mercoledì 29 maggio 2013

Newsletter n.14

rassegna mensile

Sommario

di Elvira Vannini
alla mostra Disobedience Archive (The Republic) Alfabeta2 - n.30, giugno 2013 (nelle edicole, in libreria e in versione digitale a partire da mercoledì 5 p.v.) -  dedica lo speciale «alfaDisobedience» a cura di Manuela Gandini

di Francesco Raparelli
il test elettorale romano è quello più significativo, lo specchio di una tendenza che attraversa
in lungo e in largo l’intero paese: l’astensionismo attivo sta assumendo sempre più 
una dimensione politica

di Riccardo Bottazzo
la “due giorni” veneziana sul tema “l’Europa oltre l’Europa”, organizzata da Global Project e European Alternatives, è cominciata come doveva cominciare. Con un grande e commosso applauso in memoria di don Gallo

di Riccardo Bottazzo
l’Europa tra crisi della rappresentanza e le politiche dall’alto ed il rilancio dei movimenti sociali per una Europa dei popoli e dei diritti. La strada “per un nuovo patto costituente tra cittadini e cittadini”

di Sandro Mezzadra
è urgente lanciare una campagna costituente per trasformare forze e istituzioni esistenti, 
crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”

Al mio popolo del Web senza distinzione di razze, di sesso, di orientamento sessuale, di religione...un grande grido
CONTINUATE! AGITATEVI perché abbiamo bisogno del vostro entusiasmo
ORGANIZZATEVI è indispensabile la vostra forza
STUDIATE è indispensabile la vostra intelligenza

di ∫connessioni Precarie
che la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta il problema di un’iniziativa politica nella precarietà e contro di essa. La richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra faccia dello stesso problema

di Guglielmo Ragozzino
new “Green Deal” oltre il Pil e nuovi indicatori di sostenibilità: biodiversità, patrimonio culturale e paesaggistico, salute e ambiente,  difesa del suolo e adattamento ai cambiamenti climatici, filiera bioagroalimentare, ect.

di Alessandro Simoncini
è possibile costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la rivoluzione dall’alto? Possiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Per dare le risposte a questi interrogativi l’autore della recensione ritiene assolutamente inopportuno mettere Guy Debord al rogo 

di Samir Amin
queste insurrezioni scoppiate nel 2011 hanno sorpreso i regimi al potere nonché le cancellerie occidentali che li hanno sostenuti, ma non hanno sorpreso i militanti della sinistra araba. Dei segni anticipatori ci avevano in qualche modo preavvertito

di Lanfranco Caminiti
è possibile superare la dicotomia che vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il trionfo del neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la roccaforte del diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un senso etico e di cura degli altri?

di  Michele Franco
stanno crescendo le adesioni all’Appello per la costruzione di un Movimento Anticapitalista. Nasce una proposta di lotta per dare spessore politico unitario ai focolai di resistenza popolare contro le politiche criminali dell'Unione europea

Archiviare la disobbedienza

di Elvira Vannini

Alla mostra Disobedience Archive (The Republic) Alfabeta2 - n.30, giugno 2013 (nelle edicole, in libreria e in versione digitale a partire da mercoledì 5 p.v.) dedica lo speciale «alfaDisobedience» a cura di Manuela Gandini, un inserto di 8 pagine con testi di: Marco Scotini, Manuela Gandini, Omar Robert Hamilton / Mosireen, Silvia Maglioni, Graeme Thomson, Nomeda & Gediminas Urbonas, Laboratorio di comunicazione militante, Céline Condorelli, Giovanni Anceschi, Critical Art Ensemble, Piero Gilardi, Gerald Raunig

Rispetto all’emersione attuale delle biennali e mostre cosiddette politiche, che non hanno prodotto alcuna trasformazione reale (ne lo vogliono), Disobedience Archive (The Republic), a cura di Marco Scotini, assume invece una precisa posizione già a partire dalla sua prima apparizione a Berlino nel 2005, e permette di sviluppare un ragionamento sulla genealogia della mobilitazione antagonista a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte.
“Dopo diversi progetti artistici e attivisti di rilievo come Collective Creativity di WHW, Ex Argentina di Andreas Sieckmann, The Interventionists di Nato Thompson e Disobedience di Scotini, possiamo affermare – scrive Gerald Raunig – che si è sviluppato un ambito transnazionale (anche se fragile) di pratiche trasversali. Se qualche volta sono viste come egemoniche lo sono nell’ottica del sistema artistico borghese”. Ma l’attuale proliferare di large-scale exhibitions con velleità sociopolitiche, a cui non sfugge nemmeno l’ultima edizione di Kassel o della biennale di Berlino, si limita a esibire superficialmente la politica come oggetto d’attrazione, senza uscire dalle formule codificate degli apparati museografici ed espositivi tradizionali. “La politica di queste biennali, come di altre, non è interventista – precisa Charles Esche sulle pagine di ArtForum – come invece lo sono le proteste documentate nell’importante video-archivio Disobedience”, che dopo 10 anni di occupazioni itineranti nelle maggiori istituzioni e strutture museali internazionali finalmente approda in Italia, al Castello di Rivoli, proprio in quella Torino, dove storicamente un ciclo di lotte operaie è deflagrato a partire dall’estensione del lungo ‘68.
Rispetto al trend dominante che propone la politica come documento d’indagine, Disobedience non è sommariamente una mostra-archivio, se così si può definire, ma ospita molteplici “focolai d’enunciazione”, seppur irriducibili a qualsiasi tassonomia del potere e della storia: è piuttosto la forma che la contingenza assume in quella ridistribuzione sociale della creatività che Hal Foster ha indicato come una “miriade di interventi”, riarticolazione di pratiche di lotta affermative legate alla disobbedienza sociale e a una moltitudine di insorgenze molecolari – dall’uscita italiana del ’77 alle proteste post-Seattle, fino alle recenti insurrezioni del mondo arabo – preludio inconsapevole delle forme di sollevazione globale, dentro la crisi, dei vari Occupy.
Disobedience vive nel tempo e nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la scelta di cosa guardare e cosa selezionare, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale, paratattico e senza successione lineare: nei suoi dieci anni di spostamenti l’archivio ha assunto ogni volta una nuova configurazione spaziale e adesso occupa un parlamento di legno disegnato da Céline Condorelli, che perde ogni efficacia normativa in quanto la sovranità è solo tecnica di governo, istituzione di rappresentanza che non ha più valore, e si sovrappone al Circo di Martino Gamper, sullo sfondo del wallpainting di Erick Beltran, ispirato a Spinoza e al concetto di democrazia (naturalmente upside down).

martedì 28 maggio 2013

Considerazioni a caldo sulle elezioni romane

di Francesco Raparelli

il test elettorale romano è quello più significativo, lo specchio di una tendenza che attraversa in lungo e in largo l’intero paese: l’astensionismo attivo sta assumendo sempre più una dimensione politica. Se il M5S ha perso consensi ciò non significa che è il sistema dei partiti a riprendere vigore. Anzi! Marino probabilmente vincerà al ballottaggio, ma non sarà il sindaco di metà dei suoi cittadini. Abbiamo voluto registrare anche l’insuccesso a sinistra - sia pure in una competizione impari per mezzi e visibilità mediatica - di Sandro Medici,  raccogliendo da dinamopress le prime impressioni a caldo di Raparelli 

