domenica 28 aprile 2013

Newsletter n.12

RASSEGNA QUINDICINALE 
sommario


di Luca Santini


La consegna alla Camera della proposta di legge d’iniziativa popolare sul Reddito minimo garantito apre una fase nuova nel rinnovamento delle politiche sociali e di tutela del reddito in Italia. La Relazione sulla sostenibilità, costo e finanziamento di un reddito di base incondizionato in Italia, è stata curata da Andrea Fumagalli


di Sergio Cesaratto


il manifesto-Barca rischia di essere elitario e incapace soprattutto – diciamo noi - di saldare la tradizione del movimento operaio non solo con le istanze del mondo giovanile, ma con l’insieme del proletariato cognitivo diffuso incarnatosi nelle nuove forme della cooperazione produttiva sociale, la cui centralità in qualche modo viene pure evocata dall’ex ministro tecnico


di Giuseppe Grosso


6.202.700 di spagnoli (il 27,16% della popolazione attiva) sono senza lavoro. I componenti di due milioni di famiglie sono disoccupati. Il tasso della disoccupazione giovanile è schizzato al 57,22%. Anche i maggiori sindacati scendono sul sentiero di guerra contro le politiche di austerità del governo


di L. Baronian/C. Vercellone


il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro


di Giso Amendola


la prassi costituzionale aveva sancito il principio di “non-rieleggibilità” del Capo dello Stato, conformemente alla funzione “notarile” a cui è chiamato,  proprio al fine di non dare alcuna valenza politica al mandato presidenziale. Certo non è il golpe, ma la logica emergenziale ancora una volta irrompe sulla scena e de facto sospende la dialettica politica dello spazio di rappresentanza


di Andrea Fumagalli


l’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che sia l’eccessiva rigidità del lavoro a essere la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà la prima responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce


di Gigi Roggero


«La lotta di classe. Una storia politica e filosofica», un saggio del filosofo Domenico Losurdo per Laterza. Un ambizioso e documentato tentativo di ricostruire genesi e sviluppo di un concetto che corre il rischio di perdere di vista la storicità del capitalismo e le trasformazioni imposte proprio dai movimenti «antisistema» tanto nel Nord che nel Sud del pianeta


a cura di A. Castronovo/E. Pittalis


etnopsichiatra di formazione Beneduce è fondatore dell’associazione e del centro di ricerca Frantz Fanon e nel 1996 del Centro Clinico Fanon, che si occupa di salute mentale nell’ambito della popolazione migrante, qualificandosi come servizio di Psicoterapia, Counseling e Supporto Psico-Sociale per Immigrati Rifugiati e Vittime di Tortura






sabato 27 aprile 2013

Reddito minimo garantito, la proposta di legge d’iniziativa popolare

di Luca Santini

La consegna alla Camera della proposta di legge d’iniziativa popolare sul Reddito minimo garantito apre una fase nuova nel rinnovamento delle politiche sociali e di tutela del reddito in Italia. La Relazione sulla sostenibilità, costo e finanziamento di un reddito di base incondizionato in Italia, curata da Andrea Fumagalli, è disponibile qui 

Il 15 aprile 2013 è stata una giornata speciale nella lunga storia di rivendicazioni che hanno attraversato il nostro paese sul tema del reddito garantito. Nel corso degli anni si sono tenute assemblee, manifestazioni, cortei; gruppi di precari hanno preso la parola e si sono organizzati per narrare la loro condizione sociale; montagne di studi e pubblicazioni si sono accumulate per evidenziare le carenze del nostro sistema di protezione sociale. L’Italia, in breve, aspetta da almeno vent'anni risposte e forme di regolamentazione nuove, adatte a fornire tutela al cittadino nell’epoca della crisi e della così detta “produzione flessibile”.
Il 15 aprile si è aggiunto un ulteriore tassello: una folta delegazione in rappresentanza di oltre 170 tra associazioni, comitati e partiti si è recata a Piazza Montecitorio e ha consegnato alla Presidenza della Camera le oltre 50.000 firme a sostegno del disegno di legge di iniziativa popolare per l'istituzione del Reddito minimo garantito (www.redditogarantito.it/#!/home).
La proposta è modellata su quanto previsto nella legge n. 4/2009 della Regione Lazio che, seppure solo in via sperimentale, ha introdotto una misura di reddito garantito dalle caratteristiche fortemente innovative, che molti osservatori hanno salutato come possibile momento di svolta per le politiche sociali del nostro paese.
Sulla scia di quanto previsto in tale legge regionale, e in accordo con le migliori prassi in vigore nei paesi europei, la proposta di legge prevede che l’erogazione (consistente in 600 euro mensili, oltre a integrazioni in beni e servizi a carico delle Regioni) abbia carattere individuale (e non familiare, come molte prestazioni assistenziali del nostro welfare) e sia destinata non soltanto ai soggetti irrevocabilmente esclusi dal mercato del lavoro, bensì anche ai soggetti in cerca di prima occupazione o ai lavoratori precariamente occupati o a basso reddito.

Tutti in Barca? Alla ricerca di una sinistra diversa

di Sergio Cesaratto

il manifesto-Barca è un solco riformista che tenta di “superare la scissione che la tradizionale politique politicienne della sinistra italiana frappone fra visione e competenze. Solo il superamento di questa scissione potrà rendere la sinistra italiana seriamente riformista, dunque nuovo principe pragmatico in un paese che pragmatico non è”. Tuttavia rischia di essere elitario e incapace soprattutto – diciamo noi - di saldare la tradizione del movimento operaio non solo con le istanze del mondo giovanile, ma con l’insieme del proletariato cognitivo diffuso incarnatosi nelle nuove forme della cooperazione produttiva sociale, la cui centralità in qualche modo viene pure evocata dall’ex ministro tecnico(ndr)

