domenica 30 giugno 2013

Siamo di fronte a un cambio di fase?

di Andrea Fumagalli

s’è aperta una nuova fase europea verso una inversione di marcia nella governance economico-finanziaria? Saranno le elezioni tedesche di settembre a completare la fase di transizione? Le politiche d’austerity potranno essere, se non invertite, almeno allentate? Ci sono tutti gli ingredienti per procedere ad un cambio di passo. Il nuovo scenario si apre alla insegna del conflitto tra due poteri costituenti. Epperò, bisogna interrogarsi: alla governance dominante in cerca di una nuova ristabilizzazione sarà capace di contrapporsi una costituente sociale del comune?

Dall’inizio dell’anno sono aumentate le dichiarazioni sulla necessità di allentare le misure di austerity (non di abolirle, si badi bene). A novembre 2012, il capo economista del FMI, Olivier Blanchard ha ammesso che gli effetti recessivi delle politiche di rientro dal debito in alcuni paesi europei sono stati sottostimati.
I primi dati del 2013 hanno confermato che anche la Francia (dopo Portogallo Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ovvero i Pigs) è ufficialmente entrata in recessione dopo il secondo segno negativo consecutivo negli ultimi due trimestri. Ma neanche la Germania se la passa meglio. Il 5 maggio 2013 l’Olanda ha annunciato che rinunzierà al programma di austerità che doveva ridurre il deficit per uno 0,8% del Pil. Pochi giorni prima (25 aprile) il commissario europeo agli Affari Economici Olli Rehn ha affermato che “il rallentamento del consolidamento (riduzione del deficit e debito pubblico, ndr.) è possibile”.
In parole più chiare, le politiche d’austerity possono quindi essere allentate. Sul piano accademico, il fondamento teorico delle validità delle politiche di austerità (che si basava sul lavoro di due insigni economisti di Harvard, Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, in cui si mostra che un rapporto debito/PIL superiore al 90% porta a una fase di recessione) è stato fragorosamente invalidato da economisti dell’Università del Massachusetts (non Harvard) che hanno ravvisato un errore di calcolo nel procedimento di stima e la cui correzione ha portato a risultati opposti (il cd. excelgate che tanto dibattito ha scatenato negli Stati Uniti, ma che è stato occultato del tutto dai media italiani: al riguardo, aspettiamo con ansia un editoriale di Giavazzi e Alesina sul Corriere della Sera).
Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per procedere ad un cambio di passo nella governance economico-finanziaria dell’Europa. Stiamo dunque entrando in una nuova fase? Possiamo dire che siamo in una fase di transizione, che probabilmente avrà termine nel prossimo settembre, all’indomani delle elezione tedesche, almeno per quanto riguarda l’Europa.
Da un lato, la stretta creditizia continua a operare sull’economia reale, in modo dipendente dalle dinamiche che si determinano nei mercati finanziari, oggi il centro del processo (instabile) di valorizzazione. Dall’altro, guardando oltre l’Europa, la creazione di liquidità sui mercato asiatici, grazie alla svolta operata dal nuovo governo giapponese (la cd. Abeconomics), subito seguita dalla Korea del Sud e gioco forza dalla Federal Reserve USA, se, per certi aspetti, come nel caso dell’economia giapponese ha spinto la crescita del Pil, tuttavia può creare instabilità nella finanza speculativa (come l’andamento delle borse mondiali in questo periodo testimonia).

sabato 29 giugno 2013

Femministe a parole. Un libro per tutte e per nessuna

di Evelyn Couch

Come recita il sottotitolo, il libro Femministe a parole (Ediesse, Roma, 2012, pp. 368), curato da Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat e Vincenza Perilli, si presenta come un insieme di grovigli da districare. La raccolta di voci, che va dalla A di Anticolonialismo alla W di Welfare transnazionale, è stata compilata da diverse autrici – più un autore e un collettivo – che hanno cercato di stilare una «lista di temi aggrovigliati». I lemmi sono selezionati dalle curatrici in modo parziale, ovvero secondo una scelta di parte derivata dal posizionamento di ognuna, «a volte distante e persino opposto», e sono pensati per essere letti da un pubblico vasto di donne e di femministe. Secondo l’intenzione delle curatrici, ridefinendo alcune delle proprie parole chiave il femminismo può ripensare se stesso. In questo groviglio di temi, o tra questi temi aggrovigliati, è allora legittimo chiedersi come riemerga il femminismo e in che modo riesca a esprimere una parzialità.

