cambiamento della società e della politica, pensiamo che si debba dare spazio alle voci di una società che oggi non si riesce a esprimere – schiacciata dalla crisi, dalla perdita di lavoro, sicurezze, prospettive – ma che si debba anche dare coerenza e impatto all’informazione alternativa in Italia: farne un “sistema” capace di pesare nel paese.