Il documento di Fabrizio Barca “Un partito nuovo per un buon governo”  non è di facile lettura per chi, come me, non è attrezzato ad affrontare la questione dei rapporti partiti-Stato nella prospettiva della storia del pensiero politico e dell’esperienza storica. Lasciando dunque ad altri questo compito, solo poche osservazioni rimangono a me possibili, anche perché il documento non entra nel merito delle proposte, ma riguarda soprattutto l’idea di partito come strumento per un nuovo riformismo italiano.
1) La prima osservazione concerne l’enfasi che esso ripone sulle competenze. Il partito deve essere collettore e sintesi di competenze diffuse sui territori e fra gli individui. Questo a me sembra un importante elemento riformatore in una politica italiana, sinistra inclusa, in cui la competenza è spesso tacitata di specialismo tecnico, mentre l’incompetenza è contrabbandata per visione politica di grande respiro. Un aspetto centrale della scissione fra competenza e visione riguarda la politica economica delle cui tematiche anche specifiche – si pensi ai complessi problemi europei – i leader della sinistra sono in genere manifestatamente inesperti. Il riformismo, come Barca giustamente rivendica, è fatto di pragmatismo a ogni livello, dal micro al macro, di voler e di saper fare. Al riguardo, porrei a Barca due questioni:
(a)   I grandi temi e scelte di politica economica – come in generale quelle di politica estera a cui sono legati - non possono facilmente emergere dalla sintesi di conoscenze locali come su temi più squisitamente legate al territorio e trasferibili da un territorio a un altro. Insomma il modello bottom-top ha dei limiti nei riguardi delle scelte strategiche nazionali.
(b)   È il volontarismo delle “buone volontà” sufficiente alla mobilitazione di energie auspicata da Barca? Il partito da lui evocato rammenta la figura Gramsciana del partito come moderno principe. Vi sono nella società italiana energie sufficienti e a quali energie o classi ci si rivolge? Barca elude la questione, o forse la dà per scontata evitando retoriche elencazioni. Naturalmente, se il test della torta è nel mangiarla (per dirla all’inglese), allora viva l’ottimismo della volontà. V’è in Barca – l’evocazione del padre è significativa – una nostalgia del vecchio PCI che, pur nei limiti del suo riformismo (Paggi e D’Angelillo 1986), rappresentava una mobilitazione costante di visione e competenze  del paese. Questo va bene, e anche i valori civili che da quel partito emanavano ci mancano. Però il rischi che il documento di Barca possa apparire un “paper” per un convegno di studi organizzativistici (Massimo Adinolfi su l’Unità del 14 aprile) vi sono, così come quelli, vecchio vizio del PCI, del moralismo economico, come vedremo più avanti.
2) Il tema che riteniamo centrale dell’Europa, come altri di merito, non è discusso nel documento. Ci è tuttavia piaciuto che nell’incipit si affermi che “è evidente che le difficoltà di governare l’Italia derivano anche dall’incompiutezza e dalle incertezze dell’Unione Europea, dalla sua incapacità di fronteggiare la seconda più grave crisi della storia del capitalismo, mettendo in discussione i paradigmi errati che l’hanno indotta e rilanciando il disegno della cittadinanza europea.” (p.1) Mentre nel decalogo finale il punto 3 afferma “Le ‘limitazioni di sovranità’ (Cost. art. 11) connesse al progresso del progetto di Unione Europea, necessario per la pace e la giustizia del continente, devono accrescersi a misura della crescita dei diritti e dei doveri che l’Unione Europea garantisce ai cittadini italiani e di ogni Stato membro in quanto cittadini europei.” (p.53)  Quest’ultima dichiarazione di principio non mi sembra irrilevante in una sinistra italiana che è succube di un europeismo retorico che antepone con cinica superficialità agli interessi dei propri cittadini. Il principio affermato da Barca, se si è conseguenti, impone un ripensamento di tutta la politica italiana verso l’Unione Europea, dalle modalità con cui è stata gestita l‘unificazione monetaria e la crisi, ai limiti imposti alle politiche industriali pubbliche.

Spagna, «indignados» di nuovo in piazza

di Giuseppe Grosso

6.202.700 di spagnoli (il 27,16% della popolazione attiva) sono senza lavoro. I componenti di due milioni di famiglie sono disoccupati. Il tasso della disoccupazione giovanile è schizzato al 57,22%. Anche i maggiori sindacati scendono sul sentiero di guerra contro le politiche di austerità del governo 

Il governo del Pp, che aveva vinto le ultime elezioni al grido di «abbatteremo la disoccupazione», si trova ora a dover fare i conti con la quota di disoccupati più alta della storia del paese. A quasi due anni dall’insediamento del governo, i proclami di Rajoy si sono frantumati contro un muro di 6.202.700 senza lavoro. Un dato colossale: il 27,16% della popolazione attiva – secondo lo studio trimestrale dell’Instituto nacional de estadistica pubblicato ieri – non ha un lavoro; ben l’1,14% in più rispetto al quarto trimestre 2012.
E intanto ieri una concentrazione di indignados convocata dalla piattaforma ¡En pie! è partita dalla centrale Plaza de Neptuno con l’intenzione di portare la sua «protesta di resistenza attiva» alle porte del Parlamento. In serata la mobilitazione era ancora in corso, e tra i manifestanti si contavano già quattro arrestati e 15 fermi preventivi.
Con il primo maggio alle porte, i sindacati maggioritari (Ugt e Ccoo) annunciano battaglia e chiedono l’abbandono delle politiche di austerità, che il Pp ha applicato con uno zelo senza precedenti. Di certo – nonostante il governo faccia acrobazie circensi per convincere del contrario – il loro effetto sull’occupazione è nefasto. Da quando Rajoy è alla Moncloa, la percentuale dei senza lavoro è aumentato di 7 punti (dal 20 al 27% circa).
Ma dal Pp arrivano surreali dichiarazioni in senso contrario: «L’economia spagnola si riprenderà molto prima del previsto», ha dichiarato il ministro dell’Economia De Guindos, che – nonostante i 1.172.800 posti di lavoro bruciati sotto il governo dei popolari – continua a ripetere lo slogan con impassibilità. Venuto meno il secondo dei due termini del binomio sombrilla-ladrillo (ombrellone-mattone) che ha retto per troppo tempo l’economia spagnola, il paese si trova a dover affrontare il problema (inimmaginabile fino a prima del 2007, cioè dello scoppio della bolla immobiliare) dell’esclusione sociale e del dilagante aumento della povertà.
Quasi due milioni di famiglie spagnole hanno tutti i componenti disoccupati: 1.906.100 nuclei familiari, per l’esattezza; cioè 72.400 in più rispetto ai dati dell’ultimo trimestre dell’anno scorso. Molte di queste famiglie vivono (anzi malviven, come si dice molto efficacemente in spagnolo) con l’assegno di disoccupazione o con la pensione di qualche parente anziano. Per ora. Perché le prossime sforbiciate del governo potrebbero abbattersi proprio sul sussidio per i disoccupati (che già ha subito pesanti ritocchi) e sulle pensioni di anzianità, con grande soddisfazione della Commissione Ue. Bruxelles, con il comissario Olli Rehn, ha ricordato che «in Spagna esistono ancora grossi squilibri macroeconomici» che devono essere ristabiliti «con il consolidamento fiscale, necessario per contenere l’aumento del debito».

mercoledì 24 aprile 2013

“Il reddito sociale garantito come reddito primario e istituzione del comune”*

di Laurent Baronian/Carlo Vercellone

il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro

(…) Dall’analisi delle asimmetrie che strutturano il capitalismo come economia monetaria della produzione, ci è possibile delineare la posta in gioco principale di ciò che dovrebbe essere una moneta del comune: una moneta endogena alla riproduzione della forza lavoro perché attenuerebbe il vincolo monetario al rapporto salariale, assicurando allo stesso tempo la validazione sociale delle ricchezze prodotte da forme di produzione e di soddisfacimento dei bisogni alternativi ai rapporti mercantili.
Notiamo che, prima della svolta monetarista e dell’instaurazione delle autonomie delle banche centrali, la regolazione amministrata keynesiana dell’offerta di moneta aveva permesso, sotto forma di un compromesso istituzionalizzato, lo sbocciare di alcune di queste dimensioni. In particolare, il legame tra Banca Centrale e Tesoro pubblico aveva autorizzato una monetizzazione dei conflitti sociali, favorito il finanziamento del salario socializzato e dei servizi collettivi del Welfare (Chesnais, 2011, p.31).
Si tratta senza dubbio di una delle ragioni che spiega perché la resistenza allo smantellamento del pubblico sia tanto il terreno di nostalgie stataliste quanto uno dei terreni fondamentali di elaborazione della problematica del comune (Negri, 2012).
In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di commonfare.
In effetti, analogamente alla tematica del comune, la riflessione attorno alla proposta di un reddito sociale garantito (RSG) attraversa sempre più il dibattito sulle alternative alla crisi del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Tuttavia, la maggior parte delle formulazioni del RSG restano ancorate ad una concezione che ne fa un reddito secondario relativo alla redistribuzione ed alla gestione statuale classica dello Stato-provvidenza.
Nel nostro approccio, il RSG deve, al contrario, allo stesso tempo essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla redistribuzione. Queste due dimensioni, reddito primario e istituzione del comune, sono peraltro strettamente intrecciate tanto sul piano dell’organizzazione della produzione, quanto su quello dello statuto della moneta e del modo di distribuzione.
Un reddito primario dunque, perché la proposta del RSG riposa su di un riesame ed un’estensione del concetto di lavoro produttivo che si tratta di prendere in considerazione alla luce di due dimensioni.
La prima concepisce il lavoro produttivo, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce del valore e del plusvalore. Si tratta qui della constatazione secondo cui assistiamo, oggi, ad un’estensione importante dei tempi di lavoro, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, che sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione del valore captato dalle imprese. A questo proposito, il RSG corrisponderebbe, in parte, alla remunerazione sociale di questa dimensione sempre più collettiva di un’attività creatrice di valore, che si estende sull’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un’enorme massa di lavoro non riconosciuta e non retribuita. È, peraltro, importante notare come questo aumento del lavoro non pagato si apparenti, in forme inedite, con un aumento del plusvalore assoluto che risulta dalla combinazione di due tendenze maggiori. Da una parte, proviene dalla maniera stessa in cui la pressione congiunta della precarietà e delle nuove forme di management della soggettività enfatizza, a vantaggio delle imprese, un tratto intrinseco del lavoro cognitivo: quello di essere un’attività di produzione, di riflessione e di scambio di saperi che si svolge tanto fuori quanto durante l’orario contrattuale di lavoro. D’altra parte, proviene anche dal ruolo crescente del lavoro del consumatore e specialmente dall’appropriazione privata del lavoro gratuito effettuato da una moltitudine d’individui sulle reti del Web. Il capitale, attraverso soprattutto un piccolo numero di grandi imprese americane, è in realtà arrivato a controllare una gran parte dell’infrastruttura materiale ed immateriale di internet (Baronian, 2011), espropriando questo spazio del comune e trasformando in merci le creazioni e le identità numeriche degli utilizzatori.
Contro la tradizione della teoria economica, per contro, la seconda dimensione rinvia al lavoro produttivo concepito come lavoro produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della «burocrazia professionale» e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppa a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversa e contribuisce alla loro riproduzione.