Si può dire che ne emerga, in primo luogo, un femminismo plurale. Non esiste – e non si vuole che esista – un accordo tra le molte autrici del libro sulla natura stessa della ricerca femminista. La disomogeneità delle posizioni è il punto di partenza dichiarato sin dall’introduzione, ritenuto necessario a «stimolare una riflessione critica sulle esperienze teoriche e pratiche che oggi abitano l’universo femminista». In questo modo, il testo è sicuramente in grado di cogliere la complessità del femminismo, che non è oggi e non è mai stato un discorso uniforme e privo di interne tensioni. Tuttavia, ciò che rischia di perdersi nella pluralità delle voci è il fatto che le tensioni sono anche luoghi di distanza, incomunicabilità e scontro, così che fare della disomogeneità un valore in sé rischia di diventare un pronunciamento a favore della completa malleabilità dei significati. Le parole, però, non sono segni neutri che si lasciano risignificare a piacere. Esse identificano chi parla, evocano simboli e significati, e portano con sé rapporti di potere. Come il femminismo ha storicamente dimostrato, le parole possono dire ma anche impedire di parlare, in base ai soggetti che prevedono e ai confini che pongono. Non sono immutabili ma sono il terreno di uno scontro. Mostrare tale scontro è possibile mettendo le parole alla prova del presente globale, a partire dai confini e dai loro attraversamenti. Così il libro può essere letto, senza pretendere di esaurire la quantità e qualità delle voci e la loro ricchezza tematica, per fare emergere, all’interno di quei «grovigli da districare», contraddizioni difficilmente ricomponibili in un’aspirazione pluralistica.
Per fare questo si può partire dalla voce meno «globale» di questo testo, ovvero Cittadinanza, una categoria che è stata storicamente contestata dalle istanze portate avanti dai soggetti che ne sono stati esclusi o inclusi in posizione subordinata e che oggi può essere osservata solo alla luce dei movimenti globali di uomini e donne e dell’orizzonte transnazionale del femminismo. Alessandra Sciurba registra questa dimensione non più confinabile della cittadinanza, e propone quindi di ridefinirla appellandosi alla «valorizzazione degli esseri umani in quanto esseri sociali inseriti in un contesto di interdipendenze con l’ambiente in cui vivono». In questo modo, anche se sembra riconoscere l’insieme delle condizioni concrete che determinano quanti godono della cittadinanza o ne sono esclusi, Sciurba recupera l’umanesimo che sta alla base del linguaggio astratto dei diritti, trascurando in ultima istanza le contraddizioni che proprio le donne e le femministe hanno continuamente fatto emergere, prima di tutto con le loro pratiche. Da questo punto di vista, è indicativo che venga citata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma non la Dichiarazione dei diritti delle donne di Olympe de Gouges, che nel momento stesso in cui rivendicava un’inclusione delle donne nella sfera della cittadinanza moderna metteva in luce i rapporti di potere sui quali essa si è strutturata sin dal principio. Certamente, Sciurba evidenzia come la cittadinanza possegga una «vocazione egualitaria» e al tempo stesso una «tendenza discriminante», che favorisce l’affermazione di quello che Foucault chiama razzismo di Stato, e riconosce la centralità di donne e migranti nella messa in crisi del concetto a partire da coloro che ne venivano esclusi. Questa critica, però, sembra ancorata a due limiti. In primo luogo, il riferimento al razzismo «di Stato» non tiene conto della natura transnazionale e quindi globale del potere veicolato dalle istituzioni che governano i regimi nazionali della cittadinanza. In secondo luogo, l’idea che il connotato nazionale e nazionalistico dei diritti determini la subordinazione solo dello straniero, l’altro da sé incarnato nel «diverso» per colore o patria, mentre si sostiene che le donne oramai sono state «almeno formalmente» normalizzate nella «funzione includente della cittadinanza». Insistere sulla natura solo formale dell’inclusione tiene aperta la possibilità di un’inclusione reale che non sconta alcune questioni che ci paiono dirimenti, ovvero in che modo le donne sono incluse nella cittadinanza, per quali motivi, con quali effetti? Quando le donne sono state ricomprese nella cerchia dei cittadini, spesso lo sono state come madri di famiglia, mogli o figlie, e la differenza sessuale è stata integrata nel meccanismo della cittadinanza, come elemento ora da ignorare in nome di una astratta uguaglianza, ora utile a rinsaldare i rapporti di potere tra i sessi. Quello che l’inclusione ha alimentato è stata in altri termini una divisione sessuale del lavoro che si è riconfigurata proprio attraverso il linguaggio dei diritti. In questo senso, sono le donne migranti che oggi permettono di portare alla luce con maggior forza le contraddizioni della cittadinanza, che si edifica sulle strutture patriarcali che rappresentano l’elemento di continuità tra il paese di origine e quelli di arrivo o di transito. Riconoscere la centralità delle donne migranti significa fare i conti con il fatto che l’idea di cittadinanza non può semplicemente essere risignificata e che, anzi, forgiando una nuova definizione non si crea un’arma contro la sua «vocazione» patriarcale ma ristabilisce la mutata continuità di questo istituto di inclusione subordinata.
Le donne migranti ricompaiono nella coppia Serva & Padrona, che Sabrina Marchetti discute guardando le dinamiche di potere nel rapporto tra le colf/badanti e le loro datrici di lavoro. Marchetti sostiene che l’inclusione delle migranti nell’economia della cura abbia implicato la «conservazione inalterata dei ruoli di genere». In questo senso, coglie molto bene che l’emancipazione di alcune donne dal lavoro riproduttivo tramite il lavoro salariato domestico e di cura di altre donne non mette in discussione la divisione sessuale del lavoro. In questa voce «dialettica», tuttavia, le figure della serva e della padrona rischiano di essere cristallizzate in una «frammentazione dei modelli di genere» che vedrebbe da una parte «le donne bianche, educate, cittadine» e dall’altra le «non bianche, povere e straniere». Alla luce di questa spaccatura diventa allora complesso considerare che, per quanto contraddittoriamente, le donne migranti possano conseguire proprio attraverso il lavoro domestico salariato un’autonomia almeno parziale dai rapporti familiari e dalle strutture patriarcali del paese di provenienza, oppure il fatto che molto spesso le «padrone» non sono affatto borghesi, ma usano una quota del loro salario per pagare quello delle loro «serve» oppure ancora, infine, che, con la crisi economica, molte donne – bianche, educate, cittadine – ritornino a lavorare dentro le proprie o altrui case perché rigettate dalla crisi fuori dal mercato del lavoro produttivo e nella povertà. Cade la frammentazione, ma rimane la divisione sessuale del lavoro, di cui le donne – migranti e non – continuano a fare esperienza per quanto in modi molto diversi. Quella tra serva e padrona rischia dunque di ridursi a una coppia semplicemente oppositiva, che impedisce di articolare l’insieme di differenze che si installano su una condizione che è pure comune.
Questo intreccio di problemi viene affrontato nella voce Intersezionalità, trattato da Vincenza Perilli e Liliana Ellena a partire da una ricostruzione delle radici del termine e da una discussione dell’uso che ne viene fatto nel dibattito femminista, dei suoi pregi ma anche dei suoi punti critici. Nato come strumento giuridico per supplire a «quei dispositivi legislativi di lotta alle discriminazioni incapaci di riconoscere la simultaneità dei diversi sistemi di dominio», l’intersezionalità ha il merito di riconoscere l’imbricazione delle differenze e delle forme di oppressione. Il concetto di intersezionalità sconta però tutti i limiti della prospettiva giuridica da cui trae origine che guarda ai rapporti sociali come a settori d’intervento codificabili mentre, nella realtà, il loro carattere è mobile. Questa mobilità dovrebbe ritrovarsi nella voce Migranti, che Francesca Brizzi elabora pensando alla figura di Antigone, donna che incarnerebbe il destino delle migranti. Per Brizzi, le migranti sarebbero nella posizione di parlare in nome di tutti gli offesi della terra, così che la loro identità è fissata nell’oppressione e il portato etico della loro posizione rischia di oscurare in questo modo le pratiche di lotta, individuali e collettive, che quotidianamente le donne migranti mettono in campo per sottrarsi a quell’oppressione. Le parole viaggio, confini o frontiere sono i punti fermi, seppur in movimento, della riflessione, che non va oltre la proposta del meticciato come categoria di analisi che dovrebbe combinarsi senza tensioni con il portato universalistico che nella posizione dei migranti e delle migranti si esprimerebbe. La rappresentazione del migrante – uomo o donna – è poi appiattita sul riconoscimento delle differenze culturali e religiose. Queste, così, sono in un certo senso cristallizzate: non sono messe alla prova della natura «mobile» delle differenze che la critica dell’uso giuridico della categoria Intersezionalità porta alla luce, e si traducono in altrettante «identità» che dovrebbero trovare posto in una «identità europea plurivoca», fondata su «principi morali universali» e sulla «dignità del singolo». In questo modo, diventa impossibile interrogarsi sui rapporti di (in)subordinazione che le stesse culture veicolano.

lunedì 24 giugno 2013

La rivolta in Brasile, una sfida "mondiale"

di Dafne Melo e Silvia Adoue

Cinque indizi: le sfide future, i perché e i precedenti della rivolta. Guardando con maggiore attenzione alla situazione notiamo – dicono gli autori di “Marcha” - come già da alcuni mesi i brasiliani stanno mettendo in luce come l’attuale modello politico-economico non risolve i problemi sociali

Non si tratta più solo di San Paolo. Questo lunedì migliaia di brasiliani sono scesi in piazza nelle principali città del paese. Si tratta delle più grandi manifestazioni nel paese dopo le lotte per le elezioni dirette del 1980. Brasilia, Belém, Salvador, Curitiba, Belo Horizonte, Vitoria, Porto Alegre, Rio de Janeiro e San Paolo. In queste ultime sono scesi in piazza in centomila secondo gli organizzatori. Dai primi anni ottanta che non si vedevano così tante persone scendere in piazza in Brasile. Le mobilitazioni sono iniziate meno di un mese fa a causa dell’aumento del biglietto degli autobus e si sono poi sviluppate in diverse città brasiliane.
Dopo ogni manifestazione, vi sono state pesanti risposte repressive ma al tempo stesso numeri sempre maggiori in piazza. All’aumento dei biglietti si è unita la rabbia per l’inizio della Confederations Cup, quindi le proteste fuori dagli stadi. Ma guardando con maggiore attenzione alla situazione notiamo come già da alcuni mesi i brasiliani stanno mettendo in luce come l’attuale modello politico-economico non risolve i problemi sociali: ricostruiamo qui alcuni indizi utili alla comprensione dei fatti.
In una scena del film “Queimada” di Gillo Pontecorvo, l’agente inglese William Walker, impersonato da Marlon Brando, dice “A volte le contraddizioni di un intero secolo appaiono in un solo decennio”. Parafrasando possiamo dire che in Brasile le contraddizioni degli ultimi 15 anni si stanno rivelando nell’ultima settimana.

