giovedì 28 marzo 2013

Newsletter n.10

RASSEGNA MENSILE

Marco Dotti intervista Marco Revelli
come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti

di Sergio Labate
Gli occhiali che ci impedivano di vedere la società si sono finalmente rotti, frantumati nello sconquasso della crisi. Dobbiamo in fretta procurarcene degli altri, ma non per essere più belli, semplicemente per tornare davvero a guardare il mondo per come esso è, senza più difetti di interpretazione

di Emiliano Brancaccio
nella crisi di Cipro la Bce si è resa protagonista di un’ingerenza politica senza precedenti, che potrebbe dare avvio a un processo di ristrutturazione bancaria di tipo “darwiniano”. se così fosse, i paesi periferici dell’unione potrebbero vedersi costretti ad abbandonare la moneta unica per mantenere il controllo sui capitali bancari


di Francesco Raparelli
La radice anti-proprietaria della regola francescana è oggi rimossa. Riscoprire la bellezza della povertà, togliendo al povero la sua potenza, l'uso comune di ciò che è comune, significa riservare alla generazione perduta, oltre al danno, la beffa. La moralità pubblica e le ideologie della decrescita sono il puntello politico-culturale di questa violenta operazione

di Gianluca Carmosino 
se si riduce la durata del tempo quotidiano che si spende nella produzione di beni aumenta il tempo disponibile da dedicare alle relazioni, alle attività creative e alla conoscenza, all’autoproduzione di beni e allo scambio di servizi, all’arte o alla lotta, insomma alla vita

di Daniela Patrucco
le battaglie a tutela della salute nei posti di lavoro e nella vita quotidiana dei cittadini contro i costi economici, ambientali, sociali indotti dall’impiego del carbone per la produzione di energia elettrica

di Cristina Morini
Francesco e Laura, ognuno per le competenze assegnate dal ruolo, ci promettono un cammino nel buio, oltre la siepe. E noi? Che cosa abbiamo da guadagnare da questo sempre più assurdo, ingiusto e pericoloso “patriottismo sociale”?

di Claudio Conti
I "tecnici" stanno forse per mollare il timone della nave, ma lasciano le indicazioni su cosa fare. Certi che la politica dei tagli non potrà essere abbandonata dai successori. "Lo vuole l'Europa"

di Andrea Baranes
Cipro “spaventa i mercati”, “affonda le borse” e “fa volare lo spread”. Per un piano di aiuti da 10 miliardi di euro, lo 0,07% del Pil europeo. Noccioline rispetto a quanto versato da governi e istituzioni pubbliche per salvare le banche – senza condizioni e senza chiedere nulla in cambio. È davvero pensabile che sia la minuscola economia cipriota a mettere in crisi finanza e mercati?

di Andrea Fumagalli/Cristina Morini
si è scritto che la governance economica finanziaria, sia a livello europeo che nord-americana, sia rimasta delusa dall’esito elettorale. Da più parti si è gridato all’emergenza della ”ingovernabilità”. In realtà, non si può parlare di emergenza, ma di una conferma di quanto si è già verificato: la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi


di Giulio Marcon/Mario Pianta
Quattro fatti: il successo del M5S, la tenuta di Berlusconi, la battuta d’arresto del centro sinistra e l’incapacità dei movimenti di intercettare la protesta. Tre soluzioni: riscoprire che succede nel paese, concordare le politiche del cambiamento, fare un governo con l’accordo tra Pd, Sel e M5S

di Lanfranco Caminiti
dove andrà questo bene banale, questo luogocomunismo? Potrebbe magari diventare un «laboratorio politico», un esperimento sociale e istituzionale importante. O deformarsi in un orrore o sgonfiarsi lentamente

di Toni Casano
il successo elettorale del movimento grillino non ha abbracciato soltanto il segmento sociale generazionale – i precari di prima generazione tra i 25 e i 40 anni- , bensì ha coagulato attorno ad esso un insieme di segmenti trasversali colpiti dalle politiche recessive imposte dalla troika, perlopiù rappresentativi di un ceto medio ormai declassato o in via di impoverimento














Democrazia senza partiti

Marco Dotti intervista Marco Revelli

come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti

«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito (Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.

D:  Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance

Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici.
Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  

D:  Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?

Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 

D:  Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?

Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.

Né totem né tabù*

di Sergio Labate

Gli occhiali che ci impedivano di vedere la società si sono finalmente rotti, frantumati nello sconquasso della crisi. Dobbiamo in fretta procurarcene degli altri, ma non per essere più belli, semplicemente per tornare davvero a guardare il mondo per come esso è, senza più difetti di interpretazione
 
“Mi interessano le cose
che stanno per diventare qualcos’altro”
(Franco Arminio)
 
