sabato 20 luglio 2013

Il dividendo europeo

di Philippe Van Parijs

Se l'Unione europea vuole essere per i suoi cittadini più popolare di una burocrazia senza stato, se vuole essere percepita come un'Europa nella quale i cittadini possano identificarsi, allora occorre introdurre qualcosa di completamente nuovo: un reddito di base per ciascun cittadino, quale meccanismo di compensazione degli squilibri tra Stati
Criticare è facile, fare proposte è più difficile. Qui ce n'è una, semplice e radicale, ma - vorrei far notare - ragionevole e urgente.
Un Euro-dividendo come lo chiamerò. Si tratta di versare periodicamente un modesto reddito di base ad ogni cittadino legalmente residente nell'Unione europea, o almeno nel sottogruppo di stati membri che, o hanno adottato l'euro, o si sono impegnati a farlo. Questo reddito fornisce ad ogni cittadino una base minima universale e incondizionata, che può essere integrata da redditi da lavoro e da capitale, nonché da prestazioni sociali. Il suo livello può essere diverso per i diversi paesi a seconda del costo della vita e può essere minore per i giovani e maggiore per gli anziani. Esso potrebbe essere finanziato dall'imposta sul valore aggiunto. Per finanziare un reddito minimo di circa 200,00 euro al mese per tutti i cittadini europei bisognerebbe aumentare del 20% circa la base armonizzata dell'Iva dell'Unione europea corrispondente a circa il 10% del Pil europeo.
Perché abbiamo bisogno di un piano del genere così inusuale? Per quattro ragioni. La più urgente riguarda la crisi dell'eurozona. Come mai gli Stati Uniti sono stati capaci di progredire per molti decenni in presenza di una moneta unica pur in presenza di cinquanta differenti stati dai divergenti destini economici, mentre l'eurozona è in profonda crisi dopo appena un decennio? Da Milton Friedman ad Amartya Sen, gli economisti hanno continuato a metterci in guardia sul fatto che l'Europa è priva di quei meccanismi di compensazione che fungono negli Stati uniti da potenti sostituti dell’aggiustamento tramite la variazione del tasso di cambio tra i singoli stati.
Uno di questi è la migrazione tra gli stati. La proporzione dei residenti americani che si trasferisce in un altro stato in un dato periodo è circa sei volte superiore a quella degli europei che si spostano in un altro paese. Gli europei potrebbero diventare in qualche modo più mobili, ma le nostre nette differenze linguistiche impongono pesanti vincoli a una prospettiva - o speranza - di migliorare tale meccanismo. I disoccupati di Atene non si sposteranno mai tanto facilmente a Monaco, quanto quelli di Detroit ad Austin.
Un secondo potente meccanismo di assorbimento degli squilibri che è a disposizione della zona del dollaro è il sistema automatico di trasferimenti interstatali, risultato sostanzialmente di un welfare state organizzato e finanziato in larga misura a livello federale. Se il Michigan o il Missouri incontrano difficoltà economiche, esse non entrano in una spirale negativa. Non soltanto il tasso di disoccupazione è attenuato dall'emigrazione, ma, in presenza di una riduzione del prelievo fiscale e di un maggiore esborso delle prestazioni sociali, una quota crescente delle spese sociali viene di fatto finanziata dal resto degli Usa. A seconda della metodologia usata, la stima di questa compensazione automatica può variare fra il 20% e il 40%. Nell'Ue, invece, la possibilità di contenere la crisi di uno stato membro attraverso versamenti netti fra i diversi stati membri ammonta a meno dell'1%. Dati i minori effetti che ci si può aspettare dalle migrazioni interne, l'Eurozona non può permettersi di trascurare questo secondo meccanismo. Quale forma dovrebbe assumere? Non avremo, né dovremmo avere, mai un mega welfare state europeo. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di più modesto, ben più semplice, basato su pagamenti forfettari e quindi più compatibile con il principio europeo di sussidiarietà. Per essere funzionale, la nostra unione monetaria deve dotarsi di nuovi strumenti. Uno di questi è un meccanismo di compensazione quale è un Euro-dividendo.
Il secondo motivo per cui abbiamo bisogno di un meccanismo di trasferimento transnazionale riguardante l'Ue come un tutto. Le diversità linguistiche e culturali dell'Unione rendono la migrazione fra stati membri non solo più costosa e quindi più difficile per gli individui, ma aumenta i costi e riduce i benefici per le comunità coinvolte. L'integrazione dei migranti nel nuovo contesto, sia economico che sociale, richiede più tempo, comporta maggiori risorse amministrative ed educative e crea tensioni più permanenti di quelle che si hanno nelle migrazioni all'interno degli Stati uniti. Quando i migranti più poveri affluiscono nelle aree metropolitane più ricche, l'impressione di essere invasi da masse difficili da gestire induce a costruire barriere e a rifiutare la circolazione delle persone libere e non discriminatoria. C'è però un'alternativa: organizzare un sistema di trasferimenti sistematici dal centro alla periferia. Le persone non devono più essere sradicate e costrette ad allontanarsi dai loro parenti e dalle loro comunità per il mero bisogno di sopravvivenza. Al contrario, le popolazioni devono essere sufficientemente rese stabili in modo che l'immigrazione sia gestibile nelle aree di attrazione e che i movimenti migratori non diventino deprimenti per le aree periferiche. Se l'Unione europea con libera circolazione interna intende essere politicamente sostenibile e efficiente dal punto di vista socio-economico, deve prevedere una misura quale quella di un Euro-dividendo.
Il terzo e più importante motivo: la libera circolazione del capitale, delle persone, dei beni e servizi attraverso i confini degli stati membri erode la capacità di ciascuno di tali Stati a garantire quelle funzioni redistributive che essi svolsero con tanto successo nel passato. Gli stati membri non sono più stati sovrani capaci di stabilire le proprie priorità in maniera democratica e di consolidare vincoli di solidarietà fra i propri cittadini. Sono invece sempre più costretti ad agire come se fossero aziende, ossessionati da standard di competitività, ansiosi di attrarre o di mantenere il loro capitale o le loro risorse umane, pronti a eliminare ogni spesa sociale che non possa essere alienata come investimento e a escludere ogni progetto che attragga i welfare tourists ed altri soggetti improduttivi. Non è più la democrazia che impone le sue regole sui mercati e li usa per i suoi scopi; è il singolo mercato che impone le sue leggi alle democrazie e le impone a dare la priorità alla competitività. Se vogliamo salvare i nostri diversi modi di organizzazione della solidarietà sociale dalla stretta della competizione sociale e fiscale, parte di questa solidarietà deve essere trasferita a un livello più alto. Il potere e la diversità dei nostri sistemi di welfare non sopravvivranno alla pressione criminale della competitività, a meno che il mercato unico europeo non operi sulla base di una misura come quella di un Euro-dividendo.
Infine, è importante per il buon funzionamento dell'Unione europea che le sue decisioni siano ritenute legittime, così che governi e cittadini non si sentano autorizzati ad aggirarle in qualche maniera. Diventa fondamentale che i cittadini percepiscano in modo concreto che l'Unione fa del suo meglio per tutti, non solo per le élites, per chi può spostarsi, per coloro che sono in grado di sfruttare le opportunità, ma anche per i più deboli, per gli emarginati, per le casalinghe. Bismarck garantì la fragile legittimità della Germania unificata istituendo il primo sistema pensionistico pubblico. Se l'Unione europea vuole essere per i suoi cittadini più popolare di una burocrazia senza stato, se vuole essere percepita come un'Europa che ha cura dei suoi abitanti e nella quale i cittadini possano identificarsi, allora occorre introdurre qualcosa di completamente nuovo: un Euro-dividendo universale.