Precedenti
L’anno scorso gli indigeni hanno mostrato la loro insoddisfazione con azioni radicali. Alcuni confrontandosi con la questioni delle grandi opere, come il complesso idroelettrico di Belo Monte nella zona nord del paese oppure con l’espansione deldel settore agroalimentare, aspetti che colpiscono pesantemente i loro territori.
Contro le previsioni di chi individuava in queste lotte gli interessi particolari di una piccola parte del popolo brasiliano, i lavoratori di Belo Monte hanno accolto l’occupazione indigena contro la costruzione della centrale idroelettrica. Quegli stessi lavoratori avevano scioperato poco prima per l’aumento dei salari e per richiedere migliori condizioni di lavoro. Anche senza parole d’ordine comuni e apparentemente legati ad interessi corporativi non corrispondenti, i lavoratori di Belo Monte hanno riconosciuto gli indigeni come fratelli. Questo è stato il primo indizio.
Negli stati del Mato Grosso do Sul, Mato Grosso, Río Grande do Sul y Paraná, durante l’ultimo mese, gli indigeni hanno affrontato con blocchi stradali e occupazioni di terre l’arretramento delle politiche di riconoscimento e delimitazione dei loro territori che il governo ha portato avanti su pressioni dell’industria agroalimentare. Hanno affrontato la repressione poliziesca e le azioni dei pistoleros (gruppi paramilitari al servizio dei padroni ndr) che hanno causato la morte di due indigeni del Mato Grosso del Sud: un terena e un guaraní-kaiowá. In questo stato il movimento dei lavoratori rurali senza terra, le comunità rurali di discendenti di schiavi e altri movimenti contadini si sono mobilitati al fianco degli indigeni per tre giorni, organizzati come Povos della Terra, rivendicando terra per vivere e lavorare. Questo è stato il secondo indizio.

La ribellione contro l’aumento dei biglietti
L’aumento delle tariffe dei biglietti nella maggior parte delle città ha dato vita ad un movimento giovanile per il “biglietto gratuito”. Durante i primi mesi dell’anno ci sono state mobilitazioni di massa che in alcuni casi hanno avuto successo impedendo l’aumento dei costi del biglietto in città quali Porto Alegre e Goiania. Quel che rimase fece da lezione: la lotta paga. Ma è stato durante la scorsa settimana che le mobilitazioni contro l’aumento dei costi del trasporto urbano sono diventate effettivamente una questione politica nazionale.
In occasione della prima mobilitazione una forte repressione ha colpito i giovani che hanno rilanciato con una seconda mobilitazione ancor più numerosa,di fronte alla quale lo Stato ha raddoppiato l’impegno repressivo e le mobilitazioni sono cresciute ancor di più, estendendosi a tutto il paese: nonostante la propaganda dei media mainstream i sondaggi rendono chiaro l’appoggio della maggior parte della popolazione nei confronti delle proteste. A nulla sono servite le campagne contro il “vandalismo”. Questo è il terzo indizio.
Nell’ultima manifestazione a Belo Horizonte non c’è stata repressione poliziesca perché la comandante della polizia si è rifiutata di applicare l’ordine giudiziario che imponeva la repressione. Ha preferito appellarsi alla Costituzione del paese che permette la libertà di manifestare ritenendo questa legge di valore superiore rispetto alla richiesta repressiva. Questo è il quarto indizio, anche se questo fatto può essere anche legato a questioni elettorali.

Il Brasile dei Mondiali
Se i recenti scioperi dei maestri sono stati repressi duramente e il salario dei docenti è stato ulteriormente compresso meno di un mese fa nello Stato del Cearà, emerge in maniera chiara il contrasto tra queste politiche e i "generosi" investimenti statali per le infrastrutture legate alla Confederations Cup e ai Mondiali di calcio. Queste opere, assieme al saccheggio di sempre maggiori aree per operazioni di speculazione immobiliare legata a questi eventi, hanno provocato sgomberi di migliaia di famiglie.
Questi grandi investimenti statali non solo hanno favorito solamente le grandi imprese di costruzioni ma hanno anche creato un contesto favorevole allo sviluppo di speculazioni, vferi e propri affari per queste stesse imprese. L’avvertimento di una “sospensione” dei diritti democratici durante il campionato mondiale non ha fermato le lotte. Gli abitanti dei quartieri toccati dalla speculazione, sia rispetto alle proprie condizioni di vita che rispetto all’orientamento degli investimenti statali volti a favorire il turismo, si sono mobilitati durante le partite di calcio della Confederations Cup, secondo diversi livelli di organizzazione nelle città di Brasilia, San Paolo e Rio de Janeiro. Questo è il quinto indizio.
Indizi di cosa? Dell’esaurimento di una fase calante delle lotte sociali in Brasile. Del rifiuto attivo del modello “neosviluppista” da parte delle classi popolari. Indizi non solo della necessità ma anche della possibilità di una nuova articolazione delle lotte contro l’espansione capitalistica. Una nuova alleanza che sappia mettere in questione la riconfigurazione dei rapporti tra le le classi operata dal capitale in espansione. Indizi di una azione diretta continua che proprio a causa della sua persistenza e dello scontro che mette in atto mira ad espandersi e continuare a lottare per ottenere con le lotte conquiste reali. Per questo è così importante fermare l’aumento del biglietto.
Non solo perché i prezzi dei biglietti li subiscono le classi popolari, anche se proprio i precari son quelli più vulnerabili e maggiormente colpiti dall’aumento. Ma soprattutto perché questa lotta è una possibilità di mutuo riconoscimento e complicità tra le classi popolari per immaginare lotte a venire, con parole d’ordine comuni e per costruire un progetto di paese incentrato sui diritti e non sul profitto del grande capitale.


venerdì 21 giugno 2013

Dividiamoci il lavoro

di Giovanni Mazzetti

Tra le intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza e le critiche di chi, come Giorgio Lunghini, pensa che quel reddito non risolva la questione dell’autonomia dei non occupati, rimane aperta una sola via: la redistribuzione del lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro ma senza decurtazioni di salario

Giorgio Lunghini nel suo “Reddito sì, ma da lavoro” (Sbilanciamoci.info 12 giugno 2013 http://www.sbilanciamoci.info/Ultimi-articoli/Reddito-si-ma-da-lavoro-18898) ha sottolineato che la proposta del reddito di cittadinanza soffre di limiti intrinseci. Con le sue parole: “quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolve la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.”
Si tratta di un’argomentazione logicamente ineccepibile. Ma l’evoluzione della realtà sociale notoriamente non va di pari passo con la logica, visto il ricorrente sopravvenire di eventi contraddittori, cioè di fenomeni che impongono la ristrutturazione degli stessi presupposti del ragionamento e dell’azione. Può così accadere che la giusta critica alla proposta del reddito di cittadinanza venga articolata senza tener conto di alcuni degli elementi che hanno fondatamente spinto i sostenitori di quella strategia ad optare per quella soluzione, anche se poi quegli stessi elementi li hanno spinti a sbagliare nello svolgimento della soluzione del problema, ma non nella sua formulazione di partenza. Cerchiamo di vedere di che cosa si tratta.
Lunghini rappresenta il quadro dei rapporti sociali attuali con il seguente schema:


Questo schema, a mio avviso distorce il dato di fatto con il quale ci stiamo confrontando. Il quadro delle relazioni produttive – sia di quelle che riescono a procedere fisiologicamente, sia di quelle che incontrano ostacoli – mi sembra che sia piuttosto il seguente:


Perché è importante tener conto di questa articolazione più complessa della realtà? La tesi di Lunghini è condivisibile per la parte di strada che ci permette di percorrere, ma non ci consente di portare il problema della disoccupazione di massa odierno alla sua coerente risoluzione. La produzione capitalistica di merci – dice – si arresta nonostante ci siano molti bisogni insoddisfatti perché la loro soddisfazione non garantirebbe alle imprese un profitto. Questo meccanismo impone, così, all’attività produttiva una limitazione artificiale, visto che le risorse materiali per soddisfare quei bisogni esistono.
Che fare per superare questo blocco? La risposta di Lunghini è chiara. “Si tratterebbe di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci alla messa in moto di … lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti … lavori di cui c’è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale”. Un passaggio che dovrebbe scaturire “dall’azione dello stato, attraverso istituzioni appropriate tutte da inventare”.
Ma, a mio avviso, a quel blocco delle spese capitalistiche, in assenza delle quali è impossibile il pieno uso delle risorse produttive esistenti attraverso i rapporti privati, si è risposto a partire dalla Seconda guerra mondiale, con lo sviluppo dello Stato sociale keynesiano, che per un trentennio ha garantito una spesa pubblica crescente, alternativa sul piano qualitativo e aggiuntiva su quello quantitativo.