domenica 21 aprile 2013

La Sinistra di re Giorgio

di Giso Amendola

il ceto politico sale in pellegrinaggio al Colle, implorando l’inquilino uscente a compiere l’atto  sacrificale di immolare la sua autorità sull’altare della patria, accettando la rielezione per un nuovo settennato. Non hanno posto alcuna condizione, così come recita il comunicato quirinalizio. Ma è lecito pensare che l’accettazione della rielezione sia stata subordinata alla strategia politica sollecitata da Napolitano all’indomani dell’esito elettorale e certificata dall’agenda redatta dai saggi presidenziali irritualmente nominati? Ovvero le “larghe intese” richiamate come senso di responsabilità del parlamento, in continuità col governo tecnico da lui voluto e, soprattutto, per arginare la furia antisistema M5S? Non v’è dubbio che questa rielezione alla massima carica dello Stato è molto più di un evento straordinario, essendo un atto essenzialmente politico, oseremmo dire ai limiti dello spirito della costituzione vigente. Infatti la prassi costituzionale aveva sancito il principio di “non-rieleggibilità” del Capo dello Stato, conformemente alla funzione “notarile” a cui è chiamato,  proprio al fine di non dare alcuna valenza politica al mandato presidenziale. Certo non è il golpe, ma la logica emergenziale ancora una volta irrompe sulla scena e de facto sospende la dialettica politica dello spazio di rappresentanza istituzionale ed affida ad altri organi costituzionali, diversamente previsti dalla Carta, un ruolo di supplenza(ndr)

Giorgio Napolitano, nei giorni convulsi delle fallimentari consultazioni di governo, li aveva già richiamati alle proprie responsabilità; e aveva evocato un anno chiave, il 1976. Così è stato subito chiaro in cosa consistesse la vera responsabilità da assumersi: attenersi rigorosamente alla strada maestra delle larghe intese. Questo Paese va tenuto unito rigettando ogni cosa che sappia di conflitto, e mantenuto sui binari della concertazione eterna tra le forze politiche principali: evocando, a norma fondamentale del governo, la perpetua emergenza.
Non si può dire che non abbiano ascoltato il Presidente. Fa nulla che, nel solito passaggio da tragedia a farsa, le grandi forze popolari delle grandi intese del 1976 si siano ridotte, nel frattempo, a correnti litigiose del PD, e che le intese ora si facciano con la destra berlusconiana: lo schema non si tocca. Ciò che non s’era riuscito (ancora) a fare per la formazione del governo, si farà nell’elezione del Presidente della Repubblica. Il richiamo di Napolitano al 1976 suona come la riproposizione obbligata di una cultura politica perenne e inaggirabile: larghe intese, unità nazionale, emergenza. Così: “deve essere un cattolico”.
E allora recuperiamo l’uomo della CISL, insieme cattolico ed eroe della concertazione: Marini. Poi, quando pure ci si è spinti a rompere l’intesa e ad arrivare a un nome votato dal solo centrosinistra, allora è stato Prodi: mai Rodotà. Ma perché l’interdetto, quando in fondo, e lo ha pure rivendicato più volte, Rodotà proviene, nel bene e anche nel male, da quella stessa storia?
Più che per il marchio M5S, Rodotà è subito sembrato un extraterrestre, anche e proprio rispetto alla sua stessa storia, per motivi sostanziali, e radicati nelle sue battaglie recenti.
I beni comuni: in un partito diviso tra priorità del mercato e nostalgie statualiste, il solo evocare uno spazio non tradizionalmente pubblico e non proprietario è concepito come incomprensibile. Il reddito di base? Bersani e Fassina hanno scelto come bandiera, nella discussione della riforma Fornero, l’innalzamento della pressione fiscale sul lavoro precario, sognando evidentemente di spingere così al tempo indeterminato per tutti. Con gli esiti disastrosi già registrati.
E questi velleitari tardosocialisti, che risolvono la precarietà ammazzando il precariato, possono mai capire la rilevanza politica del reddito di base? Per chi ha il calendario che segna 1976, tutto questo è eresia. E allora, contro l’eresia, è evidente che bisogna ritornare ai Padri che più Padri non si può, e reincoronare re Giorgio. E certificare così l’ibernarsi definitivo di un’intera cultura politica. Anche in questo, davvero, hanno seguito il 1976: nella scelta di rompere definitivamente ogni ponte con intere generazioni, con i linguaggi e i desideri del presente, con la vita.
Fortunatamente, a sera, abbiamo finalmente lasciato questo eterno ’76. Le piazze si sono riempite: e non era l’effetto della chiamata di Grillo, il quale, anzi, ha innestato la retromarcia non appena ha capito che Piazza Montecitorio non sarebbe stata un “suo” teatro. Piuttosto, abbiamo visto, per una sera, anche a Roma qualcosa di simile alle convocazioni spontanee attorno ai palazzi arroccati della rappresentanza, le modalità di dissenso tipiche dell’Europa dell’indignazione di questi anni.
Ma anche qui, poco ci hanno capito, i reduci del ’76: quella gente è populista, è fascista, dicono. Rodotà stesso invita, come per la sua cultura è quasi inevitabile, a manifestare dissenso solo “nelle sedi istituzionali”.
Eppure, quello che si è visto non è che quello che nell’Europa della crisi accade spesso. Ma una sinistra agli occhi della quale anche solo un buon costituzionalista liberaldemocratico, riformista e legalitario, appare un sovversivo pericoloso, giusto perché aperto ai beni comuni, ai nuovi diritti e a un nuovo welfare, evidentemente ancor meno ne può sapere di indignados e di acampadas. Starà ancora rincorrendo gli “untorelli” e maledicendo il ’77.