venerdì 19 luglio 2013

La rivolta che non crede nel futuro

di Franco Berardi Bifo

Nello scacchiere del mondo islamico si combattono diverse guerre, e nessuna di queste ha molto a che fare con la democrazia, questo feticcio che, svuotato di contenuto e di efficacia in Occidente, viene pubblicizzato con insistenza come un prodotto di scarto che gli occidentali sperano di rifilare a chi non l’ha mai visto

Verso la fine degli anni Novanta, a un giornalista che gli chiedeva se non fosse stato un errore armare gli islamisti afghani, Zbigniew Brzezinski, consulente della Presidenza Carter, rispondeva, con l’arroganza di chi ha non capito l’essenziale: «Cos’è più importante nella storia del mondo? I Talebani o il collasso dell’impero sovietico? Qualche esaltato musulmano o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?» Adesso sappiamo che la fine della guerra fredda non ha aperto un’epoca di armonia universale con qualche marginale disturbatore esaltato, ma ha inaugurato un’epoca di aggressività identitaria e di follia suicida. Il suicidio non faceva parte dell’armamentario dei sovietici, mentre è un elemento essenziale dell’islamismo contemporaneo. Perciò la guerra che Bush dichiarò infinita ha caratteri di asimmetria e d’imprevedibilità che non si possono ricondurre ad alcun pensiero strategico. L’illuminismo protestante che sta a fondamento dell’episteme strategica americana è incapace di interpretare i segni della cultura islamica, e la nozione formale di democrazia è inadatta per interpretare l’evoluzione attuale della guerra che si va diffondendo nel continente euroasiatico. Nessuna potenza militare pare in grado di ridurre la violenza contemporanea perché questa sfugge alle categorie della politica.
«La disperazione non è una categoria della scienza politica ma il movimento islamista non è pensabile se non lo si comprende come testimonianza di disperazione delle masse» scrive Fethi Benslama, nel suo libro La psychanalyse face à l’Islam, un’indagine sulle origini psicoanalitiche dell’infelicità congenita alla cultura degli arabi, discendenti di Agar, la madre ripudiata e rimossa nella memoria dei suoi figli. L’islamismo contemporaneo è una sfida al razionalismo della politica moderna e della democrazia: interpretare quel che accade tra Kabul a Bengasi con la terminologia della democrazia e dell’illuminismo protestante è un modo per andare incontro alla sconfitta.

La rivoluzione da Mosca a Cambridge

di Emiliano Brancaccio

facendo seguito alla sintesi del contributo sul pensiero di Paul Mattick, la cui critica - da sinistra-  ha tra i suoi principali bersagli il paradigma keynesiano, abbiamo ritenuto opportuno proporre un estratto dell’Introduzione alla ristampa del volume (originale del 1931)  “Esortazioni e profezie” (Il Saggiatore, Milano 2011) di John Maynard Keynes. Brancaccio evidenzia come, dopo il fallimento di Lehman Brothers (ottobre 2008) che segnò l’inizio della c.d. “Grande Recessione”, il nome di Keynes «è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito»

(…) Esortazioni e profezie è un titolo estremamente indovinato. Lo stesso Keynes, nella prefazione, arriva a definirsi «una Cassandra che non è mai riuscita a influire in tempo sul corso degli eventi», e rivela che avrebbe egli stesso desiderato porre in luce, fin dal titolo, le virtù premonitrici del suo libro. Questa declamata preveggenza non può in effetti dirsi esagerata. Essa trova riscontri in numerosi passi del volume e raggiunge forse il suo apice in un brano inquietante, dedicato alle conseguenze del Trattato di pace del 1919. Keynes è certo che la Germania non sia materialmente in grado di provvedere al pagamento delle riparazioni e dei debiti di guerra imposti dai paesi vincitori. Per questo motivo decide di lasciare l’incarico di rappresentante britannico alla Conferenza di pace, e lancia un avvertimento: «Se diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato da nemici […] Se noi mirassimo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe». Nell’irrealtà delle decisioni della Conferenza, mentre tutti partecipano alla messinscena di un trattato insostenibile, Keynes dunque intravede già l’ombra di Hitler, l’incendio del Reichstag, l’abisso disumano del secondo conflitto mondiale. In questa tragica consapevolezza egli tuttavia è solo, impotente, e il suo allarme cade nel vuoto.
Molte altre volte Keynes vestirà i panni della Cassandra inascoltata. Col tempo tuttavia imparerà a diluire le sue istanze ideali in un materialismo intuitivo, sempre più smaliziato. Egli prenderà coscienza del fatto che le battaglie si vincono in primo luogo grazie «all’incontenibile pressione degli eventi», e solo in seconda istanza per «il lento decadere dei vecchi pregiudizi». I suoi scritti rivelano, in questo senso, il tentativo sempre più raffinato di situarsi sul crinale del processo storico, di cogliere in anticipo le congiunture, i punti di rottura, di intervenire nel modo e nel momento giusto per cercare di piegare il corso degli eventi nella direzione dei lumi piuttosto che del buio. Che per Keynes essenzialmente significava riformare il capitalismo, liberandolo dalla opprimente e desueta ideologia del laissez-faire.
È forse proprio a causa di questa ambizione, eminentemente politica, che gli stessi scritti teorici di Keynes risultano mutevoli, talvolta sfuggenti. L’urgenza politica di persuadere sembra cioè costringere anche il teorico in un limbo perenne, tra conservazione e rivoluzione concettuale. I saggi contenuti in questo volume appaiono in tal senso emblematici...Il principio della domanda effettiva e la connessa eresia della disoccupazione di equilibrio, contenuti nella Teoria generale del 1936, sono però ancora di là da venire. Ciò nonostante si può già trovare, in queste pagine, una descrizione dei tipici paradossi del risparmio e quindi anche una critica cristallina ai dogmi indiscussi della austerità: «Vi sono oggi molti benpensanti, animati da amor di patria, i quali ritengono che la cosa più utile [..] sia risparmiare più del solito. Costoro [..] ritengono che la giusta politica in un momento come questo consista nell’opporsi all’allargamento della spesa per lavori pubblici [..]. Ma quando vi è già una forte eccedenza di manodopera [..] il risultato del risparmio è soltanto quello di aumentare questa eccedenza [..] Inoltre, quando un individuo è escluso dal lavoro [..] la sua ridotta capacità di acquisto determina ulteriore disoccupazione [..] La valutazione migliore che posso formulare è che quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata». Ineccepibile eppure eversivo, forse ora ancor più di allora. Perché negare che il risparmio si tramuti interamente in investimento significa di fatto evidenziare una gigantesca contraddizione insita nel capitalismo individualistico governato dalla finanza privata. Un capitalismo che proprio sulla separazione tra risparmio e investimento vive e prospera, ma a quanto pare su di essa rischia pure di implodere. Inoltre, letta da un’altra angolazione, la critica dell’austerità pone in luce un problema di coordinamento del mercato che sotto date condizioni può rivelarsi fatale: «i singoli produttori ripongono qualche speranza illusoria su iniziative che, intraprese da un singolo, lo avvantaggerebbero, ma che non giovano a nessuno nel momento in cui diventano condotta generale [..] se un determinato produttore, o un determinato paese, taglia i salari, si assicurerà così una quota maggiore del commercio internazionale fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto; ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce tanto quanto si sono ridotti i costi». Per giunta, la spirale deflazionista così attivata potrebbe determinare una crescita del valore reale dei debiti in grado di scatenare insolvenze e fallimenti. Se poi la caduta dei salari, dei prezzi e dei redditi oltrepassa un certo limite, anche le banche potranno esser trascinate nel precipizio. È  questo un pericolo che i banchieri negheranno fino all’ultimo, essendo connaturato al loro mestiere «salvare le apparenze». Ma la realtà è che una reiterata competizione al ribasso potrà determinare tali e tante bancarotte da scuotere le fondamenta stesse dell’ordinamento capitalista, «creando terreno fertile per agitazioni, sedizioni, rivoluzioni». Recentissimo del resto era il successo dei bolscevichi in Russia, e il borghese Keynes non perdeva occasione di ricordarlo agli apologeti dell’ortodossia, quei «vecchi signori rigidamente abbottonati nelle loro finanziere».
(...) Di tracce della eversione keynesiana il lettore ne troverà dunque molte, in queste pagine. Anche quando il nostro avanza la proposta massimamente conservatrice, nonché tardiva, di tenere la Gran Bretagna dentro la gabbia del gold standard pur di ricandidarla alla leadership del sistema monetario internazionale, il criterio suggerito risulta scandalosamente eterodosso: «l’introduzione di un forte dazio straordinario» all’importazione di merci, al fine di rendere la rigida difesa del cambio compatibile con una politica di espansione dell’occupazione. Una evidente provocazione per gli acritici fautori del liberoscambismo, ieri come oggi numerosi tra le alte schiere e persino tra gli eredi del movimento operaio. Una indicazione tuttavia ancora una volta difficilmente contestabile sul piano della logica, e che fornisce pure qualche utile spunto di riflessione per l’oggi, in una Unione monetaria europea afflitta da un assetto istituzionale autocontraddittorio e forse insostenibile.