La sfida era difficile, forse troppo, e non è bastata la generosità di tante e tanti: Sandro Medici e la sua coalizione non hanno superato lo sbarramento del 3%, nessun consigliere comunale eletto. Un risultato deludente, ma senza esagerare. Poche, pochissime risorse economiche (14.000 euro in tutto); poco tempo; visibilità mediatica nulla; una città difficile e sconfortata dove l'unica grande vincitrice è stata l'astensione, in particolare quella dei giovanissimi. Anche i più ottimisti, infatti, limitavano la speranza ad un risultato di poco superiore al 3%.
Ne è valsa la pena? Nonostante la sconfitta, penso di sì. Spiego meglio.
La candidatura a sindaco di Sandro Medici è nata da un'esigenza precisa: definire un campo politico-elettorale alternativo al Patto di stabilità e, di conseguenza, al centro-sinistra. Esistono sinistre europeiste ma ostili al Fiscal Compact in Grecia e in Francia, in Germania e in Spagna. Non in Italia. In Italia c'è SEL che insiste, nonostante il governissimo, nell'alleanza con il PD, e a Roma lo fa raccogliendo buoni frutti (mentre il PD perde quasi 300 mila voti). Poi c'è il M5S che, nonostante il tonfo alle amministrative, rimane la forza politica anti-austerity più significativa. Complicazioni: robustamente alleata con il PD, SEL procede verso l'ingresso nella scena dei Socialisti europei, oggi Progressisti, di Gabriel e Hollande; il M5S, invece, insieme al Fiscal Compact butta alle ortiche anche l'Europa e, ossessionato dalla trasparenza e dal merito, propone un programma più sintonico con le imprese che con i precari.
La sconfitta è indubbia, ma il problema, a mio avviso, rimane intatto. Irrisolto, perché una novità romana avrebbe aiutato, ma tant'è.
Lo sforzo di Sandro Medici e di chi lo ha sostenuto, che a Roma non ha dato i frutti sperati, è risultato però vincente a Pisa e a Siena, dove non c'era Alemanno da battere e dove la prossimità facilita progetti elettorali inesistenti nella scena mediatica. Dunque è sbagliato affermare semplicemente che lo spazio politico non c'è, è più corretto dire che a Roma continuano a mancare le condizioni affinché un progetto elettorale anomalo e irriverente, nonostante una campagna elettorale vivace e coraggiosa, possa affermarsi. Troppo frammentati movimenti e reti civiche; troppo solido il rapporto tra amministrazione ed economia (dal pubblico impiego al terzo settore, dall'edilizia alle istituzioni culturali); troppo grande e complicata la città.
Il blocco capitolino suggerirebbe due strade alternative: l'astensione; la convergenza, da alcuni praticata (penso ad Andrea Alzetta, per gli amici Tarzan), con SEL. Obietto all'astensione la necessità di pensare la trasformazione radicale a partire da un ibridazione inedita tra conflitti sociali e smottamenti politico-elettorali. La convergenza con SEL, invece, rischia di essere fruttuosa sul piano elettorale e locale, ma a dir poco problematica sul terreno nazionale ed europeo. Cosa significa scegliere il campo di Hollande e di Schultz quando questo campo è del tutto compatibile con la Costituente neoliberale che sta distruggendo letteralmente una generazione e impoverendo la società intera?
Non ho risposte e il risultato di Medici non mi aiuta a rispondere, ma pongo il problema, perché non mi sembra una questione privata. E concludo dicendo che sarebbe buona cosa che il principio repubblicano trovi a Roma nuovo radicamento territoriale, così come è accaduto a San Lorenzo, con la Libera Repubblica. Magari i tempi lunghi, con molta perseveranza, possono fare la differenza.




domenica 26 maggio 2013

2/ Incontri senza confini. Dal movimento all’istituzione

di Riccardo Bottazzo

Venezia 24/25 maggio- conclusasi la due giorni del Convegno “l’Europa oltre l’Europa”. Dopo la cronaca di ieri sulla prima giornata pubblichiamo quella relativa alla seconda e alla fase conclusiva dell’assise, puntualmente argomentata da Bottazzo per Global Project che ha organizzato l’appuntamento lagunare assieme a European Alternatives. Temi di chiusura: l’Europa tra crisi della rappresentanza e le politiche dall’alto ed il rilancio dei movimenti sociali per una Europa dei popoli e dei diritti. La strada “per un nuovo patto costituente tra cittadini e cittadini”, obiettivo dichiarato dai promotori, sembra essere percorribile. Proviamoci anche in nome di Don Andrea Gallo