alfapiu



sabato 20 aprile 2013

“La vera grande opera necessaria. L’introduzione di un reddito di base incondizionato”*

di Andrea Fumagalli

L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che sia l’eccessiva rigidità del lavoro a essere la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà la prima responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce

(…) lo Stato italiano spende circa 18 miliardi per garantire sicurezza di reddito a circa un terzo di coloro che ne avrebbero bisogno. Giusto per fare un minimo di comparazione internazionale, con riferimento alla Francia, una relazione del dicembre 2011 sui risultati e sui costi della Revenu de solidarité active (Rsa) consente di esaminare i costi sostenuti da un Paese considerato simile al nostro per popolazione, tasso di disoccupazione, struttura sociale e tradizioni giuridiche. Il Rsa è stato introdotto dal 2009 per sostituire il Revenu minimum d’insertion (Rmi), una forma di reddito minimo che esisteva dal 1988, il sussidio per i genitori soli e i diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività lavorativa. Il Rsa spetta a tutti i residenti in Francia da almeno cinque anni, il cui reddito sia inferiore a una certa soglia (per un single è il salario minimo mensile, per una coppia senza figli circa 1,4 volte tanto) e la cui età sia compresa tra i 25 anni e l’età pensionabile. Il sussidio è pari a 483 euro per un single senza altri redditi, a 724 per una coppia, a 868 euro per una coppia con un figlio ecc. Nel 2010 i beneficiari del Rsa sono stati 1,8 milioni (intesi come nuclei familiari, quindi circa 4 milioni di individui), di cui il 64% risultava del tutto privo di reddito, mentre il restante 36% ha richiesto il sussidio “integrativo”. Ebbene, la spesa complessiva per il finanziamento del Rsa nel 2010 è stata di 9,8 miliardi di euro, comprensiva delle erogazioni dei sussidi (84,4%), delle spese per i percorsi di attivazione e di inserimento (14,1%) e delle spese amministrative per la messa in opera della misura (1,5%); è una cifra molto simile a quella che l’erario italiano spende attualmente per i suoi ammortizzatori sociali. Ciò significa che abbiamo speso per un sistema iniquo di welfare che tutela poco più di lavoratore in sofferenza la stessa cifra che Oltralpe ha garantito a tutti i cittadini per un programma di protezione universalistico e più equo, seppur condizionato all’inserimento lavorativo.

L’inutilità delle politiche di austerity - Il costo di un sistema universale di protezionale sociale in grado di garantire a tutti un reddito pari alla soglia di povertà relativa in Italia (ovvero 600 euro mensili, per 7200 euro l’anno) da garantire interamente a chi è ne è totalmente sprovvisto o integrando chi ha redditi inferiori, è di circa, nel 2011, pari a 23 miliardi di euro (http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q1-La-proposta-di-welfare-metropolitano.pdf). Considerando che circa 15 miliardi dei 18 miliardi spesi direttamente dallo Stato o tramite Inps garantiscono sussidi sino a 600 euro mensili, ne consegue che la cifra netta da aggiungere è di circa 8 miliardi o poco meno: una cifra del tutto abbordabile anche in tempo di fiscal compact e patti di stabilità.

Una nuova politica fiscale - È necessario procedere al riguardo ad una riforma del sistema fiscale, per renderlo adeguato alle nuove forme di produzione. I criteri sono due:
-        Progressività forte delle aliquote
-        Tassazione omogenea di tutti i redditi (fattori produttivi e nuove fonti di valorizzazione capitalistica), a prescindere dal cespite di provenienza
Si rende necessario così un sistema fiscale, compatibile con lo spazio pubblico e sociale europeo, capace di cogliere i nuovi cespiti di ricchezza e tassarli in modo progressivo. Ed è proprio coniugando principi equi di tassazione progressiva e relativa a tutte le forme di ricchezza a livello nazionale ed europea con interventi “sapienti” sul piano della specializzazione territoriale che si possono reperire le risorse necessarie per far sì che i frutti della cooperazione sociale e del comune possano essere socialmente ridistribuiti.
Al momento il nostro referente è contemporaneamente il livello nazionale e il livello regionale.
Riguardo la fiscalità generale (livello nazionale), si può ipotizzare:
-        introduzione di nuovo scaglione Irpef (con aliquota al 45%) per i redditi superiore ai 70.000 euro l’anno e del 49% sui redditi oltre i 200.000 euro, aumentando la progressività delle imposte; si potrebbe recuperare così 1,2 miliardi di euro, per il 77%  a carico dei contribuenti con più di 200.000 euro l’anno lordi (fonte: Banca d’Italia  e Sbilanciamoci, 2011 ).
-        introduzione di una tassa patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni superiori ai 500.000 euro, con una stima di incassi pari a 10,5 miliardi di Euro (fonte: Sbilanciamoci, 2011)
-        introduzione di una tassa indiretta (Iva) sull’intermediazione di lavoro a carico della società interinale (5%) e dell’impresa committente (5%), calcolata sul valore lordo della prestazione lavorativa in oggetto (introito stimato pari a circa 700 milioni di lire). Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Centro Studi Ebitemp, il volume di affari per il 2011 è pari a circa 5,1 miliardi di euro, per un introito pari a circa 260 milioni di euro);
-        riforma della tassazione delle rendite. Oggi gli interessi sui depositi vengono tassati al 27%, mentre gli interessi sulle obbligazioni, le plusvalenze e i rendimenti delle gestioni collettive e individuali subiscono un prelievo fiscale del solo 12,5%. E’ possibile portare la tassazione di tutte le rendite finanziarie agli stessi livelli dell’Europa (per evitare fughe di capitali), cioè al livello del 23%. Secondo Sbilanciamoci, tale misura porterebbe ad un incremento delle entrate di circa 2 miliardi di Euro.
-         interventi contro l‘evasione fiscale. Non è sufficiente introdurre il limite di 1000 euro per i pagamenti in contanti, è necessario intervenire con misure appropriate, quali:  a. il ripristino dell’elenco clienti-fornitori per le imprese; b. l’aumento delle detrazioni tramite lo sviluppo dei controlli incrociati (oggi limitati alle sole spese farmaceutiche e alla ristrutturazione di immobili); c. la reintroduzione del reato di falso in bilancio;  d. il ripristino dell’Alto Commissario per la lotta alla Corruzione (abolito due anni fa). Sicuramente si verificherà un aumento delle entrate fiscali, ma difficile da quantificare.