mercoledì 17 luglio 2013

Newsletter n.17

rassegna quindicinale

sommario

comunicato stampa - AIE
L’associazione nazionale di epidemiologia ha messo in evidenze un diverso quadro scientifico nel quale si richiamano le molte ricerche condotte nell’area di Taranto e le risultanze acclarate dalla letteratura consolidata. A partire da questi studi si può oggettivamente condurre una attenta perizia per la Valutazione di Impatto Sanitario

di  Riccardo Bellofiore
Dal riproporsi della tendenza al «crollo» preconizzata da Marx non si può derivare alcuna tendenza automatica ad una politica rivoluzionaria. Per troppo tempo, secondo Mattick, è stata sospesa la tendenza all’impoverimento assoluto. Ma proprio il riattualizzarsi della tendenza alla crisi non può che riaprire la possibilità di una prassi antagonistica, senza che di essa vi sia mai certezza

a cura di Claudia Bernardi e Luca Cafagna
La gestione neoliberale della crisi del capitalismo ha imposto quella che ÉtienneBalibar definisce, riprendendo le analisi schmittiane, una «dittatura commissaria»: una ridefinizione dell’assetto istituzionale europeo secondo stati d’eccezione che impongono una gestione dall’alto della crisi tramite gli ormai noti governi nazionali imposti dalla troika.

di Andrea Fumagalli e Carlo Vercellone
Più che di un reddito di cittadinanza si dovrebbe parlare di un reddito di base incondizionato: un salario sociale legato ad un contributo produttivo oggi non riconosciuto. La sua instaurazione permetterebbe la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non-mercantile e di forme di cooperazione alternative

di Otonom
OccupyGezi ha dato avvio ad una rivolta contro la mercificazione e la classificazione della vita secondo la rendita. È  desiderio di libertà tra le differenze immanenti ai gradi d’intensità, in contrasto con l’equalizzazione quantitativa che annichilisce le qualità di singolarità e differenze ... la moltitudine è  una virtualità che promuove la continua espressione delle singolarità

di Slavoj Žižek
Marx scriveva che l’umanità si propone solo i problemi che sia in grado di risolvere. E se invertissimo questa frase e dichiarassimo che, come regola generale, l’umanità si propone solo i problemi che non possono essere risolti, e quindi mette in moto un processo il cui sviluppo è imprevedibile, e nel corso del quale lo stesso obiettivo viene ridefinito?

di Claudio Cavallari
il filo genealogico che si dipana dentro la trama teorica del  volume curato da Gigi Roggero e Adelino Zanini (“Genealogie Del Futuro”, un libro collettivo edito per la collana di Uninomade di Ombre Corte) non serve a riavvolgere una continuità identitaria nel fluire del tempo, ma a sovvertire il presente: cosa significa sovvertire il presente ricostruendo genealogie del futuro?

di Robert Kurz
riprendiamo parte delle 12 tesi della comunicazione presentata da Kurz nella Conferenza del Forum Marxista della Sassonia (Nov,2009), estrapolando quelle che pongono l’attenzione sul futuro della sinistra e specificamente sull’orizzonte illusorio che gioca ancora l’ideologia lavorista

di Vincenzo Cuomo
proponiamo una versione ridotta dell’intervento pubblicato su Kainos. Si tratta di alcune riflessioni sul tema delle nuove forme del lavoro nell’epoca del “capitalismo digitale” che prendono, in particolare, spunto dal volume “Felici e sfruttati. Il capitalismo digitale e l'eclissi del lavoro” di Carlo Formenti 






ILVA ED EVIDENZE SCIENTIFICHE

comunicato stampa - AIE

pubblichiamo il comunicato dell’Associazione Italiana di Epidemiologia in risposta alle dichiarazioni del commissario straordinario Bondi sulla questione-Ilva. L’associazione nazionale di epidemiologia ha messo in evidenze un diverso quadro scientifico nel quale si richiamano le molte ricerche condotte nell’area di Taranto e le risultanze acclarate dalla letteratura consolidata. A partire da questi studi si può oggettivamente condurre una attenta perizia per la Valutazione di Impatto Sanitario (Health Impact Assessment)  