Cronaca della seconda giornata
Spazio alle istituzioni, in questo secondo appuntamento del seminario l’Europa oltre l’Europa. La cornice prescelta non poteva che essere la sala consigliare di Ca’ Farsetti, sede del municipio di Venezia che si affaccia su un canal Grande fortunatamente miracolato dall'acqua alta. A far gli onori di casa, il consigliere comunale Beppe Caccia in collaborazione con Segolene Prunot.
Apertura a Ugo Mattei che focalizza il suo intervento sulla centralità dei beni comuni.
“Quando leggiamo che Delors e altri economisti invocano la necessità di apportare riforme strutturali all’Europa, sappiamo che parlano delle riforme imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale che continuano ad avere come obiettivo una ipotetica e futura crescita. Il nostro obiettivo, al contrario, è proporre una visione alternativa a questo riformismo già rivelatosi fallimentare. Perché la crescita, possiamo esserne certi, non ci sarà più”. In quanto alla crisi della rappresentanza, Mattei osserva che “un sistema che pensa ad una Europa sempre più simile ad uno Stato federale non è una soluzione. La causa di questa crisi non sta nella mancanza di sovranità del un Governo centrale ma nella mancanza di sovranità nel locale. Lo scontro sul livello della costituente è sorto proprio perché il sistema capitalista non tollera più quel poco di sovranità ancora concesso ai territori”. Come affrontare allora la sfida costituente? “intanto bisogna superare vecchi concetti come quello di destra e di sinistra. Non dobbiamo porci lo scopo di rifondare la sinistra ma trovare un linguaggio comune tra tutti coloro che non credono che l’accumulazione capitalista possa essere un criterio fondante dell’Europa”. Per Mattei, bisogna ripartire dai beni comuni portando la battaglia nel locale e, in particolare, nell'istituzione del Comune, come ente amministrativo più vicino ai cittadini. Un concetto questo, ribadito in tanti interventi. “Sforziamoci di costruire istituzioni nuove che si oppongano alla concentrazione verticistica del potere in nome della governabilità. Superiamo le vecchio distanze tra pubblico e privato. Poniamo al centro della nostra azione, sia nei movimenti che nelle istituzioni, concetti come l’inclusione, l’ecologia e un nuovo modo di stare assieme. E smettiamola di dare credito a quanti affermando che l’economia, prima o poi, tornerà a crescere!”
Con Theano Fotiou, parlamentare di Syriza, si torna a parlare di Grecia. Fotiou cita il motto della rivoluzione francese, libertà, fraternità ed uguaglianza, per ricordare come la politica europea promuova soluzioni completamente opposte. “Con i livelli di disoccupazione che abbiamo in Grecia come si fa a parlare di democrazia? Con le leggi che ogni giorno il parlamento approva e che sono contro la nostra costituzione, come si fa a parlare di democrazia? Queste sono le premesse ottimali per il fascismo. Noi in Grecia siamo arrivati al capolinea prima degli altri ma sula nostra stessa strada siete incamminati anche voi italiani. L’alternativa, non è il ritorno agli Stati nazionali ma una radicale rifondazione dell’Europa che abbia come base i cittadini e non la finanza”.
Voce fuori del coro, quella di Francesco Martone, responsabile degli esteri di Sel che polemizza con Mattei: “se non vogliamo più parlare di destra e di sinistra come possiamo combattere quello che sta succedendo in Ungheria dove si è imposto un regime fascista?” Anche la battaglia, secondo Martone, non va combattuta sul locale - “non c’è più tempo per ricostruire l’istituzione Comune” - quanto piuttosto dai banchi del parlamento europeo. Banchi ai quali sarà presumibilmente uno dei prossimi candidati di Sel. E conclude invitando la platea a “dare più forza alla propria rappresentanza al parlamento europeo”.
Addirittura sul “tragico ruolo del parlamentare europeo” si sofferma Niccolò Rinaldi, per l’appunto, parlamentare europeo nelle file dei liberali e democratici. Tragico ruolo in quanto “le nostre scelte sono distanti dal sentire comune dei cittadini”. Rinaldi si sofferma sul ruolo centrale del parlamento “espressione di democrazia diretta”, e paventa alle prossime elezioni l’arrivo di una forte rappresentanza euroscettica.
Roberto Musacchio di Altramente nota come la centralità della crescita abbia inquinato anche il pensiero socialista. “Le prossime elezioni saranno un vero e proprio referendum sull’Europa” commenta e bacchetta il relatore che lo ha preceduto, il parlamentare Rinaldi, sulla “distanza tra l’istituzione europea e il comune sentire del cittadino” osservando che “come dopo il disastro di Chernobyl tutti si sono informati su cosa è il nucleare, stavolta tutti si sono informati su cosa sia l’Europa”. Sulla questione euro sì o euro no, Musacchio ricorda che “già la lira era stata privatizzata dall'allora ministro Andreatta. L’euro non ha fatto altro che portare a termine un percorso già avviato. In questo nuovo panorama, ha ragione Ugo Mattei quando afferma che destra e sinistra sono uguali. Bisogna tornare al senso effettivo di questi parole. Spazio quindi alle politiche di movimento, ai beni comuni ad una nuova politica sul reddito. Proprio il diritto al reddito potrebbe rivelarsi un cardine fondamentale per scardinare l’Europa della grande finanza. Rovesciamo l’egemonia culturale liberista. Considerato che c’è tanta gente che lavora senza reddito, battiamoci per il diritto al reddito senza lavoro”.
Più come ex portavoce di Sbilanciamoci che come neo deputato di Sel - “all’opposizione” sottolinea-, interviene Giulio Marcon che osserva come la politica risponda solo alle logiche del mercato. “La questione sta nel riportare la finanza sotto il controllo dei cittadini. Questa è l’unica risposta alla crisi”. Per democratizzare l’Europa Marcon individua tre strade parallele: la democrazia diretta di cui i referendum sono lo strumento più efficace, la democrazia locale come focalizzato da Mattei e anche la rappresentanza elettorale.
Città e popoli sono il focus su coi si concentra l’assessora all’Ambiente del Comune di Venezia, Gianfranco Bettin, definite “le prime vittime delle politiche europee”. “Il patto di stabilità europeo ha colpito e mortificato proprio i Comuni che sono sempre stati, soprattutto in Italia, il cardine della partecipazione sociale e anche culturale dei cittadini. Il processo di spossessamento dei beni comuni ha investito le città perché queste erano il primo presidio di queste ricchezze di tutti”. Proprio sul terreno delle città quindi, si giocherà la partita determinante “tra i due poli dell’eurocrazia e del populismo. Sarà indispensabile allora aver maturato una sintesi politica in grado di dare una risposta razionale ma anche comprensibile a popolazioni impoverite e angosciate”. Un percorso che ci faccia uscire tanto dalla rassegnazione che ci porta ad accettare ingiuste ed inefficaci politiche di austerity, quanto dalle “nebbie di un populismo che oscilla tra rigurgiti fascisti e tentazioni di affidarci a vuoti demagoghi”. Ripartire quindi dallo spazio metropolitano per costruire una nuova condivisione dei beni comuni ma facendo attenzione che, di per sé, il ritorno al Comune non basta per garantire questo percorso. Bettin fa l’esempio dell’Arsenale di Venezia, recentemente tornato sotto la gestione del Comune. Un passo positivo, senza dubbia, ma non sufficiente a garantire un suo usufrutto slegato dalle logiche di mercato.
Applauditissimo l’intervento conclusivo di Lorenzo Marsili di European Alternatives. Uno che non te le manda a dire. “Parliamoci chiaro. Se pensiamo di andare alle elezioni raccontando alla gente che siamo per l’Europa ma che vorremmo rifondarla sulla base dei diritti, andiamo a perdere. La gente ci manderà tutti a cagare e fa bene a mandarci a cagare. Perché il tono delle danze lo sta dettando Beppe Grillo col referendum sull’euro. Cosa fare allora? Andare tra gli euroscettici per tornare a seguire le stesse politiche liberiste con una lire inflazionata piuttosto che con l’euro? Credo piuttosto che dobbiamo imparare a radicalizzare la nostra proposta alternativa”. Marsili non si nasconde che il nemico è un nemico invisibile. “Il drago dell’alta finanza” lo chiama. “Ma questo drago ha una rappresentanza politica che è ben visibile in figure come il cancelliere tedesco Angela Merkel”. Marsili conclude citando la “rivoluzione giacobina” proposta da Toni Negri. “I nostri eventuali candidati devono avere chiaro che vanno al parlamento europeo per sovvertire il parlamento europeo. Altrimenti, è meglio che se ne stiano a casa”. Dal conflitto internazionale alla costituente europea.

sabato 25 maggio 2013

1/ Incontri senza confini. Dall’Est all’Euromediterraneo

di Riccardo Bottazzo

Cronaca della prima giornata del convegno. Comincia da Venezia l’Europa in movimento. È cominciato come doveva cominciare. Con un grande e commosso applauso in memoria di don Gallo. “Un uomo che è e che sempre rimarrà nei cuori di chiunque lotti per cambiare il mondo”, come lo ha ricordato in apertura Vilma Mazza. È cominciato così la “due giorni” di incontri sul tema L’Europa oltre l’Europa organizzata da Global Project e European Alternatives