I fronti opposti del secolo breve

di Gigi Roggero

«La lotta di classe. Una storia politica e filosofica», un saggio del filosofo Domenico Losurdo per Laterza. Un ambizioso e documentato tentativo di ricostruire genesi e sviluppo di un concetto che corre il rischio di perdere di vista la storicità del capitalismo e le trasformazioni imposte proprio dai movimenti «antisistema» tanto nel Nord che nel Sud del pianeta
«Il sociologo comincia a leggere il Capitale dalla fine del III libro e interrompe la lettura quando si interrompe il capitolo sulle classi. Poi, da Renner a Dahrendorf, ogni tanto qualcuno si diverte a completare ciò che è rimasto incompiuto: ne viene fuori una diffamazione di Marx, che andrebbe come minimo perseguita con la violenza fisica». Non è dato sapere se a Domenico Losurdo questa citazione tratta da Operai e capitale di Mario Tronti faccia piacere, ma sono parole che rendono ragione alla scelta di iniziare il suo La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, pp. 387, euro 24), laddove l'autore individua nei tanti Dahrendorf esistenti il bersaglio polemico. I ricorrenti profeti della fine della lotta di classe si trovano infatti puntualmente di fronte al suo insorgere, oltre che a quelle condizioni di impoverimento e polarizzazione che Losurdo mette subito in evidenza. Rispondendo alla domanda retorica dell'introduzione del volume, si potrebbe dire che la lotta di classe non deve ritornare per il semplice fatto che non è mai andata via.
Ha poi ragione l'autore quando afferma che essa «non si presenta quasi mai allo stato puro». Il punto è però individuare la sua specificità. Losurdo la pluralizza: lo scontro tra operai e capitale è solo una delle forme che la lotta di classe assume, insieme ai movimenti di liberazione nazionale, anti-coloniali, delle donne o dei neri. Anzi, proprio «in virtù della sua ambizione di abbracciare la totalità del processo storico, la teoria della lotta di classe si configura come una teoria generale del conflitto sociale». E qui iniziano i problemi. L'autore rischia infatti di sottendere un'interpretazione economicista dei rapporti di produzione. O di interpretare la lotta dentro e contro i rapporti di produzione come questione meramente economica. Le lotte per il salario o la riduzione dell'orario di lavoro vengono quindi rubricate nella tipologia dei conflitto per la redistribuzione, inferiori alle questioni che toccano le corde della coscienza, come l'indipendenza nazionale o l'abolizione della schiavitù. È noto che con le citazioni si possono dimostrare tante cose e il loro contrario, ma visto che nel testo sono sovrabbondanti vale la pena ricordare il famoso passaggio de La guerra civile in Francia in cui Marx afferma che «il proletariato non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia e cadente società borghese». Nella sua ansia di controbattere al riduzionismo economicista operato dal pensiero liberale, Losurdo finisce per incappare nello stesso errore: come se la lotta per il salario non fosse lotta per la libertà.

Il laboratorio coloniale
Ha ragione Losurdo quando individua nelle colonie il laboratorio di quello che sarebbe stato il nazismo nel Novecento: qui risuonano le famose considerazioni del poeta martinicano Aimé Cèsaire sull'Hitler nascosto che porta dentro di sé il borghese distinto e umanista. L'autore ha inoltre il merito di evidenziare quanto le questioni coloniale e razziale fossero tutt'altro che marginali nella riflessione politica di Marx sulla vocazione mondiale dello sviluppo capitalistico e sulla divisione internazionale del lavoro. E scuserà l'autore chi scrive se non riesce a considerare il Moro di Treviri un sol uomo e sol corpo con Engels, certo suo impagabile compagno, ma anche portatore di molte responsabilità nel costruire dogmi ed equivoci di quel marxismo da cui Marx aveva giustamente preso le distanze.
Invece, utilizzando il Marx della questione irlandese e in particolare Engels, Losurdo sostiene che un internazionalismo che ignori la questione nazionale si rovescia nel suo contrario, cioè nello sciovinismo di una nazione che si pretende universale. Questione complessa e storicamente densa, com'è noto. Basta ricordare, a mo' di esempio, il dibattito tra Rosa Luxemburg e Lenin, quando il secondo critica la prima per la semplicistica condanna dei movimenti nazionali. Lo fa, tuttavia, perché in quella specifica contingenza storica i movimenti nazionali sono un dato di realtà ambivalente, uno spazio di politicizzazione dentro cui il proletariato si può formare per dare un «colore comunista» alle lotte anti-coloniali a partire dall'irriducibile eccedenza del movimento rivoluzionario rispetto alle semplici rivendicazioni democratiche.
Tralasciamo le molte pagine in cui Marx prima e Lenin dopo affermano senza possibilità di equivoco come le «rivoluzioni nazionali» siano comunque sempre subordinate alle rivoluzioni proletarie. Il punto interessante da evidenziare è che tra quel dibattito e oggi sono successe tante cose: differenti cicli internazionali di lotta di classe, due guerre mondiali, la globalizzazione e la riconfigurazione del ruolo dello Stato. A mutare sono state anche le discussioni e i punti di vista dentro quei movimenti che dovrebbero essere i referenti ideali del discorso di Losurdo: l'esaurimento del carattere «progressivo» (per usare una brutta parola) della questione nazionale è stato da tempo messo in evidenza dai militanti anti-coloniali di fronte al fallimento degli stati postcoloniali: questa è d'altronde la discussione contemporanea nel contraddittorio laboratorio latinoamericano e perfino in un'organizzazione come il Pkk.

Maschere fuorvianti

L'impressione è che da queste molteplici forme di lotte di classe citate dall'autore a sparire siano proprio i soggetti concreti per essere sostituiti e rappresentati dalle astrazioni del popolo e della nazione. O meglio, in un quadro in cui la lotta di classe è in ultima analisi combattuta dagli Stati o per lo Stato, i soggetti diventano gli statisti: a Lenin viene appiccicata la maschera del Napoleone III del proletariato, l'Ottobre si trasfigura nel 18 brumaio e - con buona pace delle aspre battaglie dentro la Prima Internazionale - Marx rischia di essere confuso con Mazzini.
Marx, è noto, non perdeva occasione per sottolineare il carattere rivoluzionario del rapporto sociale capitalistico. Intorno al '17 Lenin sferzava i vecchi bolscevichi rimasti attaccati a principi e interpretazioni che, seppur corrette qualche anno prima, a quel punto si dimostravano superate o addirittura nocive. Si ha invece l'impressione, leggendo questo libro che non nasconde le ambizioni di diventare una contestazione esaustiva del pensiero unico dominante, che con Marx e Lenin la storia finisca: la storia della teoria della lotta di classe, bloccata in una pluralità di opposizioni oggettivate e immobili. Non sono certo il Moro di Treviri e il dirigente bolscevico ad essere responsabili, né che sarebbero molto d'accordo di questo estremo «oggettivismo». Non solo: con il trascorrere delle pagine si ha sempre più chiara la certezza che l'autore voglia dimostrare che l'oggetto del suo studio rappresenta solo una delle contraddizioni del capitalismo, tutte considerate nella loro fissità astorica. Anzi, sarebbe stata l'idealistica insistenza sulla «droga» della lotta di classe a condurre alla rovina il socialismo reale. Per la soddisfazione di Losurdo qualcuno se ne è accorto per tempo e, come Deng Xiao Ping, ha voltato pagina, correggendo le cadute «populiste» di Mao. E pazienza per l'«incidente» di piazza Tienanmen - causato secondo l'autore dagli avamposti occidentali del neoliberismo, e addio alla premessa sul carattere spurio dell'antagonismo, sacrificata alla logica dei processi di Mosca. Il socialismo si rivela così per quello che è: lineare continuità ed efficiente gestione del capitalismo, senza salti e cesure. Per questo la lotta di classe ne ha preso definitivamente congedo.