Sul caso ILVA si sta facendo un uso distorto e strumentale delle evidenze scientifiche. Il Commissario Straordinario dell’ILVA Enrico Bondi ha trasmesso un documento firmato dai consulenti dei Riva nel quale si contestano i dati relativi all’impatto sanitario delle emissioni inquinanti e si sostiene che a Taranto l’aumento dell’incidenza di tumori e patologie croniche respiratorie e cardiovascolari non sarebbe da attribuire all’inquinamento ambientale prodotto da ILVA bensì agli stili di vita, in particolare che l’aumento del tumore del polmone sia da attribuire all’abitudine al fumo di sigaretta.
Eppure il legame tra inquinamento ambientale e tumore polmonare è noto da anni e indipendentemente dagli altri fattori di rischio (come la maggiore abitudine al fumo). Tale legame è stato ribadito la scorsa settimana con la pubblicazione su Lancet Oncology  dei risultati dello studio  europeo ESCAPE “European Study of Cohorts for Air Pollution Effects”, condotto  su 17 coorti europee (inclusa l’Italia) che ha evidenziano come l’esposizione prolungata all’inquinamento da polveri sottili (PM10 e PM2.5) sia associabile ad un aumento del rischio di tumore del polmone (specialmente l’adenocarcinoma) in popolazioni esposte. Per ogni incremento di 10 µg/m³ di PM10 viene stimato un aumento  del rischio di tumore al polmone pari a circa il 22 % (HR pari 1.22, 95%CI 1.03–1.45) (http://www.thelancet.com)
Tutti gli studi condotti fino ad oggi mostrano inoltre che non esiste un livello-soglia al di sotto del quale non siano evidenziabili effetti dell’inquinamento sulla salute. Proprio nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ribadito che anche al di sotto dei limiti di legge previsti per il particolato, vi sono effetti sanitari sulle popolazioni esposte (documento “Review of evidence on health aspects of air pollution – REVIHAAP” (interim report) disponibile  sul sito www.euro.who.int).
È grave che nel nostro Paese possa essere sostenuta una posizione apertamente in contrasto  con le evidenze scientifiche prodotte da studi internazionali e consolidate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Posizioni pseudo-scientifiche, basate sull’opinione di singoli ricercatori che sono in chiara condizione di conflitto di interessi (periti di parte dell’ILVA).
L’Associazione Italiana di Epidemiologia sulla base dei numerosi studi condotti fino ad oggi a Taranto, ribadisce che:
i dati ambientali hanno dimostrato che la popolazione di Taranto  è stata esposta per decenni ad elevati livelli di  diverse sostanze chimiche con effetti cancerogeni noti e  ben documentati in letteratura;
studi epidemiologici multicentrici e di impatto sanitario  hanno documentato nelle popolazioni residenti nell’area che l’inquinamento atmosferico ha determinato un aumento della mortalità e morbosità per malattie cardiache e respiratorie;
lo studio SENTIERI dell’Istituto Superiore di Sanità ha evidenziato  un eccesso di mortalità per il tumore del polmone nella popolazione di Taranto pari a circa il 30%, in entrambi i generi (Pirastu et al. 2011);
gli studi epidemiologici più recenti hanno documentando danni alla salute a breve e lungo termine (mortalità per cause cardiache ed eventi coronarici acuti ed un incremento significativo della mortalità per patologie respiratorie e per tumori nella popolazione 0-14 anni), con effetti più forti nei quartieri più inquinati (Tamburi e Borgo) rispetto all’intero comune di Taranto (Mataloni et al, 2012).
L’Associazione Italiana di Epidemiologia esprime una forte preoccupazione per l’uso distorto e strumentale di dati pseudo-scientifici con  l’obiettivo di  invalidare le evidenze prodotte fino ad oggi attraverso gli studi epidemiologici ed a  misconoscere l’impatto sanitario delle emissioni dell’ILVA sulla popolazione e sui lavoratori.
L’AIE sottolinea che i risultati dei molti studi condotti nell’area di Taranto e le evidenze ben consolidate di letteratura devono costituire la base per effettuare una Valutazione di Impatto Sanitario (Health Impact Assessment), che rappresenta uno  strumento di indagine utile per caratterizzare i possibili effetti sanitari presenti e futuri di un sito, di un’opera infrastrutturale, di un  impianto industriale.
AIE sostiene infine che i dati prodotti fino ad oggi siano sufficienti a considerare urgente e non più rinviabile l’attuazione di interventi di abbattimento dei livelli di inquinamento presenti nell’area di Taranto, e di bonifica dei siti inquinati, a salvaguardia della salute della popolazione residente e di quella delle generazioni future.
15 luglio 2013

Per contatti:
Dott.ssa Paola Michelozzi, Presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, e-mail: p.michelozzi(at)deplazio.it




La caduta del saggio di profitto in Paul Mattick*

di  Riccardo Bellofiore

il sistema capitalistico in tutte le sue fasi può essere considerato in stato di crisi permanente... Dal riproporsi della tendenza al «crollo» preconizzata da Marx non si può derivare alcuna tendenza automatica ad una politica rivoluzionaria. Per troppo tempo, secondo Mattick, è stata sospesa la tendenza all’impoverimento assoluto. Ma proprio il riattualizzarsi della tendenza alla crisi non può che riaprire la possibilità di una prassi antagonistica, senza che di essa vi sia mai certezza

(…) Le tesi di Mattick sono a prima vista inseparabili dalla tendenza ad un crollo ineluttabile in conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta all’aumento della composizione organica del capitale. Quando si passa dalla politica all’economia il «luxemburghiano» Mattick scarta senza molti complimenti la teoria della crisi da realizzazione dell’autrice dell’Accumulazione del capitale. L’insufficienza della domanda effettiva esprime una sovraproduzione di merci per cui la crisi deriverebbe dalla circolazione, e in fondo dall’insufficienza dei consumi, e non invece dalla dinamica della produzione e dalla insufficienza del plusvalore estratto dai portatori viventi della forza-lavoro, come nel Capitale.
Tesi del genere vanno innanzi tutto bene interpretate nella loro portata. Per Mattick, Marx non si attendeva affatto un crollo automatico, meramente economico, del capitalismo. La crisi finale del capitalismo si può produrre solo grazie ad azioni rivoluzionarie. Ogni crisi reale va spiegata a partire dalle condizioni concrete. Il modello di capitalismo su cui ragiona Marx è un modello «astratto» da cui, per il suo stesso autore, non è possibile derivare «previsioni» o conferme empiriche. Ciò che in teoria è l’esito ultimo di una ininterrotta accumulazione del capitale si deve presentare nella realtà come un ciclo ricorrente; ogni ciclo è, per così dire, una replica sintetica della tendenza di lungo periodo della espansione capitalistica. È soltanto quando la crisi capitalistica scoppia che la teoria marxiana viene convalidata, poiché è solo in questo caso che l’astratta analisi di valore della produzione capitalistica trova la sua verifica osservabile: quando il capitalismo è nella fase di espansione la caduta del saggio del profitto viene compensata da un aumento della massa dei profitti in rapporto a una massa di capitali più cospicua.
Mentre Keynes attribuiva i problemi dell’accumulazione ad un insufficiente incentivo ad investire, Marx le riconduceva al carattere fondamentale della produzione in quanto produzione di capitale. L’aumento della composizione organica è per Mattick incontestabile. Qualunque sia la massa della forza-lavoro nel capitalismo, la massa del capitale costante aumenta in modo sempre più rapido e la parte di forza-lavoro che produce plusvalore si riduce relativamente sempre di più. In termini logici ciò significa che una accumulazione sempre più rapida del capitale trasformerà prima o poi in diminuzione assoluta la diminuzione relativa del saggio di profitto. È solo quando ciò si verifica che la realtà corrisponde al modello di espansione del capitale descritto da Marx.
La crisi capitalistica è sovraproduzione di capitale esclusivamente con riferimento a un determinato grado di sfruttamento. Mattick sa benissimo che sino a che è possibile innalzare adeguatamente il saggio del plusvalore la caduta tendenziale del saggio del profitto resta allo stato latente. Inoltre, il capitalismo non è un sistema chiuso, e dunque l’aumento della composizione organica può essere rallentato mediante l’espansione all’estero e mediante l’importazione di profitti dall’estero. Sottolinea pure che i ricorrenti salti tecnologici sono tali che, anche se la composizione organica del capitale può rimanere la stessa in termini materiali, essa può diminuire in termini di valore: un «aggiustamento» che aumenta la profittabilità dei capitali. La stessa crisi capitalistica, scrive, è una «causa antagonistica», così come lo è ogni fenomeno concreto che aumenta il plusvalore dei capitali investiti o ne riduce il valore in rapporto al plusvalore disponibile. Di più, l’incremento della produttività fa crescere i valori d’uso (mezzi di produzione e beni salario) che permettono la messa in moto di più lavoratori nella produzione. La crescente composizione organica del capitale non ridurrà l’effettivo saggio del profitto finché il capitale si accumula più rapidamente di quanto non diminuisca lo stesso saggio del profitto(...)