Tant’è vero che in quel periodo abbiamo goduto del più straordinario sviluppo negli ultimi due secoli, uno sviluppo che ha radicalmente cambiato la vita degli abitanti dei paesi sviluppati, e ha assicurato il pieno impiego stabile, visto che la disoccupazione media nell’insieme dei paesi Ocse è stata, per tutto il trentennio, di appena il 3,3%. Per dirla in termini drastici: quello che Lunghini propone di fare è – in buona parte – già stato fatto. Non bisogna infatti dimenticare che in quel periodo l’occupazione pubblica in Gran Bretagna è triplicata, passando da 2.500.000 a 7.500.000 unità, realizzando quel sistema di soddisfazione dei bisogni non a pagamento rappresentato dai diritti sociali. Un aumento che, seppure in forma meno impetuosa, è intervenuto in tutti i paesi sviluppati e che, dopo trent’anni di smantellamento neoliberista, vede ancora occupata direttamente dalla spesa pubblica da 1/51/4   della forza lavoro complessiva.
Per quale ragione Lunghini non ha richiamato questo aspetto essenziale della storia recente? E come si intreccia questa omissione con la critica della proposta del reddito di cittadinanza?

martedì 18 giugno 2013

Erdogan passa al massacro!

di Defne Gursoy

contribuiamo alla diffusione di questo articolo già lanciato dalle pagine di alfabeta2 che è stato scritto domenica. Defne Gursoy è una famosa giornalista turca che scrive per giornali turchi e per vari giornali europei. È nota anche come saggista, conferenziere e docente in comunicazione

Tutto è precipitato ieri sera a piazza Taksim (sabato 15 giugno, ndr). La polizia ha scatenato la guerra, ne sono testimone diretta poiché ero sul posto. La violenza poliziesca smisurata ha fatto centinaia di feriti; il parco è stato sgomberato a forza con gas; cannoni d’acqua violentissimi contenenti prodotti chimici che causano bruciature sulla pelle e proiettili di gomma hanno ferito decine di persone, fra le quali una donna incinta. Fra l’altro, sono state lanciate granate cataplessizzanti (incapacitanti) che hanno seminato terrore in tutto il quartiere. L’intervento è iniziato quando non c’era alcuna manifestazione, alcun raduno né nel parco Gezi, né sulla piazza. Era un sabato ordinario e gli abitanti erano venuti con i bambini per prendere aria nel parco. L’operazione di guerra è cominciata alle 19,40 quando la Piattaforma di Taksim aveva annunciato alle 11,00 il ritiro pacifico degli occupanti dal parco a partire da lunedì. Gli scontri sono durati sino al primo mattino; ero incastrata tra le barricate e la polizia. Mi sono rifugiata in uno di quei passages (galleria commerciante); la polizia ha lanciato il gas anche all’interno di tutti questi passages dove la gente si cercava riparo. Sono stata intossicata dal gas e ho visto gente cadere come mosche sulla strada Istiklal. A migliaia sono affluiti da tutti i quartieri di Istanbul per venire in soccorso a Gezi Park e ai manifestanti. La municipalità ha fermato tutti i trasporti pubblici a partire dalle 11,00 per impedire l’afflusso della popolazione dai quartieri verso il parco. Ma la gente è passata dalla riva asiatica attraverso i ponti del Bosforo. La polizia ha tirato gas anche su questa gente che passava a piedi sul ponte, senza lasciar loro alcuna scappatoia, salvo forse buttarsi giù dal ponte. Persino all’interno degli hotels che hanno accolto i feriti sono stati lanciati i candelotti di gas. I turisti hanno accolto i feriti nelle loro camere d’albergo ma hanno subito anch’essi violenze; la polizia ha attaccato tutti gli hotels le cui sale e ingressi s’erano trasformati in centri di soccorso medico. Questo è crimine contro l’umanità, del mai visto neanche in paesi con regimi fra i più repressivi. Tutta questa violenza non ha fermato la popolazione che si è riunita in ogni quartiere. Non conosciamo esattamente il numero di feriti, ma sappiamo che ce ne sono tanti in grave stato. Centinaia di feriti non hanno potuto ricevere soccorso medico poiché la polizia ha vietato l’accesso delle ambulanze a Taksim e dintorni. Oggi, Erdogan terrà un meeting a Istanbul con i suoi sostenitori e probabilmente non esiterà ad aizzarli contro i resistenti. Gli abitanti delle Settanta città turche sono oggi in strada per protestare. Decine di migliaia stanno per marciare verso piazza Taksim. La violenza del potere attuale contro questi cittadini deve essere fermata al più presto! Chiedo di divulgare questo messaggio ovunque voi possiate. Quello che è avvenuto è veramente gravissimo ed è molto probabile che questa guerra di Erdogan contro la popolazione continui. La disinformazione da parte del potere turco non deve passare nei media europei, la verità deve essere ascoltata ovunque nel mondo. Istanbul, 16 giugno 2013, 11h (ora locale)

Traduzione dal francese di Salvatore Palidda


domenica 16 giugno 2013

Gezi Park. La rivolta degli alberi

rassegna stampa

Cortei verso piazza Taksim con l’obiettivo di riprendere piazza Taksim. Lacrimogeni e potenti getti d’acqua con sostanze urticanti (“medicamentose”, secondo le autorità turche) sparati sui manifestanti. Intanto continuano le violenti cariche per disperdere la marea umana

Cronaca in continuo aggiornamento in diretta da Istanbul
Non accettano di restare a casa i manifestanti, nonostante le dichiarazioni rese dal governo sul fatto che chi si avvicina a Taksim Place è considerato un terrorista.
Fin dalla mattina cariche della polizia CHE USA SOSTANZE TOSSICHE DENTRO L'ACQUA DEGLI IDRANTI come testimoniato dalle foto di Globalproject.
Le prime cariche in mattinata sono contro il presidio all'hotel Divan, teatro della violenta incursione della polizia la scorsa notte.
Poi cariche e scontri avvengono in tutte le strade verso Piazza Taksim, presidiata dalla polizia, dove ci si è dati appuntamento a partire dalle 16.00  #1milyonbuguntaksime
Intanto Erdogan cerca il bagno di folla nella periferia di Istanbul, alcune fonti parlano di un milione di persone per il comizio organizzato dall'AKP come inizio della campagna elettorale sia per amministrative che per le presidenziali. Sono arrivati anche da altre parti della Turchia.
Immagini di una Turchia divisa in due: la folla al comizio del Presidente e le migliaia di turchi caricati e feriti che resistono nel cuore di Istanbul e delle altre città.
Per tutto il giorno i poliziotti non hanno fatto altro che attaccare qualsiasi concentramento, gassando con sostanze chimiche i manifestanti per ottenere il risultato di impedire l'accesso a Piazza Taksim. La piazza spettrale in serata era vuota, protetta da blindati e ruspe con intorno il fumo acre dei lacrimogeni nelle vie circostanti.
Il governo ha usato la mano di ferro per proteggere l'immagine del presidente acclamato dalla "sua" folla e mostrare gli oppositori come irresponsabili facinorosi, che vogliono portare la Turchia nel caos.
Ma le immagini di ieri ed oggi, di questo intenso inizio giugno dicono che tutte le questioni. le richieste i desideri simbolicamente rappresentati dagli alberi di Gezy Park rimangono aperte ... e comunque la notte è lunga.