Il freddo quasi autunnale e la ventilata minaccia dell’acqua alta, sottoposta ai capricci di un imprevedibile vento di scirocco, non hanno compromesso la partecipazione di un folto pubblico che ha affollato la sala messa a disposizione dallo Iuav. Questo primo appuntamento, coordinato da Vilma Mazza direttore di Global Project e da Lorenzo Marsili European Alternatives,è stata dedicata ai movimenti internazionali. 
“Non perdiamoci a descrivere cose che già sappiamo - ha invitato Vilma Mazza - come le politiche di austerity o le repressioni, ma cerchiamo piuttosto di utilizzare questo incontro per costruire un ragionamento comune. Ragionamento che è tutt’altro che scontato. Nessuno di noi vuole tornare indietro nell’orologio della storia. Fermarsi a sostenere che l’Europa ci opprime rischia di sfociare in derive nazionalistiche. Piuttosto troviamo una strada comune per abbattere questa idea di Europa e costruirne una con una geografia politica diversa capace di guardare verso l’Euromediterraneo”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Lorenzo Marsili che osserva come ogni ragionamento sull’Europa è soggetto a due poli di attrazione: quello dello status quo e dell’austerità sostenuto da politiche socialdemocratiche sempre più blande, e quello del nazionalismo xenofobo di chiara impronta fascista. 
Tema al quale si riaggancia il primo ospite: il giornalista greco Argiris Panagoupoulus. “Ultimamente ho viaggiato parecchio per il sud dell’Europa - spiega - e ho visto dappertutto la stessa rabbia. Ma come si fa a costruire una Europa democratica partendo da un Paese come la Grecia che democratico non può più definirsi?” Argiris racconta episodi di precettazioni forzate e di un diritto fondamentale, come quello dello sciopero, che non esiste più. “Che diritti ci rimangono allora? Quello di andare a votare ogni quattro anni dopo un violento bombardamento di menzogne televisive?” Quindi esamina il caso greco di Syriza. “Mettere insieme le tante anime della sinistra greca è stato un rischio... nucleare! Eppure lo abbiamo fatto perché avevamo qualcosa di dire alla gente. “
Parola alla Spagna e al redattore di Diagonal pablo Elorduy. Impossibile che il discorso non cada sugli indignados. “In Spagna la situazione è diversa. La sinistra tradizionale, quella che affondava le sue radici nel comunismo, e non la destra, è violentemente antieuropea. Il governo socialista ha seguito una politica uguale a quella dei conservatori e che si limita a predicare austerità e tagli al welfare. Abbiamo assistito ad un processo di svuotamento dello Stato cui sono rimasti solo i compiti di controllo sociale e di spoliazione dei beni comuni. Contro tutto questo è nato il movimento degli indignados, che ha messo in luce la carenza di democrazia e la crisi della rappresentanza. Cosa ne è ora di questo movimento? Si è verificato un ritorno al territorio e una attenzione alle battaglie locali”. Ammettendo che, rispetto ad un ragionamento europea gli indignados sono in forte ritardo, Pablo conclude con un parallelo musicale, invitando tutti i movimenti locali a “suonare la stessa musica”. 
Anno zero anche in Romania, come spiega Iulia Popovici di CritcAtac. A Bucarest le proteste contro la casta politica e contro l’austerity hanno ottenuto solo di affondare un governo di destra per lasciare spazio ad una coalizione socialista e liberalista in cui i più liberisti sono proprio i socialisti. “I nostri governanti sono proni ai comandi di Bruxelles e più pronti ad andare contro al loro stesso popolo che ai comandi della troika. Da anni stanno privatizzando tutto il privatizzabile e anche qualcosa di più”. Addirittura, racconta Iulia, anche il sistema di ambulanze di prima emergenza è in mano ai privati. Per quanto riguarda l’Europa, in Romania non ci sono Euroscettici. “L’Europa viene vista come un mercato aperto del lavoro. Ricordiamoci che nel mio Paese la migrazione è un cardine sociale e culturale”.
Claudio Gnesutta di Sbilanciamoci riprendo in mano la dicotomia tra democrazia e capitalismo, osservando come questi due termini non si sposino bene assieme. “Siamo di fronte ad una rivoluzione dall’alto che significa che le regole sociali le sta riscrivendo l’alta finanza. Sino ad oggi c’è sempre stato un compromesso tra il sociale e l’economia. Adesso non c’è più bisogno di questo compromesso. L’economia ordina come deve organizzarsi la società. La finanza comanda perché può decidere come e dove devono spostarsi i capitali a livello globale. Si è assunta il diritto di decidere priorità, meriti e metodi, forte di una forte classe dirigente e di una forte egemonia culturale”. Gnesutta osserva come anche tanta sinistra abbia digerito il principio che l’economia è dominante in una società. Dove sta l’alternativa allora? “Riportando al centro il lavoro e i suoi diritti, ponendo la questione sociale sopra quella economica. Il problema non è euro sì o euro no, ma come cambiare le politiche economiche dell’Europa”.
Di rivoluzione dall’alto parla anche Francesco Raparelli di Dinamopress. “Ma piuttosto che usare questo termine preferisco quello di costituente neoliberale, preferisco parlare di saccheggio più che di economia. I salari, il welfare sono il primo bersaglio di questa costituente che tenta di trasformare la crisi in opportunità. Non è un caso che la grande finanza ha ripreso ad investire nei titoli di Paesi in bancarotta come la Grecia”. Quella che a parere di Raparelli ci attende è una stagione di grandi turbolenze sociali. “Non possiamo liquidare il problema come la supremazia dell’economia sulla politica. Il, problema è che si governo solo a sostegno del mercato. Non c’è un vuoto di politiche ma nuove politiche”. Impossibile pensare a rifondare questa Europa dal basso senza fare i conti con l’euro che, secondo Raparelli, è la quintessenza dell’Europa e un caposaldo di questo processo. Eppure sulla questione “euro sì o euro no” i movimenti non hanno ancora preso una posizione forte. “Grillo sta per lanciare il referendum contro l’euro. Noi cosa gli opponiamo?” domanda. Raparelli non si nasconde di non avere la soluzione in tasca e offre alla platea due possibilità: la moneta comune oppure “far uscire la Germania dall’euro. Intendo, istituendo zone di moneta diversificate nell’Europa. Cose fuori dal mondo? Può darsi. Di sicuro c’è solo che così come è, l’euro non può essere preso per buono”. 
Il giurista austriaco Leo Specht descrive come stiamo vivendo la fine del compromesso sociale su cui si era fondata la nostra società ed in cui anche alle classi deboli veniva concesso l’accesso alla ricchezza sociale. “Il welfare di cui abbiamo goduto sino ad ora era organizzato su base nazionale ma l’attacco è venuto dall’Europa e non c’è stata difesa”. Specht propone di rovesciare la logica europea puntando su economie locali. “Le politiche europee si basano sul binomia economia e mercato ma ci sono tante forme di mercato, anche di creative e di sperimentali in grado di creare vere alternative”. 
Srecko Horvat organizzatore del festival croato Subversive cerca di dare una risposta alla fondamentale domanda “Che fare?” e risponde raccontando un aneddoto riguardante Ho Chi Min al quale una delegazione di comunisti italiani aveva chiesto come poteva fare per sostenere la sua battaglia. Il leader vietnamita rispose “Quando tornate in Italia fate la rivoluzione che abbiamo bisogno di alleati”. “Magari non la rivoluzione - scherza Srecko, cui va dato l’innegabile merito di aver risvegliato la platea raccontando qualche episodio divertente - ma è innegabile che in tutta l’Europa qualcosa si muove. Il rischio è quello del Gattopardo, che cambi tutto per non cambiare niente”.