Esercitare diritti e decostruire saperi nell’era dell’austerità.Intervista a Roberto Beneduce

a cura di Alioscia Castronovo1 e Eleonora Pittalis2

docente di antropologia culturale e antropologia psicologica all’università di Torino, etnopsichiatra di formazione, Roberto Beneduce è fondatore dell’associazione e del centro di ricerca Frantz Fanon e nel 1996 del Centro Clinico Fanon*, che si occupa di salute mentale nell’ambito della popolazione migrante, qualificandosi come servizio di Psicoterapia, Counseling e Supporto Psico-Sociale per Immigrati Rifugiati e Vittime di Tortura

d. Qual è l'esperienza e quali sono i campi di intervento e le sperimentazioni del centro Frantz Fanon? Puoi approfondire inoltre le questioni relative alla chiusura del centro e alla sua prossima riapertura

r. Il centro Frantz Fanon nasce nel 1996 nell'ambito di un'azienda sanitaria locale, inizialmente all’interno del settore di educazione sanitaria in seguito legato invece al dipartimento di salute mentale. È un centro che mette in pratica ricerche, riflessioni ed esperienze che provengono da un gruppo pluridisciplinare e pluri professionale, all'epoca della sua nascita infatti c'erano sociologi, antropologi, oltre a medici, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e anche quelli che diventeranno poi i controversi protagonisti di un nuovo modello di cura del cittadino straniero cioè i mediatori culturali. Il centro nasce dunque nel '96, quasi 17 anni fa, sulla base di alcune intuizioni ma anche sulla base di alcuni dati: infatti i cosiddetti immigrati irregolari, pur avendone diritto, accedono di rado ai centri di salute mentale. Qual è il motivo? Non ci sono difficoltà economiche, non ci sono difficoltà istituzionali, sono molto facilmente raggiungibili e tuttavia a questi centri gli utenti stranieri sembrano non arrivare se non di rado. A partire da questa considerazione il centro Frantz Fanon istituisce delle pratiche di ascolto, intervento clinico, di relazione, alimentate da una serie di ricerche e di dati che provengono dall'antropologia, dall'etnopsichiatria clinica ma che al tempo stesso non schiacciate sul solo profilo esotico che la dimensione culturale ha spesso finito con l'assumere nell'ambito dell'entnopsichiatria anche italiana. La scelta del nome per il centro "Frantz Fanon" è una scelta che è eloquente a questo riguardo perché Fanon consente di pensare la sofferenza e la sofferenza psichica nella sua articolazione con la storia e con i contesti, non immagina una cultura mummificata o mineralizzata. Frantz Fanon infatti, molto prima e non meno acutamente di quanto avrebbero fatto altri studiosi, avvia una decolonizzazione dei saperi, una decostruzione dei saperi, in primo luogo della psichiatria coloniale, ma anche degli altri saperi del suo tempo, la sociologia, la filosofia, la psicoanalisi, la stessa antropologia. Tutte le scienze con le quali Fanon si confrontava verranno smontate nel loro dispositivi di potere, nella complicità con le ideologie dominanti. Questo significa per noi occuparsi di utenti stranieri avendo chiaro che la loro sofferenza e il nostro intervento clinico devono essere situati all'interno di particolari rapporti di forza oltre che di senso.
Questa è la prospettiva originaria del centro Fanon che in qualche modo ci protegge da talune "derive culturaliste" ma al tempo stesso non smette di problematizzare e di pensare quello che è la cultura, perché le nuove mode, anche accademiche, finiscono spesso, nel giro di qualche anno, per offrire fluttuazioni di senso contrario e dunque quando la nozione di cultura è diventata difficile e ingombrante anche molti antropologi hanno finito per smettere di pensarla, di interpellarla come una dimensione problematica, come è problematica ogni appartenenza. Questo significa che del culturale bisogna farsene qualcosa di molto più complesso, di molto più politicamente connotato e interrogato di quanto spesso non si sia fatto, non lo si può abbandonare a coloro che ne fanno cattivo uso, come a volte accade di vedere nel linguaggio banalizzato, stereotipato dei media, dei servizi socio-sanitari, dove il culturale è evocato come metafora dell'incomprensibile o spesso purtroppo metafora di una delega a presunti esperti. L'esperienza con gli utenti stranieri e con la sofferenza psichica, con la sofferenza nella sua articolazione con la cultura, nella sua articolazione con gli aspetti positivi o negativi dell'ambiente ospedaliero, ci inchioda alla responsabilità teorica di non smettere di pensare le appartenenze culturali come sorgente di sofferenza, di ambivalenza, in qualche caso come sorgente di senso e in ogni caso percorso obbligato per capire qualcosa della loro condizione e qualcosa del modo di curare queste persone. Ciò detto il percorso del centro Fanon è stato complesso e si caratterizza per non aver mai immaginato un modello rigido da riprodurre ma come un territorio di domande di esplorazione che non si immaginano esauribili. In questo territorio chiaramente abbiamo visto anche la violenza delle istituzioni, l'indifferenza delle istituzioni, per le quali in molti casi la necessità di un intervento rigoroso a favore della persona, a favore di un paziente, può essere negoziata o può essere ridotta a una pura questione economica.

d. Ad un certo punto, però, è arrivata una lettera della ASL …

r. Si, infatti abbiamo conosciuto negli ultimi mesi una fase difficile perché per motivi molto banali, burocratici, l'Asl ha deciso di non rinnovare l'affitto dei locali dove era ospitato il centro Fanon e una parte del dipartimento di salute mentale. Mentre per quest'ultimo ha trovato, con relativa facilità, una nuova collocazione, ha colto l’occasione l'occasione per non dare risposte al lavoro e alle esigenze di continuità del centro Fanon. Alle nostre richieste ripetute di dirci come operare con 250 utenti - questo il numero degli utenti presi in carico nell'ultimo anno – abbiamo trovato solo silenzio da parte delle istituzioni, dell'azienda sanitaria, il che dal punto di vista dell'etica e della clinica è non solo inspiegabile ma è inaccettabile perché il principio e la continuità terapeutica impone che non si rimanga nel vago, che si diano chiari indirizzi, orientamenti e alternative agli utenti, invece tutto ciò non è accaduto e si è arrivati addirittura a un'interpellanza in sede di consiglio comunale per sapere qualcosa. Questo solo per dirvi di come può diventare indifferente il problema della salute.
La questione degli stranieri, della cura degli stranieri e della salute mentale degli stranieri è quindi anche un buon modello per pensare quanto spesso in questa fase sociale la salute sia un valore molto svuotato, un valore continuamente citato ma spesso non tradotto in realtà, e dunque in una situazione economica di difficoltà, dove non ci sono soldi per gli italiani, non sono rare le situazioni nelle quali si sente dire: "come possiamo pensare di occuparci degli stranieri?" Non è nemmeno raro vedere che le aziende sanitarie locali per servizi alla persona utilizzano gli stessi criteri di economia o di tagli alle spese che possono essere invocati negli acquisti di mobili o di beni di consumo o il fatto che spesso molte pratiche legate ai servizi che si rivolgono agli utenti stranieri cadono sotto questo modello generalizzato di valutazione dei progetti al cui interno il 70% del punteggio attribuito a un progetto concerne unicamente l'offerta economica più bassa.
Questo può sembrare un riferimento banale ma da qui si può partire per una riflessione antropologica più alta, ci da la misura di come ormai si valuta un progetto rivolto a persone sofferenze, utenti, unicamente con l'idea di offrire un servizio che sia economico, che costi poco.
Noi parliamo spesso della salute come di un diritto, io credo che questo sia un diritto, tra gli altri, tra i più esposti all’attuale situazione neoliberista, questa logica è ancora più perversa quando si intreccia a ideologie politiche che spesso considerano alcuni bisogni e alcuni soggetti come privi di rilevanza. Non credo di produrre un'interpretazione politica molto di parte se ipotizzo che il fatto che l'azienda sanitaria dove operava il centro Fanon fino a qualche tempo fa fosse gestita da un direttore sanitario, un direttore generale, un direttore amministrativo che sono stati collocati da una giunta regionale che ha come presidente un esponente di un partito come la Lega Nord, abbia qualche effetto nei casi in cui si tratta dei diritti degli stranieri, del diritto alla salute degli stranieri.

d. Quali sono le prospettive del Centro Fanon? E quale ragionamento si sta portando avanti per garantire la continuità dell’esperienza dopo la chiusura dello spazio della ASL?