CRONACA
19:43 La polizia continua come x tutta la giornata ad attaccare qualsiasi assembramento di manifestanti
18:33 A Tunel l'aria é irrespirabile. Anche la Torre di Galata è coperta dal fumo dei gas.
18:16 A Tunel: aria irrespirabile e nuove barricate
18:15 Berlino corteo verso ambasciata turca
18:03 Contro i manifestanti ruspe x distruggere le barricate, intanto vengono denunciate le violenze della polizia la notte scorsa: centinaia di feriti
17:14 Si segnalano ancora interventi della polizia negli ospedali e l'arresto di personale che presta soccorso ai manifestanti feriti.
16:50 Herdogan si gioca l'ultima carta e con diversi pullman cerca di portare i suoi sostenitori nella capitale.
16:35 La gente cerca di concentrarsi tra Istiklal, Osmanbey e piazza Besiktas dove è schierata la polizia.
16:13 La polizia vuole impedire che i manifestanti si concentrino a Besiktas. La gente non molla.
15:56 A Besiktas la polizia si prepara ad intervenire duramente. La gente si prepara a resistere
15:53 I manifestanti cercano da diversi punti di riconquistare piazza Taksim.
15:27 Aria pesante, chi può indossa la maschera antigas, chi non la possiede di cosparge di latte, maalox o accetta quello che gli viene proposto da infermieri e compagni. Barricate proteggono le strade di accesso al quartiere
15:06 Scontri a Istiklal, la Polizia ha spazzato tutta la parte della via. Nuovi punti di convergenza a Besiktas e Harbye.
ORE 13.00 - 15.00
Da più parti i manifestastanti vogliono convergere in Piazza Taksim, presidiata dalle forze dell'ordine. Tutte le entrate sono bloccate.
In diversi punti la polizia ha iniziato ad usare gli idranti contro i manifestanti
ORE 11.00-13.00 
Anche Istiklal Caddesi è piena di polizia, che ha sparato gas contro i manifestanti. 
ORE 10.00-11.00
La prima immagine davanti ai nostri occhi richiama subito l'acre sensazione della notte appena trascorsa: dei poliziotti stanno versando taniche di liquido urticante,marca Jenix, color rosso fuoco, nel serbatoio dell'idrante.
Nel frattempo stanno procedendo con ruspe per terminare lo sgombero del parco e tutte le vie da piazza Taksim sono presidiate. Nastro bianco e  rosso  a delimitare la zona.
Ieri dopo l'attacco al parco la polizia ha fatto irruzione anche al Divan Hotel, che fin dai primi giorni si è dimostrato solidale e pronto ad accogliere i manifestanti in fuga dalle cariche.
Un centinaio di persone questa mattina si è ritrovato davanti all'albergo  in presidio. 
Dopo poco la polizia è intervenuta con cariche e idranti. Un manifestante è stato portato via in barella.
Anche via Istiklal è impraticabile.


Gezi Park, ad Instabul si moltiplicano le piazze della protesta 
di Fabio Sebastiani 
Ad Instabul, ma anche ad Ankara e in molte altre città della Turchia (Canakkale, Mersin, Smirne, Eskisehir), nonostante le minacce di Erdogan la protesta non si ferma. Anche se l’obiettivo di riprendersi piazza Taksim partendo da diversi punti della città ancora non è stato raggiunto, di fatto il fronte “militare” si è moltiplicato in gran parte della metropoli. E dappertutto la polizia spara lacrimogeni a non finire e lancia potenti getti di acqua con sostanze fortemente urticanti, il cui utilizzo è stato ammesso dal governatore di Instabul come “sostanza medicamentosa”. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan, che ha ordinato lo sradicamento degli alberi di Gezi Park, ha difeso la violenta repressione dei manifestanti che occupavano il parco, e ha avvertito i dimostranti, chiedendo di non tornare a piazza Taksim. Il premier ha sottolineato come fosse suo "dovere" ordinare l'evacuazione del parco, dopo che i dimostranti avevano rifiutato di andarsene. "Avevo detto che eravamo arrivati alla fine, che la situazione era intollerabile", ha spiegato il premier parlando ai suoi sostenitori a poca distanza da piazza Taksim. "Era mio dovere come primo ministro", ha aggiunto. Erdogan inoltre ha avvertito di non farsi ingannare e non rispondere alla chiamata di manifestare a piazza Taksim. "Non si può manifestare dove si vuole", ha detto, spiegando che durante i 18 giorni di proteste "sono stati commessi atti di vandalismo e gli hotel della zona sono vuoti". Proclami e minacce che non hanno certo fermato la protesta.
Nel quartiere di Siraelviler la polizia ha ripreso da poco con violenza le cariche per disperdere una vera e propria marea umana che da ore si e radunata cantando "Questo è solo l'inizio, la resistenza continua!". Allo svincolo Kurtulus-Feriköy sono stae organizzate delle barricate a cui è stato dato fuoco. A Karaköy, centinaia di persone hanno bloccato la strada. Un veicolo dell'AKP (il partito al governo) che si era messo in mezzo, è stato demolito in poco tempo. Nei quartieri di Nurtepe e Guzeltepe le forze di polizia si sono dovute ritirare dopo aver terminato i lacrimogeni. Gli abitanti di Nurtepe hanno bloccato il traffico sull'autostrada. Studenti universitari a Kurtulus tirano uova contro le unità antisommossa. Due dei principali sindacati turchi, Kesk e Disk, hanno deciso oggi di proclamare uno sciopero nazionale da domani per denunciare la dura repressione attuata contro i manifestanti anti-Erdogan e chiedere la fine della violenza della polizia. Secondo un portavoce di Kesk altri sindacati sono stati invitati a aderire alla protesta.


Da Gezi Park Ai Movimenti Dell'Europa Mediterranea Che Viene. La Strada Tracciata  

Il tiranno turco crede che la polizia, gas ed idranti servano a spegnere. Invece spargono a incendio la rivolta degli alberi (Erri De Luca)