La “rottura” della cittadinanza

di Sandro Mezzadra

I momenti conflittuali e “insurrezionali” continuano a riprodursi all’interno delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di feedback all’interno delle istanze governative e “costituzionali”. È urgente lanciare una campagna costituente per trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”. Bisogna reinventare radicalmente lo spazio europeo le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. È necessario ricostruire un nuovo orizzonte politico su scala continentale dentro il quale la sinistra europea possa rifondarsi: non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state “storico”

Étienne Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia “da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”, producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. E’ necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa.
È evidente che la messa in discussione di consolidate gerarchie spaziali e l’affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell’accumulazione capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l’attuale crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di “deriva dei continenti” (per riprendere l’immagine geologica impiegata da Russell Banks nel famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All’interno di questi processi, l’Europa è sempre più “provincializzata”, anche se non necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante libro del 2000.
Di per sé, non è un male. Tutt’altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente le opportunità connesse a questa provincializzazione dell’Europa abbiamo bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo bisogno di un’Europa politica. Al di fuori di quest’ultima, la prospettiva è quella di un’Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, il cui dominio all’interno del capitalismo contemporaneo è alla radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi così evidente in Europa.
Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo “geopolitico” sulla questione europea (il che significherebbe in particolare discutere su basi completamente nuove il problema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui appena evocati per qualsiasi indagine critica sull’attuale situazione europea. Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su qualcos’altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a un’“altra Europa”.
Penso sia importante essere consapevoli, in questo senso di quanto profonda sia la rottura che è già stata prodotta all’interno della stessa struttura delle istituzioni europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare “dentro e contro” la cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in modo sbrigativo quell’esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell’“appartenenza” che dal punto di vista dell’architettura istituzionale – per richiamare i due punti di vista prevalenti negli studi sull’argomento – ci troviamo di fronte a con una profonda crisi della cittadinanza europea.
Per dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato “positivo” e “progressivo” agli occhi di una vasta maggioranza della popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna, l’Italia essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità delle politiche di austerity e con il loro carattere “punitivo”. Allo stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l’intero progetto di “integrazione attraverso il diritto”, tratto distintivo dell’integrazione europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle proprie contraddizioni degli ultimi anni. L’equilibrio tra un sovra-nazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi d’interesse.
Ne è emersa la cristallizzazione di un nuovo “assemblaggio” di potere capace di dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d’azione di qualsivoglia politica ( “europea” non meno che “nazionale”). Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell’austerity si sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l’indipendenza) della Banca Centrale Europea al centro di questo “assemblaggio” di potere.

giovedì 23 maggio 2013

CIAO ANDREA


Al mio popolo del Web
senza distinzione di razze, di sesso, di orientamento sessuale, di religione...
un grande grido

CONTINUATE! AGITATEVI
perché abbiamo bisogno del vostro entusiasmo

ORGANIZZATEVI
 è indispensabile la vostra forza

STUDIATE
è indispensabile la vostra intelligenza

È  GIUNTO IL MOMENTO DI AFFERMARE:
in Italia è nato un regime consolidato, al tramonto di Berlusconi, i neri di tutte le specie vanno al loro Sabba
È  il capitalismo che accelera l'avanzata della sua mostruosità

LA DIGNITÀ DEL LAVORO È COLPITA MORTALMENTE!!!
Baluardo del Regime è Comunione e liberazione! Al Posto di Liberazione hanno messo Lottizzazione
CL cercherà di stringere attorno a sé il potere, 
con destra estrema 
e con pezzi sparsi in tutti i partiti di 
centro sinistra, con il sostegno 
delle parti reazionarie delle istituzioni e consistenti strati della chiesa

CI RIMANE LA PIAZZA! 
IN ASSEMBLEA PERMANETE, AUTOGESTITA, 
CON SENSO DI RESPONSABILITÀ

INDIGNAZIONE A 360 GRADI, NON IN TEORIA 
MA NEI FATTI


                             don Andrea Gallo, prete da marciapiede 

sabato 18 maggio 2013

Newsletter n.13


RASSEGNA QUINDICINALE

Sommario


di ∫connessioni Precarie
che la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta il problema di un’iniziativa politica nella precarietà e contro di essa. La richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra faccia dello stesso problema, e il fatto che, nelle retoriche di movimento, esso cambi nome in continuazione è qualcosa su cui vale la pena riflettere. Ma soprattutto rimane aperto il problema di pensare secondo schemi se non originali almeno sperimentali il problema dell’organizzazione

di Guglielmo Ragozzino
new “Green Deal” oltre il Pil e nuovi indicatori di sostenibilità: biodiversità, patrimonio culturale e paesaggistico, salute e ambiente,  difesa del suolo e adattamento ai cambiamenti climatici, filiera bioagroalimentare, ect. “L'ecologia dovrebbe essere la politica principale dei prossimi dieci anni, per non distruggere, oltre al capitale umano e sociale, anche il capitale naturale del nostro paese”


di Alessandro Simoncini
è possibile costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la rivoluzione dall’alto? Possiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Per dare le risposte a questi interrogativi l’autore di della recensione al libro di Jappe (Guy Debord,Manifestolibri) ritiene assolutamente inopportuno mettere Guy Debord al rogo 

di Samir Amin
queste insurrezioni scoppiate nel 2011 hanno sorpreso i regimi al potere nonché le cancellerie occidentali che li hanno sostenuti, ma non hanno sorpreso i militanti della sinistra araba. Dei segni anticipatori, lo sciopero di Gassa, quello degli operai egiziani nel 2007/2008, la resistenza dei piccoli contadini egiziani alle espropriazioni accelerate, le manifestazioni democratiche delle classi medie (la Kefaya in Egitto), ci avevano in qualche modo preavvertito

di Lanfranco Caminiti
Nell’epoca in cui l’umanità vive la più intensa e straordinaria esperienza dell’essere-in-comune, in un tempo in cui mai l’umano è stato attraversato da una condizione esistenziale di dimensione universale ma al tempo stesso atomizzata, è possibile superare “la dicotomia che vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il trionfo del neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la roccaforte del diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un senso etico e di cura degli altri?”

di  Michele Franco
Stanno crescendo le adesioni all’Appello per la costruzione di un Movimento Anticapitalista che vedrà un primo momento di discussione pubblico il prossimo sabato 11 maggio a Bologna al Teatro  Galleria (via Matteotti, ore 10.00). Nasce oggi una proposta di lotta per dare spessore politico unitario ai focolai di resistenza popolare contro le politiche criminali dell'Unione europea


La precarietà delle nostre connessioni

di ∫connessioni Precarie

che la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta il problema di un’iniziativa politica nella precarietà e contro di essa. La richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra faccia dello stesso problema, e il fatto che, nelle retoriche di movimento, esso cambi nome in continuazione è qualcosa su cui vale la pena riflettere. Ma soprattutto rimane aperto il problema di pensare secondo schemi se non originali almeno sperimentali il problema dell’organizzazione