venerdì 12 luglio 2013

Il governo dell’Europa. Intervista a Étienne Balibar

a cura di Claudia Bernardi e Luca Cafagna*

La gestione neoliberale della crisi del capitalismo ha imposto quella che Étienne Balibar definisce, riprendendo le analisi schmittiane, una «dittatura commissaria»: una ridefinizione dell’assetto istituzionale europeo secondo stati d’eccezione che impongono una gestione dall’alto della crisi tramite gli ormai noti governi nazionali imposti dalla troika. Il processo di finanziarizzazione ha provocato una violenta trasformazione delle forme stesse della politica, ora subordinate al ciclo economico di cui sono la piena espressione

L’architettura istituzionale e la possibile costituzione di un’unione europea sono divenute uno dei temi più dibattuti in questa fase di transizione in cui permangono il deficit di democrazia e la divaricazione tra poteri democratici – quelli che Balibar definisce «contropoteri insurrezionali» – e le istituzioni europee.
Se la dittatura commissaria costituisce una delle forme privilegiate della governance europea, è pur vero che quest’ultima inizia a intravedere limiti nelle politiche di austerità finora applicate. La gestione politica della crisi neoliberale è completamente incapace di rilanciare politiche espansive o un ripensamento complessivo del «progetto Europa». Questi nodi costituiscono sia la posta in palio sia il terreno di scontro per poter costruire nuove istituzioni democratiche all’interno dello spazio europeo dei movimenti.

d.       La scorsa settimana il presidente François Hollande ha dichiarato che secondo il governo francese sarebbe opportuno giungere a una unione politica più marcata dell’Europa entro il 2015. Alla costituzione di un bilancio comune, di una politica fiscale, di difesa e sicurezza comune, fa da contraltare un processo europeo estremamente deficitario dal punto di vista democratico. Come si colloca questa affermazione in confronto al costante deficit di democrazia?

r.       L’impressione immediata è che la preoccupazione principale sia, come negli ultimi anni, quella di raggiungere un certo livello di efficacia o di funzionamento organizzato dei poteri dall’alto, piuttosto che cercare una forma più democratica. Questo ha a che vedere con il fatto che generalmente gli Stati europei, o le classi politiche per essere più concreti, soprattutto nel caso della Francia, non hanno mai avuto veramente l’idea di introdurre il popolo come «terzo giocatore» nel confronto complicato tra Stati nazionali ed elementi federali europei.
L’elemento nuovo è stato introdotto dalla crisi monetaria e dal nuovo ruolo della Bce. Il cosiddetto deficit democratico, infatti, è sempre già concepito come un deficit di legittimità. Secondo me, il problema della legittimità esiste ed è un problema politico importante, ma la questione democratica non si riduce al problema di legittimare le istituzioni europee. Occorrerebbe rovesciare l’ordine di importanza dei due aspetti. Ciò di cui i cittadini europei hanno bisogno è un’Europa più democratica, non un governo europeo più legittimo, sebbene anche questa sia una cosa importante.

d.       Una seconda questione che vorremmo porle è relativa alle politiche di austerità. Recentemente ci sono stati interventi, anche da parte di esponenti dei governi europei, che mettono in discussione l’efficacia delle politiche di austerità. In alternativa a ciò viene spesso proposto un nuovo progetto di welfare europeo o un’evocazione del New Deal. Vorremmo sapere quali sarebbero le caratteristiche di questo New Deal, di un nuovo patto per rifondare l’Europa da un punto di vista politico, prima di tutto, e poi economico.

r.       Non sono un economista, ma leggo quanto posso di queste discussioni. Per me ci sono due aspetti, quasi due misteri, due problemi irrisolti in questa discussione. Il primo aspetto è la razionalità della politica di austerità dal punto di vista capitalista o, anzi, di equilibrio del sistema economico europeo. Non tutti, ma la stragrande maggioranza degli economisti, già da anni, spiega che l’austerità in questa forma è un’imbecillità dal punto di vista economico. In principio dovrebbe servire a risolvere i deficit enormi, i debiti pubblici, ma nei fatti il risultato è una compressione del reddito nazionale – anche per la Germania – e quindi le possibilità di rimborso del debito non aumentano ma diminuiscono.

d.       La questione immediatamente successiva è: perché ostinarsi nella via sbagliata?

r.       Da alcuni mesi l’Fmi ha cominciato a spiegare che bisognerebbe cambiare direzione, ma per anni sono state mantenute queste politiche. Allora le spiegazioni che sentiamo sono di due tipi, non incompatibili forse. Da un lato, una spiegazione ideologica, puramente ideologica, che ci rimanda alla concezione cosiddetta «ordoliberista» dominante in Germania, che è la potenza principale. L’altra spiegazione, che non possiamo eliminare, è che nei fatti l’austerità non serve a risolvere la crisi dal punto di vista sistemico o complessivo, ma è una fonte di profitti e di benefit molto importanti per alcuni, compresa la stessa Germania, a breve termine. Leggevo l’altro giorno su «Die Zeit», che non è sempre stata molto critica rispetto a ciò, un articolo molto interessante sul modo in cui la Germania finanzia le proprie attività economiche sfruttando il famoso spread dei tassi ecc. Cioè, il fatto che le difficoltà di credito dei paesi dell’Europa meridionale producono come risultato indiretto tassi di prestito minimi o anche negativi per la Germania stessa.

d.       Questo è il primo problema: a chi giova, non a che giova, l’austerità?

r.       Il secondo problema riguarda il New Deal di cui si stava parlando: è una prospettiva seria, per me molto interessante, ma che non può e non deve essere percepita in modo puramente tecnico o tecnocratico. Un New Deal sistematico, complessivo, naturalmente adattato alle circostanze di oggi, non può esistere senza tre – diciamo – pilastri o elementi.
Uno è ovviamente quello che la politica attuale impedisce, cioè investimenti pubblici, piani di sviluppo, un nuovo piano Marshall per l’Europa meridionale, un altro progetto economico per l’Europa. Il secondo, naturalmente, è una politica della domanda e non solo una politica dell’offerta. Il che vuol dire un cambio radicale nella distribuzione del reddito tra la popolazione europea. Questo va completamente contro la tendenza attuale di raggiungere una competitività sufficiente a livello globale abbassando il livello di vita della maggioranza della popolazione. E quindi, terzo aspetto, un ruolo più attivo delle forze popolari e democratiche a livello nazionale.
Il New Deal americano, le politiche sociali dell’immediato dopoguerra in Europa e soprattutto in Inghilterra: non so se avete già visto il film di Ken Loach sulle nazionalizzazioni inglesi, The Spirit of ’45; quella non fu una rivoluzione socialista, ma un momento di equilibrio. Per il momento i progetti del cosiddetto New Deal prendono in carico i primi due aspetti, ma escludono il terzo, che ci rimanda alla questione precedente.
Il New Deal non è semplicemente un modo di gestire il reddito, è una politica complessiva, o sarebbe una politica complessiva, se la parola volesse significare qualcosa.