1. Premessa sul tempo uggioso che annuncia la primavera
 
Le macerie che le recenti elezioni ci costringono ad abitare qualcosa hanno cambiato, nelle nostre convinzioni. Vi sono tante prove di questo abitare spaesato cui siamo costretti. Ma non colgo disincanto, quanto sollievo: come se la necessità di spostarsi dal punto cieco in cui eravamo finiti prevalesse sul timore dell’ignoto verso cui ci dirigiamo. Questo strano impulso ad affrontare le cose proprio nell’istante in cui stanno diventando qualcos’altro da se stesse vale anche per la questione del rapporto tra democrazia dei movimenti e democrazia della rappresentanza. È da più di un decennio (da Genova 2001) che l’eventualità di un nodo tra movimenti e politica si lacera e si consuma tra due estremi.
Da un lato c’è chi sostiene che la rappresentanza sia come un totem, e che disinteressarsene non solo non è lecito ma è impossibile: perché non si può “uscire dalla politica” (a meno che non “si esca dalla società”).
Dall’altro lato invece ci sono coloro per cui la questione della rappresentanza è un vero e proprio tabù (posizione oggi egemonica nella società italiana, con tante di quelle buone ragioni che a volte le contro-ragioni addotte dai politici contro di essa appaiono discorsi di extraterrestri).
Davvero il tempo sembra aver trasformato quel verso di De André in una profezia. Oggi più che mai, dinanzi ai difensori d’ufficio delle forme tradizionali della rappresentanza (e dei partiti, loro avamposti che hanno ottemperato inconsapevolmente al compito di trasformare un verso di una canzone in una profezia politica) basterebbe rispondere che “bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni” (non c’è bisogno di altro: nulla più dell’evidenza delle cose vale come argomentazione politica).
Ecco, il dramma o la cifra di questi giorni – e di questi insuccessi – è dover riconoscere che entrambe le cose sono vere: non possiamo “uscire dalla società” (per quanto costruiamo reti chiuse e spazi ristretti in cui facciamo come se essa non ci fosse. Compito essenziale ma necessariamente incompleto… a meno di non essere fuori da uno spazio che subiamo e che si chiama occidente, e da un tempo che abbiamo accelerato illudendoci di congedarlo, e che si chiama modernità). Ma non possiamo nemmeno obiettare qualcosa a chi ci dice che, in questo spazio e in questo tempo, è evidente che “non esistono poteri buoni”.
Proprio essendo entrambe le tesi del tutto condivisibili, forse siamo sul punto giusto per dirci che la rappresentanza non è né un totem né un tabù. Non è una condizione sufficiente a costruire reti di giustizia, mondi nuovi, progresso e non crescita. Non lo è affatto. Però se siamo qui è perché ci siamo resi conto – qui e ora, mica sempre! – che è una condizione necessaria, nostro malgrado. Anche per il semplice fatto che noi dalla rappresentanza, negli ultimi anni, ci siamo dovuti difendere, non abbiamo avuto la possibilità di disinteressarcene. Per quanti sforzi abbiamo fatto di ignorare la rappresentanza, essa non ignora noi e questo è il punto che ci ha portato fin qui. Non si tratta di occuparci della rappresentanza perché essa è un totem, perché è un valore assoluto (per qualcuno lo è, ovviamente, perché distruggere la rappresentanza può voler dire regredire a tempi pre-rivoluzionari. Io stesso, per esempio, tendo sempre a circoscrivere ogni critica alla modernità in modo tale che essa risulti progressiva e non regressiva).
Non è certo la rappresentanza che ci salverà (e così dovremmo semplicemente esser contenti della secolarizzazione dei partiti, luoghi adibiti al rito sacro della rappresentanza). Ma difendersi dalla cattiva rappresentanza si può fare, oggi, solo se si propongono forme nuove e meno verticali di essa (mi permetto di dire che va riconosciuta alla proposta avanzata da Alba di andare con nettezza verso questa direzione, ripensando il nodo della rappresentanza né come totem né come tabù. Per questo, aldilà di ogni altro limite o errore, tale proposta mi appare ancora credibile e contemporanea). Dobbiamo occuparci delle forme nuove della rappresentanza perché esse sono ciò che possono permetterci di difenderci da quelle attuali.
Per quanti limiti possa avere la politica del M5S, dobbiamo però – a mio avviso, ovviamente – riconoscere almeno questo: che esso è il contrario del qualunquismo. Perché il qualunquismo si fonda su un’indeterminata pretesa di essere contro lo stato. Il M5S non si fonda su questo principio, ma sul suo rovescio: sull’evidenza che è lo stato ad essere contro la democrazia. Evidenza pericolosissima; solo che la sua minaccia non è da imputare al M5S, ma a questa inimicizia della politica nei riguardi della società, inimicizia che negli anni è diventata vizio politico e morale di questo paese. Se guardiamo retroattivamente alle nostre esperienze di lotta degli ultimi anni, non è di questa evidenza che ci occupiamo? Non sono lotte per qualcosa, ma sono perlopiù lotte per difendere qualcosa contro lo stato, la sua occupazione militare dei territori, delle decisioni, degli spazi pubblici. La rappresentanza non è stata debole sui territori in questi anni, è stata fortissima. È stata così violenta da costringere la società civile non a elaborare forme di società innovative, ma a difendere quel che c’era dalla voracità dello stato e, nel tempo, dalla voracità della finanza che ha ridotto i politici a semplici agenti d’intermediazione (la sovranità non si è solo dislocata – dagli stati all’Europa – ma si è trasformata. La dislocazione presuppone la trasformazione, non il contrario. Per questo ogni accenno al referendum sull’euro è un falso problema che pone una questione secondaria. Questo è uno dei tanti limiti dell’analisi del M5S e uno dei tanti specifici campi che segnala la necessità di una sinistra). Mi pare esser questa la traiettoria specifica della situazione italiana dei movimenti e dell’associazionismo. Non dimentichiamolo, quando c’interroghiamo sul perché da noi non abbiamo avuto Indignados o Occupy. Non si potevano avere forze sufficienti per difendersi e per costruire. Non c’è stato tempo per costruire una democrazia oltre lo stato perché impegnati a costruire una democrazia contro lo stato (che si difendesse da esso).
Ecco, giunti a questo punto buona parte di noi riconoscono che questa difesa è vana se non prova ad usare le armi del nemico (per modificarne la natura, evidentemente). Sentiamo non soltanto che la democrazia rappresentativa come tale – nella sua forma contemporanea – ci propone dei modelli che non riconosciamo, ma purtroppo anche che, anche se cerchiamo di evitarla, alla fine ci costringe comunque a prendere una posizione (qui rimando al PostScriptum 1, per una semplice curiosità intellettuale).