Scriviamo dopo una notte non ancora finita ed una mattina che rincorre tweets e portali di movimento nell'intreccio della partecipazione politica attiva e della narrazione dei movimenti per i movimenti.
Siamo stati parti dell'insurrezione di Istanbul, l'abbiamo raccontata, partecipata, vissuta fino in fondo per come è la politica per noi: non esiste un narratore autistico degli eventi, noi siamo empatici con l'evento politico ed in questo senso non è possibile separare comunicazione e politica.
Ieri notte, ma anche le precedenti, di certo anche le successive, sono le Nuove Giornate della democrazia turca, mettono in discussione gli equilibri di potere, ibridano i soggetti politici dell'opposizione ad Erdogan (cosa ci vuole più di ieri per chiamare distillato di fascismo l'ordine del dittatore?) e creano un'esperienza comune, con molti giovani, tantissime donne -velo o non velo, chi lo aveva lo ha usato per proteggersi la gola e gli occhi dai lacrimogeni!).
Globalproject.info le ha raccontate con coraggio ed i suoi redattori sono ancora intossicati, qui trovate il loro lavoro.
Si parte da qua, dalla resistenza di Taksim Solidarity Platform, da tutti coloro -centinaia di migliaia di uomini e donne- che l'hanno sostenuta in Istanbul-, da chi l'ha moltiplicata e fatta propria ad Ankara, nelle Università, nello sciopero di domani.
Nulla è finito. Tutto è aperto, pieno di vita, in movimento. Ampio e ricco, potente e virale. Nonostante le botte, i tier gas sparati a migliaia; nonostante i colpi di pistola delle scorse settimane, gli assassini, le torture, gli stupri, gli arresti di tutti e per nulla.
Nonostante il torvo Erdogan abbia annunciato che “chiunque si avvicini a Taksim sarà trattato da terrorista”, so far but so close a Netanyahu.
Le tende bruciate le ricostruiremo, gli alberi di Gezi verranno rimpiantati lì ed altrove, la discussione avanza.
Ma non è solo Gezi anche se è soprattutto Gezi; io la chiamo pratica simbolica, ovvero la potenza che i movimenti costituenti hanno di conferire ad un simbolo un'energia euristica immensa, che travolge gli occhiali dell'ideologia che ordinariamente -ovvero in assenza di lotta- dominano stupidamente la comprensione della materialità delle cose.
Come ogni lotta vera essa è centripeta, attrae interesse collettivo e generale e sa comporsi con altre, senza diventare un indistinto “voler essere” ma è capace di vivere la potenza sovversiva e costituente della composizione delle differenze, quasi a delineare, partendo dallo scontro, dal conflitto durissimo, dalla resistenza generosa ed a tratti davvero eroica, i prolegomeni della nuova società.
Così alle associazioni di carattere ambientale si sono uniti gli studenti di Galata ed altre Università, poi altri movimenti, anche femministi, e sindacati, partiti, movimenti di liberazione nazionale, l'universo di chi ha un buon motivo di lottare contro il regime feroce e liberticida del padre padrone dell'AKP.
Insomma, Gezi Park era (no: è!) una piazza che contiene molte piazze, che funziona (migliaia di pasti offerti, pulizie sempre in corso, un costante occhio alle guardie, la disponibilità assoluta alla relazione ed alla comunicazione, che è virale, on line, singolarizzata con l'utilizzo degli smartphones e socializzata liberamente con i social networks) e che va attraversata al di là della categorizzazione semplicistica che da sempre si usa contro le soggettività di movimento: vittoria o sconfitta, com'è andata?
Non ha senso porre questo discrimine, innanzitutto perché i movimenti sociali reali non si pongono questo problema, (e cosa significa poi Vincere o Perdere? Come misureremmo questa categoria? Chi decide dell'una o dell'altra? Quando finisce la partita?) ed è comunque un dibattito non contestuale alla lotta ma ad essa successivo ed infinitamente subordinato.
La società si trasforma, non si conquista, dicono gli attivisti di Instanbul.
Ed ancora: le barricate, i blindati bruciati, la serenità determinata con la quale vengono offerti i caschetti per proteggere il capo, la gioia collettiva e piena di sapienza delle decine di migliaia di compagni a Osnam Bay alle 3 a.m. di questa mattina nel mezzo delle barricate e nelle nuvole di tier gas e nei fiumi -non era acqua: è gas altamente urticante- sparati dai tanti toma sono elementi potenti di un dizionario nuovo.
Questa notte siamo stati moltitudine.
Vi è, a saperlo leggere, un sentimento comune nei movimenti sociali (reali) nello spazio politico euromediterraneo.
Ad esempio, il tema della difesa della risorsa ambientale, ovvero la resistenza contro la privatizzazione del pubblico a mezzo di nuove enclosures nei territori, siano essi metropolitani o distribuiti.
Nella tradizione socialista questo tema era secondario ed occultato dalla principale contraddizione tra lavoro (nel lavoro, durante il lavoro) e capitale; ora invece esse sono di un'importanza cruciale e sono spesso la leva per processi ricompositivi e generalizzanti, capaci di federare in coalizioni soggettività e movimenti ed impongono un ordine del discorso rivoluzionario e non debole.
L'accento sullo iato tra democrazia rappresentativa e democrazia reale è un altro spartiacque di fase: ovunque e sempre si pone con urgenza la critica radicale a chi decide per cosa. Lo vediamo dalle lotte per la difesa della risorsa ambientale e territoriale, ai conflitti sui posto di lavoro, dalle battaglie contro i regimi corrotti ai movimenti sociali contro la Troika. Lo sentiamo in Taksim.
Non siamo in grado di dire come andrà a finire questa gigantesca partita del nuovo secolo, ma di certo dalle resistenze alla crisi nel tempo della separazione del capitalismo dalla democrazia, ci sono molteplici elementi di speranza. Ed una grande tristezza: dov'è la voce dell'Unione europea? La commissione? I rappresentanti della Democrazia europa questa notte dormivano? Non avevano accesso a web? Non hanno visto gli assalti della polizia contro uomini e donne feriti che cercavano riparo in Ostello? Non hanno nulla da dire su quello che accade sull'uscio di casa?
Sono solo valvassori di un impero che cade a pezzi.
Ma è già tempo di tornare nelle strade di Istanbul. Rimaniamo connessi. I tweets chiamano viralmente in Taksim, noi retweettiamo e ci andiamo.



sabato 15 giugno 2013

Newsletter n.15

rassegna quindicinale


sommario


di Carmen Vita  

“Cinque anni di crisi segnati, in particolare, da crescenti fenomeni di disagio sociale, dall’aumento delle aree di povertà, dal montare della disoccupazione giovanile e dalla fortissima segregazione femminile nel mercato del lavoro in un quadro di una crescente e generalizzata instabilità e di discrepanza tra qualità del lavoro e competenze acquisite. Su questi aspetti si registrano proclami e dichiarazioni più o meno enfatiche, ma nessuna iniziativa concreta


di Elisabetta Teghil

la ribellione al pensiero unico non è neppure necessario che sia praticata, è sufficiente pensarla e scriverne il desiderio. Da qui l’invasivo e onnicomprensivo controllo sociale. Bisogna  esercitare in prima persona il rifiuto del controllo e della norma sulle nostre vite, sottrarsi ai valori di questa società che pretende di strutturarci sul carrierismo, sulla promozione individuale, sulla meritocrazia, sull’ossequio all’autorità, sull’impianto patriarcale, rigettare i suoi codici, i suoi segni e i suoi linguaggi, nella consapevolezza che questo nostro percorso di liberazione è parte del percorso di liberazione degli oppressi


 di Serena Tarabini

Cronaca della due giornate di #OccupyGezi. Lo aveva scritto Serena che quella di ieri era la quiete prima della tempesta. Come ci si spettava è arrivato lo sgombero, ordinato dalle autorità secondo il Prefetto di Istanbul "per isolare alcuni elementi e per rimuovere le barricate", e se la prende anche con i social media dove “ci sono alcune persone interessate ad alzare il livello dello scontro".


di Redazione Kainos

i flussi finanziari dei derivati hanno permesso enormi profitti ad una élite ristretta ma hanno avuto effetti deleteri per i ceti medio-bassi della popolazione occidentale una volta tutelati dal welfare-state: la produzione della ricchezza appare del tutto separata dalle condizioni sociali e materiali dei lavoratori, mentre i saperi appaiono frammentati al punto da togliere ogni capacità critica ai soggetti chiamati a produrre beni e servizi 


di Marco Iasci

questo contributo di riflessione accompagna l’intervista a Étienne Balibar, curata da Claudia Bernardi e Luca Cafagna, incontrato in occasione del seminario “Europa, cittadinanza e democrazia” tenutosi a fine maggio alla Sapienza, nell'ambito del Ciclo di seminari promosso dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con l’Istituto Svizzero di Roma e la Libera Università Metropolitana  


di Ilaria Lucaroni

Il reddito sociale garantito deve essere pensato come una istituzione del comune, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla ridistribuzione del plusvaloreun reddito così concepito andrebbe a remunerare quell’enorme massa di lavoro non retribuito costituito da tutte le forme di contratti precarizzati e straordinari nascosti dalla formula “a progetto” emancipandosi dal salario di produzione del valore e del plusvalore


di Fausto Bertinotti

l'accordo non vede coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in futuro. Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto. La zoppia è significativa e rilevante anche per le dinamiche sociali del futuro nelle aziende. Non c'è bisogno di riassumere il cammino dell'esperienza sindacale per sapere che il referendum tra i lavoratori è l'unica forma certa per misurare la validazione dell'accordo sindacale


di Lanfranco Caminiti

il cinquanta per cento degli italiani se ne fotte dei partiti, vecchi e nuovi. Questo cinquanta per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle proteste del M5S, è una piaga o una riserva della democrazia e della repubblica?


di Anna Maria Merlo


Il Consiglio europeo ha stanziato 6 miliardi di euro per contrastare la disoccupazione giovanile. Ma se è vero che i giovani disoccupati nell'Ue sono circa 6 milioni, fanno circa 130 euro all'anno a ciascuno per sette anni. A fronte di una media eurozona del 24%, all'incirca 4 milioni di giovani  sotto i venticinque anni, il tasso di disoccupazione raggiunge vette stratosferiche in Grecia (62,5%) e in Spagna (55,9%). Ma anche l’Italia (38,4% ) e il Portogallo (38,3%) non scherzano, la stessa la Francia è sulla buona strada, superando di 2,5 la media eurozona