*dal nuovo numero di alfabeta2  n°31 – luglio/agosto 2013 (in edicola e in libreria ed anche in versione digitale)


giovedì 11 luglio 2013

Un reddito di base come reddito primario

di Andrea Fumagalli , Carlo Vercellone

Più che di un reddito di cittadinanza si dovrebbe parlare di un reddito di base incondizionato: un salario sociale legato ad un contributo produttivo oggi non riconosciuto. La sua instaurazione permetterebbe la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non-mercantile e di forme di cooperazione alternative 

Sia sul sito di Sbilanciamoci che su il manifesto sono apparsi alcuni articoli critici in materia di reddito di cittadinanza (vedi, tra gli altri, gli articoli di Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di cittadinanza, e Lunghini, Reddito sì, ma da lavoro). In questa sede, vorremmo chiarire alcuni principi di fondo per meglio far comprendere che cosa, a nostro avviso, si debba intendere quando in modo assai confuso e ambiguo si parla di “reddito di cittadinanza”. Noi preferiamo chiamarlo reddito di base incondizionato (Rbi) ed è su questa concezione che vorremmo si sviluppasse un serio dibattito (con le eventuali critiche). Le note che seguono sono una parte di una più lunga riflessione che apparirà sul n. 5 dei Quaderni di San Precario.
La proposta di un Rbi di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego, elaborata nel quadro della tesi del capitalismo cognitivo, poggia su due pilastri fondamentali.
Il primo pilastro riguarda il ruolo di un Rbi in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La disoccupazione e la precarietà sono qui intese come il risultato della posizione subalterna del salariato (diretto e eterodiretto) all’interno di un’economia monetaria di produzione: si tratta della costrizione monetaria che fa del lavoro salariato la condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. In questa prospettiva, il ruolo del Rbi consiste nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava ironicamente Marx, il “suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del Rbi – in quanto strumento e non fine a e stesso (spesso si fa confusione al riguardo) – aumenterebbe il grado di autonomia rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che oggi ha perso la sua centralità storica.
Da questa concezione derivano due corollari essenziali.
In primo luogo, l’importo monetario del Rbi deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà se non il 60% del salario mediano – non medio) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità subita sotto la forma di precarietà. In questa prospettiva, il Rbi permetterebbe inoltre un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa, in un contesto in cui per una parte crescente della forza-lavoro l’orario settimanale di lavoro non è più oggi quantificabile, né misurabile.
In secondo luogo, la proposta di Rbi si iscrive in un progetto più ampio di rafforzamento della logica di demercificazione dell’economia all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni, sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc.) e adeguandole alle nuove forme di lavoro, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precari non riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale oggi in vigore)
Il secondo pilastro della nostra concezione del Rbi consiste nel considerarlo come un reddito primario, vale a dire un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta.
Infatti, contrariamente agli approcci in termini di fine del lavoro, la crisi attuale della norma fordista dell’impiego è lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di valore e di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo cognitivo non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso ad una misurazione ufficiale, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello della fabbrica come della società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.
La prima rinvia alla dinamica che vede la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) e incorporato essenzialmente negli uomini (il cosìdetto capitale umano) superare la parte del capitale materiale nello stock di capitale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita. Ora, questo fatto stilizzato significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. In secondo luogo, viene evidenziato un altro fatto sistematicamente omesso dagli economisti dell’Ocse: i settori motori del nuovo capitalismo della conoscenza corrispondono sempre più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Si tratta di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro è dominante e si potrebbe sviluppare potenzialmente un modello di sviluppo alternativo fondato sulla produzione dell’uomo attraverso l’uomo e la centralità di servizi universali forniti al di fuori di un logica di mercato. Tutti questi fattori, e gli interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare introducendovi, per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica della concorrenza e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica del valore. La cosiddetta crisi del debito sovrano è stata e resta il pretesto per accelerare queste tendenze. Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità macro-economica delle politiche pro-cicliche e dei piani d’austerità richiesti dai mercati finanziari e dalla celebre Troika (Fmi, Ue, Bce).
La seconda evoluzione concerne il passaggio, in numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori. In questo contesto, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione durante l’orario ufficiale di lavoro diventa soltanto una frazione del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza e saperi che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro, si attenuano, e ciò avviene con una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione oggi non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini. Essa, infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore finanziario.
Dall’altro, per questa stessa ragione si creano un conflitto e una tensione crescenti tra questa tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.

mercoledì 10 luglio 2013

Moltitudine: la macchina desiderante dell’espressione contrapposta alla rappresentazione

di Otonom

Occupy Gezi ha dato avvio ad una rivolta contro la mercificazione e la classificazione della vita secondo la rendita. È  desiderio di libertà tra le differenze immanenti ai gradi d’intensità, in contrasto con l’equalizzazione quantitativa che annichilisce le qualità di singolarità e differenze ... la moltitudine è  una virtualità che promuove la continua espressione delle singolarità. Consiste di atti immanenti alle tendenze, e di differenze e differenziazioni