lunedì 25 marzo 2013

La crisi di Cipro e la svolta “darwiniana” della Bce

di Emiliano Brancaccio

nella crisi di Cipro la Bce si è resa protagonista di un’ingerenza politica senza precedenti, che potrebbe dare avvio a un processo di ristrutturazione bancaria di tipo “darwiniano”. se così fosse, i paesi periferici dell’unione potrebbero vedersi costretti ad abbandonare la moneta unica per mantenere il controllo sui capitali bancari

Ancora non conosciamo i suoi esiti, ma dalla crisi bancaria di Cipro possiamo già trarre qualche indicazione per il futuro. Molti commentatori ne hanno tratto spunti per valutare le possibili conseguenze di una tassazione dei depositi bancari. Per Donato Masciandaro la decisione di coinvolgere i depositanti nei salvataggi “sta facendo fare all’Unione europea una pessima figura”1. Per Marco Onado, un prelievo forzoso sui depositi ciprioti solleverebbe dubbi sul valore atteso dei conti correnti di tutta l’Unione e potrebbe quindi generare “un disastroso effetto valanga” per l’intero sistema bancario europeo2. Queste valutazioni colgono indubbiamente dei rischi reali. Ma vi sono anche altre minacce all’orizzonte. La crisi di Cipro crea infatti un precedente per certi versi ancora più pericoloso: mi riferisco a una nota diramata ieri mattina con la quale il Consiglio direttivo della BCE ha dichiarato che la liquidità di emergenza a favore della Banca centrale di Cipro sarà fornita solo fino a lunedì prossimo. Dopo quella data, l’erogazione di liquidità da parte della BCE sarà condizionata all’avvenuta ratifica di un accordo tra il governo di Cipro, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, atto a garantire la solvibilità degli istituti di credito colpiti dalla crisi3.
Il comunicato di Francoforte verte sull’idea che il banchiere centrale sia preposto a intervenire solo nel caso di una crisi di liquidità definibile di “breve periodo”, mentre non sia mai autorizzato a fornire ossigeno a istituti di credito che abbiano problemi di solvibilità di “lungo periodo”. Alla base di questa linea di policy risiede la concezione teorica secondo cui è sempre possibile separare concettualmente una crisi di liquidità da una crisi di solvibilità. Questa tesi si colloca lungo la scia dei vecchi contributi di Bagehot sul tema. Tuttavia la letteratura più recente, sia mainstream che critica, l’ha messa fortemente in discussione. Per esempio, è oggi possibile mostrare che la banca centrale, più o meno surrettiziamente, segue sempre una “regola di solvibilità” in grado di condizionare l’evoluzione degli assetti proprietari dei capitali interessati dalla sua azione di politica monetaria4.

La potenza della povertà

di Francesco Raparelli

La radice anti-proprietaria della regola francescana è oggi rimossa. Riscoprire la bellezza della povertà, togliendo al povero la sua potenza, l'uso comune di ciò che è comune, significa riservare alla generazione perduta, oltre al danno, la beffa. La moralità pubblica e le ideologie della decrescita sono il puntello politico-culturale di questa violenta operazione