r. Il centro Fanon non ha mai smesso di operare perché ovviamente non abbiamo abbandonato gli utenti, abbiamo continuato a seguirli in altri luoghi di fortuna, ad esempio presso alcuni spazi del gruppo Abele, presso gli spazi dell'Unione Culturale di Torino e cosi via, quindi abbiamo potuto garantire agli utenti, per quanto possibile, una continuità. Prossimamente sarà inaugurato il centro Fanon in una sua nuova sede a Torino di cui vi posso persino dare l'indirizzo: via S. Francesco d'Assisi, 3. Al tempo stesso non abbiamo cessato di operare con altri interlocutori, che si tratti della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione umanitaria, dell'università o di altre Asl del territorio torinese, e vogliamo che questa esperienza rimanga comunque all'interno del servizio pubblico. Non immaginiamo di operare come una qualsivoglia associazione onlus del volontariato laico o religioso, intendiamo imporre delle oggettive competenze, esperienze, riflessioni che si sono accumulate nel corso di 17 anni, che sono riconosciute unanimemente anche al di fuori dei confini nazionali e all'interno del servizio sanitario nazionale e del servizio pubblico, perché credo che se ne avvantaggino e utenti e operatori. Noi abbiamo con gli operatori una relazione molto feconda, di scambio, di supervisione, di cogestione di casi difficili, un patrimonio che sarebbe quantomeno sciocco decidere di cancellare.

mercoledì 17 aprile 2013

Newsletter n.11

RASSEGNA QUINDICINALE


di Augusto Illuminati
Il Terzo Stato si riunì nella sala della pallacorda. I bolscevichi sgombrarono l’Assemblea costituente. Dissero che il Terzo Stato era tutto e che la guardia era stanca, seguirono determinati fatti. Qualcosa frena invece il M5S. Non si capisce cosa… si girano i pollici, occupano simbolicamente il parlamento e discettano sulle commissioni ordinarie senza governo e sul costo della vita romana per i deputati. Non sfruttano minimamente la loro forza parlamentare (né per compromessi governativi né per ribellioni di sistema) e neppure la supportano con iniziative fuori dai palazzi


di Collettivo Uninomade
il settore dell’informazione e più in generale della comunicazione è diventato centrale nel bio-capitalismo cognitivo. Giornali e tv sono strumenti ausiliari imprescindibili del sistema economico-politico, enti accessori della governamentalità, il cui incarico è la riproposizione di un processo perpetuo di azzeramento del conflitto. L’anomalia grillina, a partire dai social network e dalla streaming tv, è stata capace di costruire un’arma potente, “ma il limite del progetto sta nel fatto che rischia di rappresentare, a sua volta, un modello, un format, speculare a quel potere che si vuol mettere in discussione”


di Monica Di Sisto
Anche nel mezzo della crisi, le politiche di liberalizzazione non si fermano. Sotto tiro al Wto sono ora i servizi pubblici – insieme a quelli privati – con un progetto di accordo che va fermato subito. Che cosa resta della democrazia quando il potere decisionale pubblico su settori chiave quali i servizi finanziari (bancari, contabilità, assicurazioni, ecc.), il commercio al dettaglio, i trasporti, le telecomunicazioni, il turismo è preso in mano dai negoziatori del Wto?


di Elisabetta Teghil
le misure di privatizzazione dei servizi, inclusi l’insegnamento e la salute, fanno parte dell’accordo GATS e quelle nell’ambito del TRIPS estendono la proprietà intellettuale fino a brevetti sul vivente. Tutti accordi fatti nell’ambito del WTO. Tutto si impernia sul trasferimento delle risorse dal pubblico al privato. La guerra è a quelle/i che avevano inteso l’istruzione come strumento di riscatto sociale. L’attacco è ai luoghi in cui la conoscenza tende a riprodursi socialmente, per destinare, invece, le risorse solo là dove diventa trasmissione di potere


di Bruno Settis e Carlo Paris
ALBA (Alianza bolivariana para los pueblos de Nuestra America) nasce come accordo politico, sociale ed economico tra Venezuela e Cuba, al quale hanno aderito Ecuador, Bolivia, Nicaragua. Come dice Vasopollo “non si sta costruendo un socialismo sulla base di un unico modello da esportare, come è avvenuto in Europa in passato. Si tratta di socialismi che hanno percorsi, culture, modelli differenti (…) ma sono tutti uniti intorno alla costruzione di una società che, in questa fase di transizione, può essere definita un socialismo non di mercato ma conmercato, che mette in discussione in maniera profonda la legge del profitto”


di Antiper
un tempo la tecnica era al servizio dell’uomo, oggi il rapporto è capovolto. Egli è asservito ad essa e non è più soggetto della storia, la tecnica l’avrebbe sostituito. Anche una certa filosofia di sinistra ne afferma la sua supremazia, perfino la lotta di classe sarebbe venuta meno e sottomessa di fronte alla supposta neutralità della tecnica. Ma le cose stanno proprio così? Oppure, invece, la tecnicalità riproduttiva assume la forma temporale specifica del dominio capitalista, attraverso cui si maschera di oggettività la legge del profitto?


di Giorgio Cremaschi
nella piccola Islanda le scelte della politica di fronte alla crisi sono state molto diverse da quelle di Spagna, Grecia e Portogallo. In quel paese si è deciso, democraticamente, di considerare insopprimibile la tutela sociale e sanitaria e di scaricarne i costi su banche e finanza
 

di Rossana Rossanda
L’attacco a Bersani perché non si presentasse alle Camere, il “piano B” con Berlusconi tornato protagonista, secondo il copione del Quirinale. Tra una sinistra subalterna e la storica mancanza, in Italia, di una destra almeno formalmente democratica, scivoliamo lungo una deriva mortale per la nostra fragile democrazia


di Antonio Negri
Si può procedere dall’affermazione che se si vuole essere liberi si deve essere uguali? Che cosa potrà essere “costituente” oggi se non costituirà un nuovo equilibrio fra libertà ed uguaglianza, calibrato sulle condizioni comuni della produzione sociale? Le forze politiche presenti in parlamento – invece- non vanno oltre quell’alto livello amministrativo. Adorano la vecchia Costituzione … a loro basta la trasparenza della vita istituzionale, lucidare la Costituzione a questo scopo




sabato 13 aprile 2013

If…

di Augusto Illuminati

Il Terzo Stato si riunì nella sala della pallacorda. I bolscevichi sgombrarono l’Assemblea costituente. Dissero che il Terzo Stato era tutto e che la guardia era stanca, seguirono determinati fatti. Qualcosa frena invece il M5S. Non si capisce cosa… si girano i pollici, occupano simbolicamente il parlamento e discettano sulle commissioni ordinarie senza governo e sul costo della vita romana per i deputati. Non sfruttano minimamente la loro forza parlamentare (né per compromessi governativi né per ribellioni di sistema) e neppure la supportano con iniziative fuori dai palazzi