Il primo giugno 2013 abbiamo iniziato ad interpretare il politico in un altro modo: non più a partire dalla prospettiva della rappresentazione, ma da quella dell’espressione. Il primo giugno non è, infatti, riducibile a “dato” – corrispondente alla misurazione del tempo attraverso la sua spazializzazione –, ma è “evento”, flusso e intersezione di durate singolari e non misurabili. Non si riferisce a esercizio di ragione o a soggetto che trasforma la vita in oggetto, ma all’evento in quanto vita, in quanto flussi di corpi e affetti. È espressione di un affetto e della sua idea, è un divenire. Pertanto, il primo giugno non può essere valutato secondo i canoni di una nazione o di un popolo che agisce inserito nella gerarchia dell’universale, della rappresentazione e del soggetto. Ci mostra invece una moltitudine in atto, che è macchina desiderante e che funziona nell’inconsapevole virtualità della singolarità, del corpo, dell’affetto e della vita.
Un nuovo piano del politico è in divenire. È palese che le faglie della modernità – piano della rappresentazione, del soggetto, della ragione e della gerarchia – si stiano oggi muovendo. Nell’incommensurabile virtualità, un tale atto è un terremoto. Al politico della rappresentazione subentra il piano dell’“espressione”,che significa il politico dalla prospettiva del corpo. Il discorso centrale di questo nuovo piano del politico è la “dignità”, ovvero la corporea espressione della de-classificazione contrapposta alla classificazione per rappresentazione. Il primo giugno è un consapevole urlo di dignità: etica contrapposta a moralità. Contro e oltre gli affetti regolati dal movimento dei concetti e dalla coscienza, ci troviamo in un piano di concetti plasmati dai flussi e dalle intersezioni tra affetti, differenze e differenziazioni. Il piano politico del senso e della significazione sembra dunque attraversare una fase di radicale cambiamento. Il linguaggio della rappresentazione – della vecchia sinistra – ha raggiunto un’impasse, e assistiamo alla costituzione di un nuovo linguaggio di sinistra. Ciò che è politico trasmigra dal linguaggio della rappresentazione a quello dell’espressione, poiché il primo si dimostra impotente e insufficiente per significare il piano del politico.
Il primo giugno è il prorompere del politico non-rappresentativo ed extra-parlamentare. È  espressione del “cambiare il mondo senza prendere il potere”. Il piano della moralità politica ci dice:“questo è quanto dovete fare”. Il bene e il male sono valori universali. Secondo lo stato, la rappresentazione e il primo ministro Erdogan, il bene è universalità, necessità e arroganza cui bisogna sottostare. Al contrario, l’etica muove dalla singolarità, dal corpo, dall’umiltà e dalla libertà, e domanda: “Qual è la mia potenza? Se sono potenza, allora che cosa posso?” Nella prospettiva etica, quindi, non esistono “bontà” o “malvagità” universali, ma esistono il bene e il male della singolarità. Il primo giugno significa la politica dalla prospettiva dell’etica piuttosto che da quella della moralità. È  l’urlo che rivendica il mio “bene” piuttosto che la bontà universale. E urla: “Non interferire con la mia vita, Rispetta la mia vita!”. È  desiderio di libertà tra le differenze immanenti ai gradi d’intensità, in contrasto con l’equalizzazione quantitativa che annichilisce le qualità di singolarità e differenze. Occupy Gezi ci ha permesso di sperimentare la costruzione di una vita indipendente da un soggetto. Il primo giugno, proprio perché non personificato in alcuna rappresentazione, è l’equivalente odierno della Comune di Parigi, delle Rivoluzioni del 1848, del Kronstadt e del 1968. Il primo giugno è un movimento che dice: “giù le mani dalla mia dignità!” Il politico non ha più a che fare con gli interessi dialettici. Si è già mosso verso un altro piano: quello etico-politico. Ed è la vita, la cultura stessa ad essere etico-politica. E, in quanto attività, è anche creazione, arte ed estetica. L’etico consiste nel trovare virtù in una sconfitta onorevole piuttosto che in una disonorevole vittoria.

Disordini in paradiso

di Slavoj Žižek

Nella sua prefazione a Per la critica dell’economia politica, Marx scriveva (nel suo peggiore modo evoluzionista) che l’umanità si propone solo i problemi che sia in grado di risolvere. E se invertissimo questa frase e dichiarassimo che, come regola generale, l’umanità si propone solo i problemi che non possono essere risolti, e quindi mette in moto un processo il cui sviluppo è imprevedibile, e nel corso del quale lo stesso obiettivo viene ridefinito?

Nei suoi primi scritti, Marx descrive la situazione in Germania come una di quelle situazioni in cui l’unica risposta a problemi specifici sarebbe una soluzione universale: la rivoluzione globale. È l’espressione condensata della differenza tra un periodo riformista e un periodo rivoluzionario: in un periodo riformista, la rivoluzione globale resta come un sogno che, se serve a qualcosa, è solo per dare peso a tentativi di cambiare qualcosa a livello locale; in un periodo rivoluzionario, si vede chiaramente che niente migliorerà senza un cambiamento globale radicale. In questo senso puramente formale, il 1990 è stato un anno rivoluzionario: le molte riforme parziali negli stati comunisti non avrebbero mai risolto i problemi; ed è stato necessario un crollo totale, per risolvere tutti i problemi della vita di tutti i giorni. Per esempio, il problema di dare cibo sufficiente alle persone.
A che punto siamo oggi, quanto a questa differenza? I problemi e le proteste degli ultimi anni sono i segnali che una crisi globale si avvicina, o sono solo piccoli ostacoli che si possono affrontare con interventi locali? Il fatto più notevole di queste eruzioni è che stanno avvenendo non solo, né principalmente, nei punti deboli del sistema, ma nei punti che finora erano stati percepiti come storie di successo. Noi sappiamo perché le persone stanno protestando in Grecia o in Spagna, ma perché ci sono proteste nei paesi ricchi e in rapido sviluppo come la Turchia, il Brasile o la Svezia?
Con un pò di distanza, si può vedere che la rivoluzione di Khomeini nel 1979 è stato il caso originale di “Trouble in Paradise”, dato che è accaduta in un paese che camminava a passi rapidi verso la modernizzazione filo-occidentale, ed era l’alleato più stabile dell’occidente nella regione.
Prima dell’attuale ondata di proteste, la Turchia era forte: modello ideale di stato stabile, che combinava una emergente economia liberale con un islamismo moderato. Pronta per l’Europa, un gradito contrasto con la Grecia più “europea’” perduta in un labirinto ideologico e incamminata verso l’autodistruzione economica. Sì, è vero: qui e là sempre si vedevano spuntare alcuni segnali negativi (la Turchia ha sempre negato l’olocausto degli armeni; l’incarcerazione di giornalisti, lo status irrisolto dei curdi; gli appelli a una “grande Turchia” che avrebbe resuscitato la tradizione dell’Impero Ottomano; l’imposizione, in una occasione o l’altra, di leggi religiose). Ma questi fatti erano liquidati come difetti minori che non compromettevano l’immagine grande.
E poi sono scoppiate le proteste in piazza Taksim. Non c’è chi non sappia che i piani per trasformare un parco intorno a piazza Taksim, nel centro di Istanbul, in un centro commerciale non sono stati il “caso” che ha scatenato quelle proteste; e che un malessere molto più profondo prendeva forza. Lo stesso si deve dire delle proteste di metà giugno in Brasile: sono state scatenate da un piccolo aumento del biglietto del trasporto pubblico, e sono continuate anche dopo che l’aumento è stato revocato. Anche in questo caso, le proteste sono scoppiate in un paese che – almeno secondo i media – era in pieno boom economico e con tutte le ragioni per sentirsi fiducioso sul futuro. In questo caso, le proteste sono state apparentemente sostenute dalla presidente Dilma Rousseff, che se ne è dichiarata assolutamente soddisfatta.