In questi due anni di ∫connessioni precarie poche cose si sono imposte con il segno violento della novità. Altre cose si sono modificate al punto da richiedere una ridefinizione. Altre ancora sono semplicemente scomparse. Molti, se non tutti i nostri problemi sono rimasti aperti e aspettano ancora di essere affrontati.
La crisi è diventata «il padrone» con il quale milioni di proletari devono fare quotidianamente i conti. Essa ha accelerato processi di precarizzazione investendo tutti i segmenti della forza lavoro. La precarietà è stata così liberata dal suo tratto generazionale, esistenziale, professionale, migrante, diventando una condizione generale. Mentre questo processo si è affermato inesorabilmente, è venuto progressivamente meno il progetto di esprimere un punto di vista precario su una scala quanto meno nazionale. Anche la parola d’ordine dello sciopero precario non è mai riuscita ad andare oltre l’intuizione che pure esprimeva. Con l’eccezione politica dei migranti, lo sciopero precario non c’è stato. Il nesso indiscutibile tra lavoro precario e povertà non ha prodotto in Italia le continue mobilitazioni di massa che da anni ormai vediamo in Spagna, Portogallo e Grecia. Di fronte a questa situazione aumentano comprensibilmente le descrizioni degli stati di necessità più disparati e delle mille oppressioni quotidiane, nella speranza che alla fine la necessità e la repressione diventino davvero uno scandalo. Altrettanto comprensibilmente alle situazioni di lotta aperta viene immediatamente attribuita la caratteristica di modello da espandere o da ripetere. Non è però mai successo che il modello trovasse davvero delle repliche all’altezza.
E questo è parte del problema.
In questa situazione che presenta allo stesso tempo caratteri generali e particolari, la recente esperienza dei migranti della logistica pone questioni centrali a chi voglia immaginare e praticare nuove lotte sui luoghi di lavoro. La prima riguarda il fatto che certe situazioni, che esplodono per l’alto grado di sfruttamento e di abuso che le caratterizza, hanno la possibilità di organizzarsi proprio per la particolare omogeneità della composizione del lavoro: come le fabbriche classiche i magazzini della logistica sono luoghi di concentrazione di lavoratori legati da una comune condizione oggettiva, in questo caso il permesso di soggiorno. L’organizzazione ha potuto far leva su di un’omogeneità che sta all’intreccio tra la categoria, la Bossi-Fini, il sesso (quasi il 100% di lavoratori maschi) e la provenienza (che ricalca un’organizzazione del lavoro nelle cooperative che fa leva anche sull’appartenenza comunitaria). A partire da queste condizioni i lavoratori si sono riconosciuti come uguali. Proprio in virtù di questa specificità, l’esperienza nella logistica non può essere immediatamente generalizzabile, né si può considerare come un paradigma: piuttosto, si tratta di riconoscere che questo focolaio è esploso per le sue particolarità, che lo separano dal contesto generale e che hanno reso possibile uno specifico intervento sindacale. Non a caso, nonostante tutti i lodevoli sforzi di solidarietà, i migranti della logistica sono rimasti finora politicamente soli nelle loro lotte.
In questo senso, un’altra lezione fondamentale proveniente dall’esperienza nella logistica è che i movimenti non possono sostituirsi ai sindacati. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile» portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio in Pakistan), il sindacato è una struttura insostituibile per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i (tanti) limiti della forma sindacale, che abbiamo osservato in altre occasioni e che riguardano anche i sindacati più coerenti, ma di riconoscere che il sindacato è per i lavoratori una tattica di conflitto ancora centrale. Si tratta però di una tattica che non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile proprio all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno di particolari luoghi di lavoro.
Per questa ragione, difficilmente il sindacato può essere considerato come la forma politica in grado di mettere in campo un movimento di massa che raccoglie e unifica una moltitudine varia di molteplici singolarità. Il sindacato non può essere questa forma perché è destinato a organizzare segmenti specifici di forza lavoro, a partire dalle loro esigenze concrete e dalla concreta controparte che si trova di fronte. Proprio perché in grado di organizzare puntualmente situazioni specifiche, il sindacato difficilmente può andare oltre queste specificità, le quali a loro volta non consentono di replicare immaginari federativi come soluzione del problema. Non è certamente un caso che le strutture sindacali che pretendono di organizzare il lavoro nel suo complesso, confederando appunto i lavori, si votino all’impotenza, soprattutto in un quadro segnato dal tramonto della contrattazione nazionale e dalla fine della concertazione.

La politica diletta*

di Guglielmo Ragozzino

new “Green Deal” oltre il Pil e nuovi indicatori di sostenibilità: biodiversità, patrimonio culturale e paesaggistico, salute e ambiente,  difesa del suolo e adattamento ai cambiamenti climatici, filiera bioagroalimentare, ect. “L'ecologia dovrebbe essere la politica principale dei prossimi dieci anni, per non distruggere, oltre al capitale umano e sociale, anche il capitale naturale del nostro paese”