A conclusione di un bel saggio dedicato al tema della povertà e alle regole monastiche, scrive Giorgio Agamben: "La forma di vita francescana è, in questo senso, la fine di tutte le vite (finis omnium vitarum), l'ultimo modus, dopo il quale non è più possibile la molteplice dispensazione storica dei modi vivendi. L' "altissima povertà", col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell'Occidente sono giunte alla loro consumazione storica".
Papa Bergoglio non rinuncerà allo IOR, così come Grillo e Casaleggio non rinunceranno alle loro ville e, nel caso del guru, agli affari. Di certo, però, l'ispirazione francescana va di gran moda e tanto la Chiesa quanto il M5S, con il mantra della "decrescita felice" e la decurtazione degli stipendi parlamentari, hanno deciso di farsene interpreti.
Non sfuggono le cause. Con il 40% di disoccupazione giovanile, salari e compensi che, per un'intera generazione, non superano gli 800/1.000 euro al mese, la sobrietà dei costumi è imposta dal buon gusto. E anche dalla paura che prima o poi l'acqua bolla e la pentola esploda. Grillo, d'altronde, non ha mai nascosto la sua vocazione più profonda: essere il katéchon della crisi italica ("qualora fallissimo noi, violenza in piazza"). Se la temperatura è alta, che la politica dia il buon esempio... e inizia la singolare fiera degli umili.
Fa piacere, figurarsi, che Francesco sia tornato di moda. Uno sguardo più attento alla sua figura, però, ci aiuta a non perderci nelle scemenze. Contrapponendo l'uso, più in particolare l'usus pauper, al diritto di proprietà, Francesco sceglie l'amore e la condivisione contro l'opulenza e la corruzione del potere. L'uso, infatti, è sempre l'uso comune di ciò che è comune, le risorse naturali come il lavoro e i suoi prodotti. In questo senso, e con saggezza, Agamben parla dell'usus pauper come forma-di-vita, nel senso dell'habitus o della consuetudine. Aggiungiamo: forma-di-vita collettiva ostile all' "individualismo possessivo" ovvero il campo antropologico su cui si staglia il capitalismo.
La radice anti-proprietaria della regola francescana è oggi rimossa. Il riferimento al santo di Assisi, piuttosto, serve a promuovere una nuova etica della rassegnazione.

Il papa, Grillo e la decrescita

di Gianluca Carmosino

se si riduce la durata del tempo quotidiano che si spende nella produzione di beni aumenta il tempo disponibile da dedicare alle relazioni, alle attività creative e alla conoscenza, all’autoproduzione di beni e allo scambio di servizi, all’arte o alla lotta, insomma alla vita

Proviamo per un momento a mettere da parte le gravi accuse di diversi testimoni e le prove raccolte da Horacio Verbitsky sul ruolo o sui silenzi di Jorge Mario Bergoglio nella dittatura argentina. E mettiamo da parte anche la militanza del giovane Bergoglio in un gruppo della destra o le sue idee circa i diritti degli omosessuali. Di certo, le prime scelte del nuovo papa, a cominciare dal nome, hanno stupito e convinto molti e tanto è stato scritto. Con curiosità abbiamo letto sul sito dei nostri compagni di strada di Dinamopress un articolo di Francesco Raparelli («La potenza della povertà»), che tra l’altro scrive: «L’ispirazione francescana va di gran moda e tanto la Chiesa quanto il M5S, con il mantra della “decrescita felice” e la decurtazione degli stipendi parlamentari, hanno deciso di farsene interpreti… Produrre poveri – attraverso la leva del debito pubblico, la dismissione e privatizzazione del Welfare State, la deregolamentazione del mercato del lavoro… – è il passaggio necessario per definire su nuove basi il rapporto capitalistico di sfruttamento. La moralità pubblica e le ideologie della decrescita sono il puntello politico-culturale di questa violenta operazione». La condivisione dei beni e la vita collettiva di Francesco d’Assisi, spiega poi giustamente Raparelli, sono prima di tutto una forma di resistenza al diritto di proprietà e all’«individualismo possessivo», resistenza che mette in discussione una certa idea di società. Del resto su Francesco hanno ragionato e scritto da sempre in tanti, non solo tra i credenti. Per Toni Negri è l’esempio migliore del militante puro e convinto, come se la ribellione al capitalismo fosse una questione che riguardasse solo o soprattutto i «militanti», in contrapposizione all’idea zapatista, decisamente più interessante, per cui siamo persone comuni e pertanto ribelli. Ma torniamo al ragionamento di Raparelli che merita un approfondimento e una critica.
Molti quando richiamano quello che è uno dei padri della nonviolenza sottovalutano la principale novità della sua vita, ma sarebbe più giusto dire della vita un gruppo di uomini e di donne (a cominciare da Chiara). Come accaduto per altri, l’agiografia del «poverello di Assisi» è stata abbellita, romanticizzata (l’uomo che parlava al lupo e a fratello sole, l’uomo sempre dolce e pacifico) e trasformata dai libri di storia. L’obiettivo era evitare di affrontare la profonda provocazione che porta in sé. Questa riscrittura ha avuto successo: oggi dimentichiamo che «la sua vita – scrive Ernesto Balducci in «Gli ultimi tempi» (Borla) – è stata in realtà un fallimento». Balducci alludeva alle chiese e alla basilica alle quali i francescani hanno dato subito molto importanza ma anche alla timidezza con la quale era stata accolta la scelta di Francesco, quando con la sua irrequietezza tentava di dissuadere i cristiani dall’andare in guerra contro i musulmani. Il moderno business religioso gestito dai francescani ad Assisi, le mercificazione della natura e degli animali o il pacifismo di facciata di molti credenti sembrano confermare ancora oggi la tesi di Balducci.