Il dualismo insuperato dell’economia italiana

di Carmen Vita  

“Cinque anni di crisi segnati, in particolare, da crescenti fenomeni di disagio sociale, dall’aumento delle aree di povertà, dal montare della disoccupazione giovanile e dalla fortissima segregazione femminile nel mercato del lavoro in un quadro di una crescente e generalizzata instabilità e di discrepanza tra qualità del lavoro e competenze acquisite. Su questi aspetti si registrano proclami e dichiarazioni più o meno enfatiche, ma nessuna iniziativa concreta1

Tra il 2007 e il 2012 il Prodotto interno lordo italiano ha subito una flessione di oltre il 7%, così imputabile alle due macroaree del Paese: circa il 6% al Nord, quasi il 10% al Sud. Un risultato che ha fatto compiere al Mezzogiorno ha un salto indietro nel tempo, sino ai valori registrati nel lontano 1997, con effetti drammatici sui livelli occupazionali2. Ciò rende sinteticamente evidente che, sebbene la crisi economica internazionale interessi tutta l’economia italiana, il Mezzogiorno ne conosca le le conseguenze più gravi.
D’altronde i nodi da sciogliere del Mezzogiorno sono sostanzialmente i medesimi degli anni del secondo dopoguerra: grande peso delle attività primarie, arretratezza tecnologica, inadeguatezza delle infrastrutture materiali e immateriali, ridotto spirito imprenditoriale, bassa produttività, bassi salari, forte spinta all’emigrazione3. Il risultato di tutto questo è che se il Centro-Nord tende a perdere contatto con i ritmi di crescita delle aree centrali d’Europa, nel Sud la “desertificazione industriale” procede a passi da gigante4.
Insomma, il dualismo continua a caratterizzare l’economia italiana. L’unico vero tentativo di mettere in moto un processo di convergenza tra le due partizioni del Paese risale all’intervento straordinario5 operato con la Cassa per il Mezzogiorno6 tra il 1950 e il 19757. Successivamente, il divario tra le due macro aree del Paese è tornato a crescere o, nella migliore delle ipotesi, a stabilizzarsi. Eppure, dopo l’intenso dibattito degli anni cinquanta, sessanta e settanta l’analisi delle vicende economiche italiane ha generalmente cessato di essere condotta in chiave dualistica8, in particolar modo a partire dagli anni ottanta. A ciò hanno contribuito alcuni fattori. Da un lato, se inizialmente l’intervento straordinario aveva puntato sugli investimenti produttivi, successivamente, dopo la metà degli anni settanta, proprio quando maggiore era la necessità di una azione pubblica efficiente in grado di adattarsi ai mutamenti nelle convenienze localizzative e nell’adeguamento della produzione alle nuove condizioni di mercato, hanno prevalso interventi a sostegno dei redditi, spesso con caratteri assistenziali e clientelari. Dall’altro lato, al declino del modello di sviluppo industriale basato sull’intervento pubblico in comparti industriali a elevata intensità di capitale, venne contrapponendosi l’affermazione di un modello basato sullo sviluppo dell’imprenditoria locale, improntato a criteri di spiccata specializzazione, in una logica di forte integrazione europea e internazionale9.

venerdì 14 giugno 2013

Dittatura costituzionale

di Elisabetta Teghil
 “..Tutti i controlli compiuti da Nsa sono stati effettuati
nel rispetto della Costituzione..”
Barack Obama

la ribellione al pensiero unico non è neppure necessario che sia praticata, è sufficiente pensarla e scriverne il desiderio. Da qui l’invasivo e onnicomprensivo controllo sociale. Bisogna  esercitare in prima persona il rifiuto del controllo e della norma sulle nostre vite, sottrarsi ai valori di questa società che pretende di strutturarci sul carrierismo, sulla promozione individuale, sulla meritocrazia, sull’ossequio all’autorità, sull’impianto patriarcale, rigettare i suoi codici, i suoi segni e i suoi linguaggi, nella consapevolezza che questo nostro percorso di liberazione è parte del percorso di liberazione degli oppressi tutti/e

Gli USA e i Paesi dell’Europa occidentale hanno indicato la via. La lotta contro il comunismo è cosa superata. Non si può impegnare tutta una società tecnologicamente avanzata nella lotta al comunismo con il rischio che la figura del comunista, nobile e disinteressato, magari alla Che Guevara, sia seducente.
La religione dello Stato ha coniato una nuova figura su cui far leva per eccitare e scatenare gli istinti di difesa e di aggressività.
Quella del terrorista.
Questo è il nemico pubblico contro cui agire, legiferare e serrare i ranghi.
Il terrorista è il male per eccellenza, contagioso, contro il quale ogni essere normale deve sentire l’esigenza di lottare per la difesa, non solo materiale, ma ideale, della comunità.
È la lotta del bene contro il male. E il bene non può essere ovviamente che l’esistente ordinato, il migliore dei mondi possibili nella stagione della fine della storia, con il fascino di un teorema immutabile.
Quanto di meglio c’è nella società coincide con la sottomissione consensuale alle scelte e agli interessi dell’ordine costituito.
L’autovalorizzazione del capitale, il suo stato attuale, coincide con l’individuazione del nemico interno ed esterno per sconfiggerlo.
È il trionfo della dittatura costituzionale.
L’invasione dello Stato nella sfera privata deve essere assoluta per costringerci a parlare con il suo linguaggio, con le sue idee, con la sua voce.
L’assetto autoritario dell’iper-borghesia si manifesta in modo, non certo indolore, in tutti i momenti in cui si articola la politica nell’ambito economico, sociale ed istituzionale.
Questa stagione è caratterizzata dal principio che sono colpevoli tutti/e coloro che non possono dimostrare di non esserlo. Tutti/e coloro che non dimostrano la loro lealtà e fedeltà allo Stato collaborando e contribuendo ad indicare i colpevoli e a provarne la colpevolezza, non sono innocenti.
È il passaggio dal reato specifico al reato presunto, dal reato materiale al reato residuale ed esteso. Il passaggio dalla criminalizzazione de facto a quella de iure, dalla repressione dei singoli individui alla criminalizzazione politica e storica dei/delle rivoluzionari/e, dei/delle conflittuali, dei/delle dissidenti, dei movimenti di liberazione.
In altri termini non si tratta di una misura congiunturale, né di una misura puramente repressiva, bensì di una scelta programmatica di natura strategica a largo spettro che investe tutto il sociale.
I controlli non riguardano gli oppositori, ma tutto e tutti, compresi quelli/e che una volta si definivano la casalinga “casa e chiesa”e l’uomo “lavoro e stadio”. Ma questo livello non è casuale, bensì la sublimazione dell’ideologia neoliberista, il livello, a senso unico da parte di chi il potere ce l’ha, dello scontro di classe.
Questo processo è compiuto e nessuno può illudersi di fermarlo con le barricate del diritto, della legalità, della Costituzione che, intanto, esistono in quanto sono sincronizzate e incorporate nella materia vivente del dominio dello Stato del capitale e dell’iper-borghesia.
Per eliminare la lotta antagonista il capitale ha deciso che occorre legiferare, incarcerare, deridere, delegittimare, tappare la bocca a chiunque esca fuori dal coro.
Ed è arrivato al punto che la ribellione al pensiero unico non è neppure necessario che sia praticata, è sufficiente pensarla e scriverne il desiderio. Da qui l’invasivo e onnicomprensivo controllo sociale.
Per questo serve canonizzare il comportamento e le scelte personali, teorizzare che i blocchi stradali, i picchetti, le manifestazioni di piazza spontanee, gli scioperi, le disubbidienze civili , ogni forma di conflittualità individuale e collettiva non sono altro che terrorismo.
Questa società riposa su una concezione dell’essere umano che è quella di un individuo mediocre, docile e conformista, produttore efficiente e consumatore onnivoro e, naturalmente, sulla diseguaglianza e l’ esclusione. La sua azione si esercita, necessariamente, attraverso il controllo a tutto campo di tutti i momenti della vita: telefonate, internet, carte di credito, luoghi di aggregazione, locali pubblici e ambienti privati. Un’invasione totale.
Intanto si accumulano i dati e poi ci si riserva di utilizzarli all’occorrenza. E vero che gli Stati Uniti sono all’avanguardia anche in questo campo, ma non sottovalutiamo i livelli di controllo che ci sono in Italia. Certo, gli USA, essendo la potenza mondiale per antonomasia si permettono di portare la guerra in tutti i Paesi e di sperimentare le ultime tecnologie con la Cyberwar.