Sono convinto che voi ne sappiate più di me di economia e di società, e proprio per questo sono venuto qui, per imparare qualcosa: fatti reali, sprazzi di vita. Al contrario di altri ho però avuto il compito e l’opportunità di dedicare un po’ di giorni per riflettere sull’economia e poi riferire quel che mi era sembrato importante. Per spirito di servizio ho cercato di farlo. Ho capito che l’Europa è un bell’intrigo e l’euro anche. Questa è una novità assoluta per i nostri secoli: una moneta fortissima ma senza sovrano. Il mio intervento avrebbe dovuto completare quelli ben più rilevanti di Carlo Donolo e Francesco Ciafaloni. Anche per sentire loro sono arrivato qui. Di Donolo ho gli appunti molto completi sui quali egli avrebbe sviluppato l’intervento a braccio. Un volonteroso o una volonterosa potrebbe leggerli; Donolo sarebbe contento. Altrimenti, peggio per lui.
A me tocca tornare alla moneta fortissima che assedia un paese assai debole. Un fatto che provoca serie conseguenze per i cosiddetti paesi Piigs, cioè quelli della fascia povera del continente. Da molte stagioni, ormai da anni, non si parla d’altro. L’Europa ricca ha deciso con il consenso e l’appoggio della triplice costituita da Bce, Fondo monetario e Commissione di Bruxelles di mettere in riga gli sperperatori, i falsari, i debitori incontinenti. Ci sono tre regole d’oro da rispettare: un deficit annuo massimo non superiore al 3% del prodotto interno lordo o Pil, un debito massimo pari al 60% del Pil, l’obbligo di rientrare dal superamento del debito massimo ammesso per mezzo punto percentuale ogni anno, fino al raggiungimento di quel massimo consentito. Ne deriva una situazione assai grama, in qualche modo simile a quella dei paesi indebitati del Sud del mondo negli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Allora era il Fondo monetario, adesso è “l’Europa” a comandare. L’Italia deve ridurre l’indebitamento annuo e quindi la spesa in deficit non le è consentita, non può fare grandi investimenti pubblici keynesiani, diretti o indiretti. Per ridurre il debito, non potendo aumentare la produzione e il Pil deve risparmiare altri 40 o 50 miliardi all’anno, per quindici o venti anni. Con meno investimenti, tagli nelle pensioni e negli stipendi pubblici, il risultato è quello di tentare di portare al pareggio un paese esausto con ancora più disoccupati, in particolare delle giovani generazioni.
Dopo aver fatto questo quadro, gli economisti sgomenti francesi, autori di una serie di libri diffusi in Italia da Sbilanciamoci in rete (www.sbilanciamoci.info/ebook) e da Minimum fax in libreria, suggeriscono una serie di misure alla portata di ogni paese non spaventato e capace di fare alleanze con altri paesi, come la Francia. Dodici semplici passi, in tutto, quasi una lezione di ballo. Passo 1) Disarmare i mercati finanziari (a partire dai derivati). 2) Far garantire i debiti pubblici dalla Bce con titoli al 2% a 10 anni. 3) Rinegoziare i tassi eccessivi (come quelli imposti ai comuni italiani). 4) Farla finita con la concorrenza fiscale tra gli stati. 5) Vietare a banche e imprese l’uso dei paradisi fiscali. 6) Separare le banche di deposito o commerciali dalle banche d’affari. 7) Far nascere banche pubbliche, incanalandovi il risparmio delle famiglie. 8) Avviare la transizione ecologica con fondi raccolti dalle banche pubbliche del punto precedente. 9) Costruire un bilancio europeo con tanto di Tobin Tax e fiscalità ecologica. 10) Mettere in moto l’Europa: in agricoltura con un buon uso del Pac, nella finanza, nella politica industriale, verso un’Europa sociale. 11) Ridurre lo squilibrio attraverso un coordinamento europeo. 12) Scrivere un trattato europeo che abbia la democrazia come obiettivo centrale. Qualcuno dirà che non è un programma efficiente, ma è provato che neppure quello corrente lo è; quello dei francesi sgomenti almeno ha una faccia sorridente, è meno rancoroso e potrebbe perfino funzionare. Un libro dei sogni, o meglio un libro della speranza, come avrebbe detto il nostro amico Guido Martinotti.
La fase di costruzione del nostro governo ha lasciato molto a desiderare. È prevalsa la scelta della governabilità, difficile da raggiungere e se ne è pagato un prezzo elevato. Sono riapparse vecchie abitudini, gelosie e paure che sembravano sopite. In conclusione, Enrico Letta ha fatto un lungo discorso presentando il suo governo alla Camera dei deputati (e dandolo per letto al Senato), ma non ha convinto. Ha parlato di Europa e debito, di leggi elettorali, di banche e finanza – le offerte vantaggiose di un catalogo – ma ha solo sfiorato temi qualificanti; forse non poteva spingersi troppo in là o forse non li conosceva. A nostro avviso il discorso era carente soprattutto in tema di ambiente e compagnia bella, visti piuttosto come un intralcio nel cammino della grande politica. La grande politica è estranea, a noi che stiamo parlando, certo non a voi che ascoltate, mentre l’ambiente lo abbiamo a cuore. Ne vorremmo trattare nella parte finale di questo intervento.
Né mitigazione, né adattamento esistono per Letta, come non esiste – o se esiste, conta poco – la green economy. I relativi passaggi, molto brevi e superficiali, sono soltanto due: oltre all’alta tecnologia bisogna investire risorse su ambiente ed energia. E questo in sé non è sbagliato, ma troppo poco. E come investire? Così: “Le nuove tecnologie – fonti rinnovabili ed efficienza energetica – vanno maggiormente integrate nel contesto esistente, migliorando la selettività degli strumenti esistenti di incentivazione, in un’ottica organica con visione di medio e lungo periodo. Sempre con riguardo ai settori energetici, va completato il processo di integrazione con i mercati geografici dei paesi europei confinanti. Questo implica, per l’energia elettrica, il completamento del cosiddetto market coupling e, per il gas, il completo riallineamento dei nostri prezzi con quelli europei e la trasformazione del nostro paese in un hub. È chiaro che episodi come quello dell’Ilva di Taranto non sono più tollerabili.
L’altra grande risorsa è l’Italia stessa. Bellezza senza navigatore. La nostra tendenza all’autocommiserazione è pari solo all’ammirazione che l’Italia suscita all’estero. Molti stranieri vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città, mangiare e vestire italiano. L’Italia e il made in Italy sono le nostre migliori ricchezze. È per questo che uno dei primi atti del governo sarà quello di nominare il Commissario unico per l’Expo, una grande occasione che non dobbiamo mancare. A questo fine nei prossimi giorni sarò a Milano a presentare il decreto per partire per l’ultimo miglio di questo evento strategico….
Per questo dobbiamo rilanciare il turismo e, soprattutto, attrarre investimenti. Rimuoviamo quegli ostacoli che fanno sì che l’Italia per molti non sia una scelta di vita. Questo significa puntare sulla cultura, motore e moltiplicatore dello sviluppo, o sulle straordinarie realtà dell’agro-alimentare. Questo significa valorizzare e custodire l’ambiente, il paesaggio, l’arte, l’architettura, le eccellenze enogastronomiche, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali.”
Cosa pensa il presidente del consiglio dell’Ilva di Taranto? Perché non è più tollerabile? Non viene detto. È il massimo dell’ambiguità, oppure è la semplice affermazione di essere al corrente che vi è un problema; lo statista per definizione sa tutto, sa che Taranto esiste. Poi c’è l’Italia tutta come hub del gas: una risorsa per l’Europa. Un problema è anche l’expo di Milano; un problema che emerge, il rischio di mostrare poca efficienza; insomma un problema di calibratura politica, una possibile cattiva figura con gli stranieri e i visitatori; oltre all’expo c’è il turismo consapevole e poi una macedonia di paesaggio, arte, eccellenze enogastronomiche e infrastrutture trasportistiche. Parole imprecise e generiche al punto che potevano essere usate, in vari contesti anche 10 o 20 o 30 anni in ogni sorta di discorso d’occasione.
Abbiamo visto che l’obiettivo della politica lettiana o se preferite diletta (la politica diletta) è la riduzione del disavanzo pubblico; l’ambiente non è cccosa… Monti ha solo cominciato, ora bisogna proseguire; non conta che ci sia stato, l’anno scorso in aprile, un voto compatto dei Parlamento, tanto compatto che non è neppure servito il referendum necessario in caso di modifiche alla Costituzione con maggioranze ridotte. L’Europa ha ottenuto che il Fiscal compact diventasse legge, che entrasse perfino nelle Costituzioni, all’articolo 81 nel nostro caso.

martedì 14 maggio 2013

Bruciare Debord? A partire da un libro di Anselm Jappe*

di Alessandro Simoncini

È possibile costruire “situazioni” e potenza dal basso contro la rivoluzione dall’alto? Possiamo produrre rendita sociale contro la rendita finanziaria e la tirannia del valore? Per dare le risposte a questi interrogativi l’autore di della recensione al libro di Jappe (Guy Debord,Manifestolibri) ritiene assolutamente inopportuno mettere  Guy Debord al rogo. Anzi, è bene –ci dice Simoncini- «lavorare ad una adeguata comprensione delle nuove forme del concetto di spettacolo, senza smettere però di valorizzare il modo in cui il suo “inventore” ne ha messo a nudo l’anima stessa». Jappe ci mostra che il concetto di spettacolo non riguarda tanto i bagliori della “sua manifestazione più opprimente”- la componente mass-mediatica –, quanto il modo in cui nella società dello spettacolo “il vivere e il determinare gli eventi in prima persona” venga radicalmente interdetto dalla “contemplazione passiva di immagini, che sono state scelte da altri”