Inquinamento e reati ambientali

di Daniela Patrucco



le battaglie a tutela della salute nei posti di lavoro e nella vita quotidiana dei cittadini contro i costi economici, ambientali, sociali indotti dall’impiego del carbone per la produzione di energia elettrica

“Il medico è tenuto a considerare l’ambiente nel quale l’uomo vive e lavora quale fondamentale determinante della salute dei cittadini. A tal fine il medico è tenuto a promuovere una cultura civile tesa all’utilizzo appropriato delle risorse materiali, anche allo scopo di garantire alle future generazioni la fruizione di un ambiente vivibile. Il medico favorisce e partecipa alle iniziative di prevenzione, di tutela della salute nei luoghi di lavoro e di promozione della salute individuale e collettiva”. Così recita l’art. 5 del Nuovo Codice Deontologico dedicato all’educazione alla salute e ai rapporti con l’ambiente con cui il dott. Giovanni Ghirga – pediatra, membro del comitato degli esperti della Società Internazionale dei Medici per l’Ambiente (ISDE) – ha aperto il suo intervento al convegno di Savona su Inquinamento e reati ambientali (vedi intervento Sost. Proc. di Torino dott. Raffaele Guariniello). Secondo Giovanni Ghirga, difendere l’ambiente significa anche partecipare a convegni, fare divulgazione scientifica e interagire con i cittadini. Oggetto del suo intervento sono i costi economici, ambientali, sociali e per la salute derivanti dall’utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica.
 
I limiti all’inquinamento stabiliti dalla legge. “La salute è minacciata anche quando l’inquinamento rientra nei limiti di legge, perché la legalità ambientale può solo ridurre, ma assolutamente non evita, i danni alla salute e all’ambiente (anche nei luoghi di lavoro). Cosa significa che un inquinante è nei limiti della norma? Occorre distinguere fra la soglia socialmente accettabile, e la soglia biologica. Mentre la soglia socialmente accettabile è quantificata sulla base di logiche che sono in parte scientifiche, in parte economiche e politiche, la soglia biologica si basa solo sui dati sperimentali. E per i dati sperimentali, come sa ogni cancerologo che abbia studiato questi problemi, non esiste una soglia limite. Inoltre, i limiti sono “tarati” su individui adulti, mentre andrebbero posti a difesa dei più deboli: i bambini”.

Il numeri dell’inquinamento, per la salute e per l’economia. “Secondo un recente documento dell’agenzia Europea dell’ambiente, l’inquinamento industriale in Europa costa quasi 170 miliardi di euro per danni alla salute e all’ambiente, e la maggior parte di questi danni sono prodotti dalle industrie energetiche
Un recente studio dell’Alleanza per la sanità e l’ambiente – un importante centro di ricerca europeo – dimostra che in Europa la spesa annua causata da morti premature e malattie imputabili all’utilizzo del carbone supera i 42 miliardi di euro. Oltre 18.200 morti premature l’anno e circa 8.500 i nuovi casi di bronchite cronica causati dalle emissioni generate dagli impianti a carbone. Veri e propri “killer invisibili”.

giovedì 21 marzo 2013

DIFENDI IL TUO FUTURO! 23 marzo Manifestazione No Tav


DIFENDI IL TUO FUTURO
Ancora una volta invitiamo tutti e tutte a manifestare
 contro questo scellerato progetto che con il passare del tempo, l’avanzata della crisi economica nazionale e internazionale, diviene sempre più inutile e insostenibile,non solo per il nostro territorio ma per tutto il Paese. 
Su un punto vogliamo essere chiari, quest’opera, nonostante il battage
pubblicitario che la circonda, fa sempre più acqua da tutti i punti di vista e sopratutto, man mano che si delineano le fantasiose tempistiche
dei fan del tav, si conosce sempre più a fondo la
reperibilità dei fondi per la sua realizzazione.
Quello di cui Governo e tifosi vari non parlano mai è l’essenza del finanziamento necessario per la Torino Lione, tutto ed esclusivamente pubblico, ovvero sottratto ad altri settori per essere spostato su questo
binario morto.
I soldi delle nostre tasse sono l’unica fonte di finanziamento esistente e necessariamente, ancor piú in un momento storico del genere,
ciò significa spostare ingenti somme di denaro dalla sanità, dalla scuola e dai servizi sociali, per finanziare quella che ormai è la cassaforte,
con relativo bancomat, del sistema dei partiti.
A fronte di un’inutilità evidente, la Torino Lione è divenuta un simbolo della politica che vuol mettere a tacere un movimento popolare come quello
 NOTAV
che Resiste da oltre vent’anni trovando sempre più consenso all’interno di una società che, svegliatasi dal torpore quotidiano e
vivendo sulla propria pelle sacrifici e politiche di austerità a senso unico,
sostiene sempre di più.
Contro di noi non c’è colore politico,
ci sono cori di corvi che gracchiano per sconfiggerci e metterci a tacere, spaventati che il seme della Valle che Resiste si moltiplichi
in altri territori e in altre comunità.
Lo Stato si è di fatto costituito parte civile contro di noi senza vergogna, accusandoci e incarcerandoci con l’intento di piegarci e sottrarci quel consenso che invece sentiamo sempre più crescere intorno alla nostra lotta. Processi in aule bunker, richieste di danni incalcolabili, provvedimenti atti a limitare la nostra libertà di movimento sono il corollario del confronto
che questi signori hanno con la popolazione e che si vanno ad aggiungere alla già insopportabile militarizzazione del territorio e all’arte della menzogna quotidiana.
È contro la truffa del secolo che chiamiamo alla mobilitazione in prima persona, invitando quanti hanno a cuore il proprio futuro e quello dei propri figli a partecipare il 23 Marzo alla manifestazione popolare che
partirà da Susa e arriverà a Bussoleno.
Il Movimento Notav
 

Papi e madonne

di  Cristina Morini

Francesco e Laura, ognuno per le competenze assegnate dal ruolo, ci promettono un cammino nel buio, oltre la siepe. E noi? Che cosa abbiamo da guadagnare da questo sempre più assurdo, ingiusto e pericoloso “patriottismo sociale”?