Se qualche commentatore avesse notato gli impercettibili segni di stranezza che qua e là affioravano nella vita politica e sociale italiana, tipo infinite discussioni e poi DL con relativa conversione, decreti applicativi e circolari interpretative – per che cosa? per stabilire che lo Stato e le amministrazioni locali dovevano pagare nel giro di due anni prestazioni private regolarmente fatturate. Roba che se io non saldo una multa mi pignorano la casa e se prendo la merce e scappo il negoziante chiama la polizia o magari mi mena.
Intanto volge al termine il secondo mese di governo assente nell’incessante degrado dell’economia e della società, a dimostrazione che la catastrofe è che tutto continui come prima. Dalla finestra guardiamo il nostro futuro in terra greca.
Se qualche commentatore si fosse preso la briga di capire come mai il principale partito della sinistra italiana, il Pd, avesse fatto una sfrenata campagna elettorale a favore dell’alleanza con Monti e poi, a elezioni svolte con magri risultati per entrambi, avesse corteggiato con altrettanta frenesia e palese masochismo (i colloqui riservati sputtanati in streaming) il M5S, per ripiegare infine sulle larghe intese con Berlusconi, ma soprattutto perché in quest’ultima fase fosse nata una robusta corrente che invocava a nuovo segretario un ministro dell’uscente governo Monti, Fabrizio Barca, neppure iscritto al Pd – altro che primarie! Il quale Barca, benigno, declina l’offerta di segreteria e si dice disposto soltanto a iscriversi come membro del gruppo dirigente. Il bello è che probabilmente è meglio degli altri concorrenti e perfino Sel è entusiasta di lui. Difficile immaginare un Papa straniero ai tempi di Togliatti, devo proprio essere invecchiato.
Invece i grillini si girano i pollici, occupano simbolicamente il parlamento e discettano sulle commissioni ordinarie senza governo e sul costo della vita romana per i deputati. Non sfruttano minimamente la loro forza parlamentare (né per compromessi governativi né per ribellioni di sistema) e neppure la supportano con iniziative fuori dai palazzi. Il Terzo Stato si riunì (non simbolicamente) nella sala della pallacorda. I bolscevichi sgombrarono l’Assemblea costituente. Dissero che il Terzo Stato era tutto e che la guardia era stanca, seguirono determinati fatti. Qualcosa frena invece il M5S. Non si capisce cosa.

La fine del governo dei media, l’inizio di un mondo nuovo

di Collettivo Uninomade

il settore dell’informazione e più in generale della comunicazione è diventato centrale nel bio-capitalismo cognitivo. Giornali e tv sono strumenti ausiliari imprescindibili del sistema economico-politico, enti accessori della governamentalità, il cui incarico è la riproposizione di un processo perpetuo di azzeramento del conflitto. L’anomalia grillina, a partire dai social network e dalla streaming tv, è stata capace di costruire un’arma potente, “ma il limite del progetto sta nel fatto che rischia di rappresentare, a sua volta, un modello, un format, speculare a quel potere che si vuol mettere in discussione”

“Un giornale è un giornale è un giornale”. Parafrasando Gertrude Stein (“una rosa è una rosa è una rosa”) Luigi Pintor dedicò questo pensiero al mezzo che usava nel suo lavoro e al mestiere che faceva. E aggiunse: “A mezzogiorno con il giornale si possono avvolgere le patate”. A dire di come potesse essere eminentemente politico solo il ruolo di quel giornalista che ha il senso della transitorietà di ciò che fa e che ha ben presente la differenza tra informazione e propaganda. Cioè riconosce il senso vero e coerente dello strumento che maneggia.

Premessa 1: controllo
Affrontare il tema dei media vuole dire partire dal problema rappresentato da questa tensione che può tradursi in una contraddizione fatale. Che i media siano strumenti utilizzati per condizionare l’opinione pubblica non è certamente una notizia. Ad oggi, sono amplificatori di linee politiche che eludono il confine del ruolo loro proprio e l’ineludibile demarcazione del compito, per assumerne, presuntuosamente e pretestuosamente, un altro, che dilata e approfondisce lo spazio-tempo della loro azione. Un riflesso condizionato che ha radici lontanissime nella storia tutt’altro che liberale di questo paese e della sua borghesia e che oggi spiega molto del disastro nel quale versa l’editoria, soprattutto in Italia. Ma che dice qualcosa, in particolar modo, anche delle catastrofi che stanno segnando adesso le sorti politiche dello stato.
L’apparato dell’informazione, basato su un fideistico presupposto di “democraticità”, rappresenta l’insieme degli equilibri del potere che determinano e hanno determinato il nesso tra lo stato e la società. Lungi dall’assumere quel ruolo da “quarto potere” vigilante che tanto piace celebrare alla categoria dei giornalisti, appassionatamente impegnata a fantasticare di libertà di informazione e di dettami costituzionali, i giornali, e ancor peggio la televisione, sono in realtà lo strumento che ha consentito e consente ai partiti, e ai mercati, la loro massima efficacia sia nel senso della intensità dell’azione proposta che in quello della mediazione con la cosiddetta “società civile”, controllata proprio attraverso questi stessi dispositivi. Che cosa significa questa affermazione? Che tutti gli esempi con i quali ci misuriamo non mostrano quasi alcuna imperfezione in un’impostazione generale che vuole giornali e tv come imprescindibili ausiliari del sistema economico-politico, specie di enti accessori della governamentalità, il cui incarico è la riproposizione di un processo perpetuo di azzeramento del conflitto.
Si potrebbero fare infiniti esempi su come la crisi economica e finanziaria, lo spread, il debito pubblico, le imposizioni dell’Europa, vengano rappresentate da questi organismi: elementi intangibili, metafisici, fuori da ogni umana comprensione, sui quali non è possibile intervenire. I processi di controllo dei meccanismi dell’informazione rendono più complesso interpretare lo slittamento dello scenario sociale, producendo l’effetto di uno spiazzamento sul versante politico. È come se i media, con il pretesto di informare, consentissero di segnare un distacco tra la condizione reale delle persone e la percezione della loro vita, da una parte, e il pensiero critico e le strutture organizzative, dall’altra. Uno spiazzamento che ha reso sempre più forte ed egemone ciò che il capitale imponeva e proponeva. La comunicazione e l’informazione contemporanee conducono alla massima estensione il concetto di “moderno” teorizzato da Luhmann che potremmo tradurre come il passaggio dalla centralità umana a quella del ciclo produttivo. Una trasformazione in macchina, con il contributo della propaganda, di aspetti della vita in primo luogo impalpabili, relazionali, cioè umani. I media contribuiscono a sostituire ciò che accade nella sfera percettiva, sostituiscono gli accadimenti reali, re-interpretandoli, rispettando con ciò il senso generale e gli effetti concreti che sono chiamati a produrre. “Il nervosismo dei mercati” e il “test dei mercati” è, alla fine, ciò che nella distorsione della parola mediatica rende progressivamente reale la paura degli “avvoltoi delle agenzie di rating pronti a declassarci” in assenza di “conti in ordine” e che potrebbe condurci a imboccare la strada buia e irta di spine dell’“esempio della Grecia”. Si evocano da un lato, l’eroica lotta per il pareggio dl debito nel più sano spirito del capitalismo e il piacere sottile di essere – sempre! – “servitori dello stato”, dall’altra, si evidenzia l’asimmetria informativa alla quale soccombiamo nel pieno della società della conoscenza. Essa fa leva sulla mancanza di trasparenza di un sapere specialistico che mira a mantenere inalterata la propria sacralità, cioè il proprio potere. Citare, ad esempio, trattando di bilancio dello stato, l’“avanzo primario” senza spiegazioni ulteriori significa solo mettere il pubblico in una conclamata condizione di passività e di subalternità. Alla faccia del diritto all’informazione.
Eppure, è proprio questa stessa mala-informazione a definire “somari” gli italiani, come ha fatto recentemente il quotidiano la Repubblica. Un lungo articolo dal titolo “I nuovi analfabeti” è riuscito nel prodigio di parlare di “analfabetismo di ritorno” e della diffusa ignoranza del paese senza citare mai i tagli alla scuola e all’università, né il loro ammontare nel tempo, né dati sulle motivazioni dell’abbandono scolastico in tempi di crisi, né sul basso tasso di laureati, in ulteriore contrazione. Quegli illetterati degli italiani sono incapaci di leggere un foglio di istruzioni: “Archiviato l’analfabetismo classico ne avanza uno più sottile, quello di chi legge ma non comprende”. Se la prova consiste nell’essere capaci di comprendere un giornale come questo, noi ci mettiamo, senza dubbi, nel novero dei nuovi analfabeti.