Tra Socialisme ou Barbarie e Maggio ‘68
Debord sarà sempre fermo nella critica ad ogni possibile difesa dell’esperienza dei socialismi realizzati, che imbrigliano la vita delle popolazioni nella morsa dello “spettacolo concentrato”. In ciò deve molto alla rivistaSocialisme ou Barbarie, che legge quelle fomazioni sociali come duramente classiste e, in fin dei conti, “peggiori del feudalesimo”. Dalla rivista, il filosofo situazionista- mutua anche l’avversione nei confronti di ogni tipo di burocrazia, anche quella delle avanguardie che si battono in nome del proletariato. La burocrazia di partito, che approfondisce la frattura socialmente egemone tra governanti e governati, va sostituita con forme organizzative consiliari capaci di diffondere l’azione politica ben al di fuori della fabbrica – della cui funzione socializzante i redattori di Socialisme ou Barbarie scorgono precocemente la crisi . Per loro occorre giungere all’ “autogestione generalizzata”: più che pianificare l’economia o redistribuire ricchezze, il socialismo dovrà infatti “dare un senso alla vita e al lavoro, liberare la creatività e riconciliare l’uomo con la natura”. Jappe sottolinea l’influenza di queste tematiche su Debord, ma mostra anche come l’Internazionale situazionista – quando la rivista passerà dalla critica dell’economicismo alla critica del marxismo tout court – criticherà Socialisme ou Barbarie di umanesimo molle e di simpatia con le retoriche della “democrazia occidentale”.
Tra non poche contraddizioni, come quella che la vede riservare al proletariato il ruolo centrale nella sovversione della società pur avendo tolto ogni valore al lavoro – Ne travaillez jamais, avevano già scritto i lettristi sui muri -, l’ “avanguardia inaccettabile” (come lo stesso Jappe definisce l’Internazionale situazionista ne L’avant-garde inacceptable. Réflexions sur Guy Debord, Paris, Éditions Léo Scheer, 2009) scivola fieramente verso il Maggio ’68 preoccupandosi di “mantenere il proprio monopolio sulla radicalità”e facendosi beffe di ogni terzomondismo piagnone: “il progetto rivoluzionario deve essere realizzato nei paesi industriali avanzati”, si sostiene sulla rivista dell’I.S. Nel “bel Maggio” – continua Jappe – i situazionisti vedevano confermata la bontà delle loro previsioni. Infatti, pur senza crisi economiche in vista, appariva possibile quel “rovesciamento del mondo rovesciato” che faceva leva sul desiderio di una vita diversa presente nella maggioranza dei viventi: quel “desiderio di essere maestri della propria vita” che in ogni momento può “mettere in ginocchio uno Stato moderno”. Al mondo borghese ecologicamente distruttivo del capitale, del valore, della quantità e della merce, avrebbe sempre potuto far seguito un mondo passionale, qualitativo, composto da “maestri senza schiavi”. Contro lo spettacolo che nega la storia e la rinchiude in un eterno presente, il “bel Maggio” mostrava insomma che in ogni momento era possibile riaprire la partita. È soprattutto una questione di strategia, sembrava ritenere Debord. Si tratta, cioè, di tenere sott’occhio la dinamica dei movimenti per inserirvisi nel momento opportuno; come nella più barocca delle letture del reale, bisogna insomma prendere la scena del gran teatro del mondo, dove si svolge quell’eterno gioco-scontro tra le forze che è in fin dei conti la storia.
Non è un caso, allora, che Debord fosse un grande ammiratore di Paul Gondi, il Cardinal de Retz, ma anche di Machiavelli e di Clausewitz; come non è casuale che abbia inventato un “gioco della guerra” che verrà anche commercializzato. Tradendo l’adesione ad una concezione duellistica della guerra, dalla quale mutuerà per Jappe una concezione in fondo rigida della lotta di classe, Debord scriverà che “le teorie non sono fatte che per morire nella guerra del tempo: sono delle unità più o meno forti che bisogna impegnare al momento giusto nella lotta”. E ancora: “ogni teoria non è altro che un battaglione da lanciare nella guerra”.
Jappe mostra bene come “Maggio ’68” rappresenti il vero momento di gloria dei situazionisti, ma anche l’inizio di quella crisi che condurrà allo scioglimento della loro Internazionale nel 1972. In un modo per nulla convincente, ne La vera scissione nell’internazionale (1972), lo stesso Debord e l’italiano Sanguineti sosterranno che lo scioglimento è conseguente al fatto che le idee situazioniste sono ormai diffuse in tutte le organizzazioni rivoluzionarie; e in tutte quelle che i due chiamano “lotte contro l’alienazione”: le lotte dei neri afro-americani (e non), degli studenti, delle donne, degli omosessuali; lotte peraltro mai davvero approfonditamente indagate nella loro specificità. Agli occhi dei componenti superstiti dell’I. S., sopravissuti alle scissioni e alle scomuniche di un Debord rigorosamente ortodosso tra i nemici di ogni ortodossia, lo scioglimento era nelle cose, poiché il compito dell’organizzazione era stato finalmente svolto con successo.
Al riguardo Jappe parla esplicitamente di “megalomania” e di “perdita del senso della realtà”, rilevando come le teorie situazioniste fossero di fatto presenti solo tra gli studenti e tra gli intellettuali e non in quel proletariato tanto agognato che del resto non si è mai davvero battuto contro la società dello spettacolo intesa nella sua “totalità”. Per Jappe è proprio l’individuazione del proletariato come soggetto antagonista dello spettacolo «il limite evidente della teoria di Debord». In molti luoghi della sua opera egli aveva infatti evidenziato il «carattereinconscio della società retta dal valore»,  in sintonia con il modo in cui nel Capitale Marx aveva descritto gli abitanti della società della merce come donne e uomini il cui «movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo». Ciononostante restava legato ad un concetto in fondo idealistico della “classe” e della “lotta di classe”. Nell’ipotesi di Jappe, però, è proprio quest’ultima – declinata in forma per lo più distributiva nell’esperienza storica del movimento operaio – ad aver permesso di rafforzare la presa del sistema capitalistico su individui ridotti davvero ad “uomini senza qualità”; uomini che competono unicamente “per un posto più confortevole nell’alienazione generale”, diventando così progressivamente «”monadi” astratte e uguali che partecipano in pieno al denaro e allo Stato».
Debord si è illuso che il proletariato fosse un soggetto antagonista naturalmente esterno alla logica dello spettacolo – è la tesi di Jappe –, mentre questo continuava ad essere prodotto e riprodotto come un «attrezzo vivo del capitale variabile e del capitale fisso», in una parola come spettatore nella società della merce.