Nessuno mette in dubbio le molte competenze di Laura Boldrini, attuale presidente della Camera. Ci limitiamo a sottolineare brevemente come un sistema completamente al collasso, vada affidando le tribolazioni del dopo elezioni alle brave persone, meglio se donne, ai buoni pensieri e alle parole semplici quasi fossero piccoli atti di purificazione simbolica per avvezzarci a sopportare i mali del momento. “Buona sera, fratelli e sorelle”, dice al microfono il neo-papa Francesco e a noi pare già di sentirci meglio.
La cura è proseguita, appunto, con l’elezione sullo scranno della Camera di una donna dai solidi meriti. Bella, buona, sa tutte le lingue, sempre con la valigia in mano, in giro per tutti i paesi disperati del mondo. Dacci una mano anche tu che sei stata in tanti luoghi di crisi, tra cui ex Jugoslavia, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda. Lei, nel primo discorso, non dimentica nessuno:  “la difesa dei diritti degli ultimi… l’impegno per chi ha perso certezze e speranze… la lotta contro la povertà e non contro i poveri… le donne che subiscono violenza travestita da amore… i detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante… i pensionati che hanno lavorato tutta una vita e che oggi non riescono ad andare avanti… chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di perdere la Cig, ai cosiddetti esodati… ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi… alle vittime del terremoto…”.
Qualche commentatore si è emozionato e ha sentito allora di poter destare il fantasma di Enrico Berlinguer, cioè di quella vecchia e rassicurante sinistra che di solito sta chiusa a chiave in un cassettone. Sterminata (altro che rottamata) dai suoi stessi delfini dalla fine degli anni Ottanta, può tornare utile nei momenti critici e questo è certamente il caso. Porta aliti di etica, responsabilità, moralità, serietà, onestà e altre cose con l’accento sulla “a”. Inoltre contribuisce fortemente a innalzare nel sangue i valori “senso dello stato, giustizia, eguaglianza, libertà”: “Oggi più di ieri con la Politica”, ha scritto, dopo la dose, un bloggaro del Fatto Quotidiano.
La politica e la sinistra vivono il loro momento più buio e deprimente, dunque si inventano di apparecchiarci una piccola orchestra per suonare le note di una buona ninna nanna. Pietro Grasso, il magistrato inflessibile, veglia su di noi che ci addormentiamo mentre i deputati del M5S scappano via dai microfoni, non hanno nulla da dire, si sono annoiati, trascinano i loro trolley verso il week end. La ricetta del Pd è mostrarsi sereni, evocare amabili sentimenti, idee edificanti: si segue la linea del papa, “camminare, edificare, confessare”, perciò distanziarsi da quel manigoldo di Berlusconi costretto a mettersi gli occhiali neri per la vergogna. SeL, intanto, prova a diseppellirsi aggrappandosi alla Boldrini: “La politica deve tornare a essere una speranza e una passione”.

mercoledì 20 marzo 2013

Il "dossier Giarda", ovvero le manette per il prossimo governo

di Claudio Conti

I "tecnici" stanno forse per mollare il timone della nave, ma lasciano le indicazioni su cosa fare. Certi che la politica dei tagli non potrà essere abbandonata dai successori. "Lo vuole l'Europa"

Trecento pagine di numeri e indicazioni, "non proposte", che spaziano dalle pensioni alla spesa per la "sicurezza", ai trasferimenti per le imprese.
Con una considerazione iniziale che è già una filosofia di gestione: “La spesa pubblica italiana è nel suo totale molto elevata per gli standard internazionali e la sua struttura presenta profonde anomalie rispetto a quella rilevata in altri paesi. La spesa per la fornitura di servizi pubblici e per il sostegno di individui e imprese in difficoltà economica è inferiore alla media dei paesi OCSE, ma la spesa per interessi passivi e per pensioni è molto superiore. La spesa per interessi discende dall’elevato livello del debito pubblico e il sistema pensionistico in essere è in qualche caso molto generoso e copre una frazione molto elevata della popolazione”.
Segnaliamo due cose: la spesa per "servizi pubblici" e per "sostegno" è minore della media europea, mentre "superiore" risulta quella per pensioni e interessi sul debito. L'indicazione è implicita: poiché quella per interessi non si può per definizione tagliare (dipende "dal mercato", ovvero dallo spread), resta soltanto quella pensionistica.
È tra l'altro falso che questa sia davvero superiore alla media europea. Pesano infatti sui bilanci Inps una serie di voci che altrove non sono a carico dell'ente previdenziale: cassa integrazione, le perdite delle casse di previdenza per i dirigenti d'azienda (incapaci a quanto pare di gestire oculatamente persino se stessi!), e ora i passivi Inpdap (creati da uno Stato che è passato improvvisamente dal non versare il "trattamento di fine rapporto" per i dipendenti statali (finché erano diretti all'Inpdap) a farli figurare come "passivo" una volta fatta la riunificazione dentro l'Inps.