martedì 11 giugno 2013

#OccupyGezi - La quiete prima della tempesta? il tentativo sgombero di piazza Taksim

 di Serena Tarabini

Cronaca della due giornate di #OccupyGezi. Lo aveva scritto Serena che quella di ieri era la quiete prima della tempesta. Come ci si spettava è arrivato lo sgombero, ordinato dalle autorità secondo il Prefetto di Istanbul "per isolare alcuni elementi e per rimuovere le barricate", e se la prende anche con i social media dove “ci sono alcune persone interessate ad alzare il livello dello scontro". Al momento Gezi Park e la sua Comune viva e brulicante di cittadini, idee, lotte non è stata toccata. Intanto il premier Erdogan prepara le manifestazioni filogovernative che si terranno venerdì e sabato ad Ankara e Istanbul (dinamopress.it)

Istanbul 10/06/2013 - Questa mattina la polizia si è presentata a Taxim massicciamente, sono in corso in questo momento fronteggiamenti nella piazza, mentre la situazione nel parco è ancora tranquilla. Le autorità affermano che le intenzioni sono quelle di sgomberare la piazza e rimuovere bandiere e striscioni dal Centro culturale Ataturk, mentre non ci sarebbero piani per il momento sul parco. Comunque sia nuovamente le forze di polizia stanno facendo uso pesante di lacrimogeni, gas urticanti e cannoni ad acqua, mentre i dimostranti rafforzano le barricate attorno al parco e cercano di contenere l'avanzata dello sgombero.
A Gezy Park da giorni non trova spazio uno spillo. Ogni centimetro accampabile è occupato dalle tende, è difficile trovare un angolo dove sedersi. Tutto è sempre più organizzato ed attrezzato, vi si vive come un vero e proprio spazio pubblico di tutti e per tutti, dove il cibo è gratis, la pulizia continua, e gli eventi ininterrotti. Una vitalità ed un entusiasmo che non accennano a smettere.
Ciononostante l'atmosfera comincia a percepirsi più tesa. La presunta tregua scade oggi,  Erdogan è tornato e da giorni, oltre ad continuare ad indicare la protesta come frutto di gruppi marginali, non fa che ripetere che una situazione del genere non può andare avanti. In effetti ogni giorno di più di occupazione, del parco, di Taksim e delle strade, sono per lui un affronto. Magari con metodi "più democratici" di quelli utilizzati nei primi giorni, ma il parco va liberato. La violenza con cui le forze di polizia si sono accanite sulle piazze di Ankara e Adana questa notte per sgomberarle, non crea illusioni; anche se la gente è ancora tantissima; anche in alcuni quartieri sensibili di Istanbul i fronteggiamenti sono stati violenti, ed aggravati dalla presenza di sostenitori di Erdogan che fiancheggiano le forze di polizia. Lo stesso Erdogan ha convocato manifestazioni in suo favore in diverse città il 15 e il 16 giugno, e questo non contribuisce ad alleggerire il clima.
Nel frattempo, si preparano le vie di fuga per le migliaia di persone che affollano il Parco nell'eventualità di un attacco, che dati i numeri sembrerebbe una follia e potrebbe avere conseguenze pesanti vista l'assenza di un'organizzazione centrale di autodifesa, ma per quello che ho visto in questi giorni, ci si può aspettare di tutto.

Istanbul 11/06/2013 - aggiornamenti da Serena Tarabini che da Istanbul sta raccontando quotidianamente su DinamoPress la rivolta turca:

21.15 - Il governo continua a parlare di gruppi marginali, migliaia in arrivo da altre parti. Guerra, incendi e gas ovunque
21.00 - Taxim è in mano alla polizia che pare sia anche entrata a Gezi Park. Attacchi pesantissimi continuano verso la gente che rimane. Migliaia di persone stanno arrivando da altre parti
20,00 -  la polizia comincia ad accerchiare Gezi Park: paura di una volontà di sgombero. La manifestazione convocata per le 19,00 è stata vietata e sono ripresi gli scontri violentissimi. Nel pomeriggio perquisita la sede del Partito socialdemocratico turco, dopo l'arresto degli avvocati di questa mattina altro segnale della volontà di sospendere anche le regole formali della democrazia
19,20 -  le forze dell'ordine riattaccano Piazza Taksim
18,30 -  la folla scavalca i blocchi della polizia: la battaglia di piazza Taksim per il momento è vinto, la polizia si ritira
17.30 - piazza Taksim relativamente tranquilla, mentre sul lato destro del parco proseguono i fronteggiamenti, nel frattempo il numero di persone in arrivo è in aumento
17.00 - il fronte di scontro si è spezzato in due parti, il lancio di lacrimogeni è fittissimo e partono anche i cannoni ad acqua, persone e barricate vengono sollevate di metri, i lacrimogeni arrivano fino a Gezi park, colonne di fumo nero si sollevano dalle barricate a cui è stato dato fuoco. Vedo diverse persone ferite o trasportate in barella perchè fortemente intossicate, anche nel parco l'aria si fa a tratti irrespirabile, ciononostante non è sotto diretto attacco
16.30 - la zona antistante il Centro culturale Ataturk è relativamente tranquilla e presidiata da forze di polizia che hanno abbandonato momentaneamente le maschere, segno che non si apprestano ad attaccare, mentre il fronte di scontro si è spostato all'altro lato della piazza, lungo i fianchi del parco; qualche migliaio di persone fa pressione per entrare in piazza e viene respinta con fitto lancio di lacrimogeni
16,15 - la polizia dopo essere arrivata all'ingresso del parco ed essersi accanita contro le strutture dell'accampamento di Gezi, si sono ritirate grazie alla resistenza dei manifestanti
16,00 - sarebbero oltre 100 gli arrestati e moltissimi i feriti secondo giornalisti presenti a Taksim, le ambulanze però non riescono a raggiungere Gezi Park. Almeno sei i feriti in maniera grave alla testa, colpiti dai candelotti lacrimogeni. Diversi parlamentari dei partiti di opposizione hanno annunciato che passeranno la notte a Gezi Park per scongiurare interventi di forza. Gli scontri proseguono attorno al parco
15,00 - gli avvocati in stato di fermo sarebbero 73, da Ankare e non solo decine di avvocati democratici si stanno recando nella capitale. Continua la battaglia in Piazza Taksim, la polizia fa uso anche di granate accecanti e stordenti. Gli occupanti di Gezi Park invitano a raggiungerli per scongiurare lo sgombero
14,15 - centinaia di feriti, tutt'attorno Gezi Park, dov'è fitto il lancio di lacrimogeni sono ripresi gli scontri con maggiore intensità. Su Piazza Taksim si rialzano nuove barricate
13,30 - la polizia è entrata caricando dentro Gezi Park, la reazione compatta e determinata a fatto uscire le forze dell'ordine dal parco.
12,30 - riprendo gli scontri attorno a Taksim e nelle vie del centro sempre più vicini a Gezi Park. In stato di fermo decine di avvocati senza nessuna giustificazione.
12,00 - Situazione di stallo, la polizia circonda il centro culturale Ataturk, momento di calma
10,00 - Questa mattina la polizia si è presentata a Taxim massicciamente, sono in corso in questo momento fronteggiamenti nella piazza, mentre la situazione nel parco è ancora tranquilla. Le autorità affermano che le intenzioni sono quelle di sgomberare la piazza e rimuovere bandiere e striscioni dal Centro culturale Ataturk, mentre non ci sarebbero piani per il momento sul parco. Comunque sia nuovamente le forze di polizia stanno facendo uso pesante di lacrimogeni, gas urticanti e cannoni ad acqua, mentre i dimostranti rafforzano le barricate attorno al parco e cercano di contenere l'avanzata dello sgombero.