Ciò che accomuna le proteste in tutto il mondo – per quanto diverse siano in apparenza – è che tutti reagiscono contro diversi aspetti della globalizzazione capitalistica

È crucialmente importante che noi non vediamo le proteste turche meramente come una società civile laica turca che insorge contro un regime islamico autoritario, sostenuto da una maggioranza islamista silenziosa. Ciò che complica il quadro è l’impeto anticapitalista delle proteste. I manifestanti sentono intuitivamente che il fondamentalismo di mercato e il fondamentalismo islamico non si escludono a vicenda.
La privatizzazione dello spazio pubblico attraverso l’azione di un governo islamista mostra come le due forme di fondamentalismo possono lavorare mano nella mano. È un chiaro segno che il matrimonio “per l’eternità” tra democrazia e capitalismo è già avviato verso il divorzio.
È anche importante riconoscere che i manifestanti non mirano a un qualsiasi obiettivo “reale” identificabile. Le proteste non sono “realmente”, contro il capitalismo globale, né “realmente” contro il fondamentalismo religioso, non “realmente” in favore delle libertà civili e della democrazia, né cercano “realmente” qualunque altra cosa specifica. Ciò che la maggior parte di coloro che hanno partecipato alle proteste “sa” è un malessere, una insoddisfazione fluida, che sostiene e unisce varie esigenze specifiche.
La lotta per capire le proteste non è solo lotta epistemologica con giornalisti e teorici che cercano di spiegare il suo contenuto “reale”: è anche una lotta ontologica sulla cosa in sé, su ciò che sta accadendo all’interno delle stesse proteste. È solo una lotta contro un governo corrotto? Contro il governo islamico autoritario? Contro la privatizzazione dello spazio pubblico? La domanda rimane aperta. E da come si risponde dipenderà l’esito di un processo politico in corso.
Nel 2011, quando facevano irruzione proteste in tutta Europa e in tutto il Medio Oriente, molti insistevano che non fossero trattate come istanze di un unico movimento globale. Al contrario, costoro affermavano, ci sarebbe stata una risposta specifica per ogni situazione specifica. In Egitto, i manifestanti volevano quello che in altri paesi era stato il bersaglio di critiche da parte del movimento Occupy: “democrazia” e “libertà”. E anche tra paesi mussulmani ci sarebbero state differenze cruciali: la primavera araba in Egitto sarebbe stata contro un regime autoritario e corrotto alleato dell’Occidente; la Rivoluzione Verde in Iran, che ha avuto inizio nel 2009, sarebbe stata contro l’Islam autoritario. È facile vedere quanto questa particolarizzazione delle proteste serva ai difensori dello status quo: non vi è alcuna minaccia diretta all'ordine globale come tale. Solo una serie di problemi locali separati …
Il capitalismo globale è un processo complesso che colpisce diversi paesi, in modi diversi. Ciò che unisce tutte le proteste per quanto sfaccettate siano, è che tutti reagiscono contro diverse sfaccettature della globalizzazione capitalista. La tendenza generale del capitalismo globale è oggi espandere il mercato, e invadere e accerchiare lo spazio pubblico, ridurre i servizi pubblici (sanità, istruzione, cultura) e imporre sempre più saldamente un potere politico autoritario. In questo contesto, i greci stanno protestando contro il comando del capitale finanziario internazionale e contro il loro proprio Stato inefficiente e corrotto, sempre meno in grado di fornire servizi sociali di base. In questo contesto, i turchi protestano contro la commercializzazione dello spazio pubblico e contro l’autoritarismo religiosa. E gli egiziani protestano contro un governo sostenuto dalle potenze occidentali. E gli iraniani protestano contro la corruzione e il fondamentalismo religioso. E così via.
Nessuna di queste proteste può essere ridotto a una singola questione. Tutti si occupano di una specifica combinazione di almeno due problemi, uno economico (dalla corruzione all’inefficienza dello stesso capitalismo), l’altro politico-ideologico (dalla richiesta di democrazia alla richiesta della fine della tradizionale democrazia multipartitica). Lo stesso vale per il movimento Occupy. Nella profusione di dichiarazioni (spesso confuse), il movimento mantiene due tratti fondamentali: in primo luogo, il malcontento verso il capitalismo come sistema, non solo contro un corrotto o l’altro o corruzioni locali; in secondo luogo, la consapevolezza che la forma istituzionalizzata di democrazia multipartitica non ha i mezzi per combattere gli eccessi del capitalismo. In altre parole, bisogna reinventare la democrazia.
Che la causa di fondo delle proteste sia il capitalismo globale non significa che l’unica soluzione sia quella di “rovesciare” il capitalismo. Né è possibile seguire l’alternativa pragmatica, che implica affrontare singoli problemi in attesa mentre si aspetta una trasformazione radicale. Questa idea ignora il fatto che il capitalismo globale è necessariamente contraddittorio e incoerente: la libertà di mercato va mano nella mano con gli Stati Uniti che proteggono la propria produzione agro-alimentare e agro-commerciale; predicare la democrazia va mano nella mano con il sostegno al governo dell’Arabia Saudita.
Questa incoerenza apre uno spazio per l’intervento politico: quando il capitalista globale è costretto a violare le sue proprie regole, lì vi è l’opportunità di insistere perché invece obbedisca a quelle regole. Esigere coerenza su punti strategicamente selezionati nei quali il sistema non può permettersi di pagare per essere coerente vuol dire mettere sotto pressione l’intero sistema. L’arte della politica sta nell'imporre richieste specifiche che, mentre esse sono perfettamente realistiche, colpiscono il cuore dell’ideologia egemonica ed implicano cambiamenti molto più radicali. Queste richieste, anche se sono valide e legittime, sono, di fatto, impossibile. Caso esemplare è la proposta di Obama di fornire assistenza sanitaria pubblica universale. Per questo le reazioni sono state così violente.
Un movimento politico inizia con un’idea, qualcosa per cui lottare, ma nel tempo,l’idea subisce profonde trasformazioni – non semplicemente un accomodamento tattico, ma una ridefinizione essenziale – perché l’idea stessa diventa parte del processo: essa diventa sovra determinata (abbiamo utilizzato la nota a piè di pagina di Žižek come incipit dell’articolo,ndr). Diciamo che una rivolta inizia con una domanda di giustizia, magari sotto forma di rifiuto di una determinata legge. Dopo che il popolo si è profondamente impegnato nella rivolta, si rende conto che ci vorrà molto di più della domanda iniziale, perché ci sia una vera giustizia. Il problema allora è quello di definire, precisamente, in che consiste questo “molto di più”.
La prospettiva liberal-pragmatica pensa che i problemi possono essere risolti gradualmente, uno per uno: “Ci sono ora persone che muoiono in Ruanda, allora lasciamo perdere la lotta antimperialista e andiamo a impedire il massacro”. Oppure: “Dobbiamo combattere la povertà e il razzismo, qui e ora, non aspettare il crollo dell’ordine capitalistico mondiale”. John Caputo sostiene esattamente questo in After the Death of God (2007):
Sarei perfettamente felice se i politici di estrema sinistra negli Stati Uniti fossero in grado di riformare il sistema fornendo assistenza sanitaria universale, redistribuendo effettivamente la ricchezza in modo più equo, con un sistema fiscale ridefinito, limitando i finanziamenti privati alle campagne elettorali, consentendo il suffragio universale per tutti, trattando con umanità i lavoratori migranti, e conducendo una politica estera multilaterale che integri il potere degli Stati Uniti all'interno della comunità internazionale, ecc. Vale a dire, intervenendo sul capitalismo attraverso profonde riforme, a lungo raggio … Se dopo che si fosse fatto tutto questo, Badiou e Žižek ancora si lamentassero che un mostro chiamato Capitalismo ci perseguita, sarei incline ad accogliere un tale mostro con uno sbadiglio.