Cipro, la miccia e la minaccia

di Andrea Baranes

Cipro “spaventa i mercati”, “affonda le borse” e “fa volare lo spread”. Per un piano di aiuti da 10 miliardi di euro, lo 0,07% del Pil europeo. Noccioline rispetto a quanto versato da governi e istituzioni pubbliche per salvare le banche – senza condizioni e senza chiedere nulla in cambio. È davvero pensabile che sia la minuscola economia cipriota a mettere in crisi finanza e mercati?
 
Vola lo spread. Apertura in calo per tutte le borse europee. Le notizie che provengono da Cipro generano forte preoccupazione in tutta l'Unione europea. L'isola dovrebbe ricevere 10 miliardi di euro di aiuti. Ma per averli è costretta ad accettare misure durissime. Prima tra tutte un prelievo forzoso su tutti i conti correnti. Non solo per i ciprioti, ma per i moltissimi stranieri, russi in testa, che negli ultimi anni hanno pensato di depositare nella “discreta” Cipro una parte delle loro ricchezze. Ora i mercati scommettono su un peggioramento della situazione, e le turbolenze ricadono sull'insieme dei mercati europei e sull'Italia in particolare.
Fermiamoci un momento. Davvero il problema è Cipro? O è più ampio? Forse, come recita un vecchio proverbio, quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Proviamo allora ad allargare lo sguardo, per analizzare il sistema finanziario che abbiamo davanti.
Un sistema illogico. È stata la finanza a causare la crisi, ora sono i cittadini a rimanere con il cerino in mano e a dovere pagare il conto. Ed è un conto estremamente salato in termini di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti acquisiti, aumento delle povertà. Profitti privati finché le cose andavano bene, socializzazione delle perdite quando il giocattolo si rompe. Una follia secondo qualsiasi teoria economica.
Un sistema ingiusto. Migliaia di miliardi versati dai governi europei per salvare le loro banche. A cui si sommano gli oltre 1.000 miliardi di euro prestati dalla Banca centrale europea alle banche private all'1%, un tasso negativo se si tiene conto dell'inflazione. Un gigantesco assegno in bianco, senza nessuna condizione, mentre Cipro, uno Stato sovrano, deve accettare misure pesantissime per riceverne 10. Oltre alla sproporzione della cifra, perché alle banche non è stato imposto nessun vincolo per riceverne centinaia di volte tanti? Magari anche solo utilizzare quella montagna di soldi per finanziare l'economia reale e non per ricominciare a speculare.

sabato 9 marzo 2013

newsletter settimanale n.9

RASSEGNA a cura della Redazione 


di Toni Casano

il successo elettorale del movimento grillino non ha abbracciato soltanto il segmento sociale generazionale – i precari di prima generazione tra i 25 e i 40 anni- , bensì ha coagulato attorno ad esso un insieme di segmenti trasversali colpiti dalle politiche recessive imposte dalla troika, perlopiù rappresentativi di un ceto medio ormai declassato o in via di impoverimento


di Lanfranco Caminiti

dove andrà questo bene banale, questo luogocomunismo? Potrebbe magari diventare un «laboratorio politico», un esperimento sociale e istituzionale importante. O deformarsi in un orrore o sgonfiarsi lentamente


di Giulio Marcon/Mario Pianta

Quattro fatti: il successo del M5S, la tenuta di Berlusconi, la battuta d’arresto del centro sinistra e l’incapacità dei movimenti di intercettare la protesta. Tre soluzioni: riscoprire che succede nel paese, concordare le politiche del cambiamento, fare un governo con l’accordo tra Pd, Sel e M5S


Brevi appunti sulle elezioni italiane
di Andrea Fumagalli/Cristina Morini

si è scritto che la governance economica finanziaria, sia a livello europeo che nord-americana, sia rimasta delusa dall’esito elettorale. Da più parti si è gridato all’emergenza della ”ingovernabilità”. In realtà, non si può parlare di emergenza, ma di una conferma di quanto si è già verificato: la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi




Blocco sociale o voto di protesta?

di Toni Casano



il successo elettorale del movimento grillino non ha abbracciato soltanto il segmento sociale generazionale – i precari di prima generazione tra i 25 e i 40 anni- , bensì ha coagulato attorno ad esso un insieme di segmenti trasversali colpiti dalle politiche recessive imposte dalla troika, perlopiù rappresentativi di un ceto medio ormai declassato o in via di impoverimento

La banalità del bene, il luogocomunismo e il movimento 5 stelle

di  Lanfranco Caminiti

dove andrà questo bene banale, questo luogocomunismo? Potrebbe magari diventare un «laboratorio politico», un esperimento sociale e istituzionale importante. O deformarsi in un orrore o sgonfiarsi lentamente

Mentre da pensosi intellettuali di sinistra continuano a arrivare analisi e preoccupazioni per il successo del movimento 5 stelle, su cui aprono i nostri occhi foderati di prosciutto, come fosse “l’Armata delle tenebre” di Sam Raimi che sta giungendo a galoppo, i neo–deputati si presentano l’un l’altro e al pubblico, raccontando le loro biografie e i loro propositi parlamentari. A guardarli in faccia, ora che escono dalle fibre della rete, sembrano i figli dei vicini di pianerottolo o i neosposini che hanno messo su da poco casa: puliti, compiti, storie come quelle che ascolti ogni giorno da una suocera preoccupata che il genero ben adulto faccia ancora lavoretti [«e ha due lauree e parla l’inglese», dice con sconsolato orgoglio] o da quello con cui hai fatto conoscenza al giardinetto portando il cane a prendere aria e ti chiedi come faccia a essere lì ogni giorno in orario di lavoro [«lavoro a casa, faccio traduzioni, disegno mappe, traduco software»]. Insomma, persone qualsiasi che ti viene difficile immaginare covino un disegno di eversione e di irreggimentazione della nostra vita e delle nostre libertà [quali?] guidate da un fuhrer che ha preso le posture di Charlie Chaplin che faceva il fuhrer [il reale, l’immaginario che lo elabora e torna amplificato al reale, quella roba là].
Insomma, una pattuglia di brave e buone persone — già certificate da fedine penali immacolate, neanche una multa per divieto di sosta — che sbarca in Parlamento con l’intento di mettervi un po’ d’ordine: non dovrebbe essere così difficile tagliare gli sprechi e le unghie della casta. Questo proposito sembra il bene proprio come può essere intesa la banalità del bene, come se davvero per cambiare i rapporti di forza, lo sfruttamento, le vecchie e nuove povertà, i privilegi del denaro, bastasse prendere a calci in culo un po’ di parlamentari.
Però, «i politici rubano» è il luogo comune — il male assoluto — che da qualche anno impera in questo paese. E contro i luoghi comuni — non ci sono più le mezze stagioni, i ghiacciai si squagliano, il pane non è buono come quello di una volta, in fondo i gay sono brave persone, gli zingari rubano i bambini, chissà che ci mettono nelle scatolette per i gatti, quando c’era il fascismo si dormiva con le porte aperte [variante: i treni arrivavano in orario] — hai poco da combattere.
Il luogocomunismo è diverso dal politically correct, perché pur essendo ugualmente banalmente democratico, accosta pensieri di destra e di sinistra senza fatica: «i marocchini minacciano le nostre donne» può benissimo essere detto insieme a «è una vergogna quel campo nomadi», oppure a «in fondo nel fascismo c’erano buone cose» può seguire «la dittatura fascista è stata un periodo buio per l’Italia». E si può dire con sincerità — portando se è il caso pezze accademiche di pensatori e opinionisti e strisce statistiche — perché ogni frase, ogni luogo comune è valido per sé non dovendosi “giustificare” in un sistema di pensiero. Non sono mezze verità congelate, verità manipolate, falsità malcelate, come nel politically correct. Sono frasi. Letteralmente. Pensieri semplici contro complessità di pensiero. Il luogo comune è già un sistema di pensiero. Il luogo comune non è di destra né di sinistra. Solo che finora è stato considerato poco più che il fraseggio della plebe, il rumore di fondo della società, l’innocuo mormorio delle masse.
Il fenomeno straordinario cui ci troviamo di fronte è che il luogo comune è diventato politica di massa. È diventato ideologia. È diventato partito.

Quattro problemi, tre soluzioni. Che cosa si può fare dopo il voto

di Giulio Marcon/Mario Pianta

Quattro fatti: il successo del M5S, la tenuta di Berlusconi, la battuta d’arresto del centro sinistra e l’incapacità dei movimenti di intercettare la protesta. Tre soluzioni: riscoprire che succede nel paese, concordare le politiche del cambiamento, fare un governo con l’accordo tra Pd, Sel e M5S

Le elezioni del 24-25 febbraio ci consegnano un'Italia che fino a dieci giorni fa pensavamo diversa. Ci sono quattro fatti con cui fare i conti. Il primo, evidente, è l'affermazione del M5S, insieme a un’astensione salita al 25%. Il secondo, più trascurato, è la tenuta del blocco sociale che unisce Berlusconi e la Lega. Il terzo è la battuta d'arresto del centro sinistra. Il quarto è la difficoltà per i movimenti e le organizzazioni sociali di intercettare la protesta presente nel paese, un problema che ha contribuito al limitato risultato di Sel e alla sconfitta della Lista Ingroia.
Quattro fatti che ci parlano di un paese che ormai conosciamo poco. Politologi, sondaggisti e sociologi hanno perso il contatto con le trasformazioni della società e dei comportamenti politici. I partiti sono sempre più comitati elettorali, senza un radicamento sul territorio. I movimenti frequentano troppo se stessi per capire cosa gli succede intorno. I giornali si fermano alla banale superficie degli eventi.
La prima novità è il successo del M5S, che ha molte radici. La più forte è la spinta demolitrice di un sistema politico delegittimato. Accanto a questa, il rifiuto delle politiche di austerità seguite nell'ultimo anno e mezzo, con i loro effetti devastanti su lavoro e redditi. Infine, l’onda lunga di un paese che declina da vent’anni, in cui “nove su dieci” stanno peggio di prima, crescono povertà e frustrazioni, riparte l’emigrazione.
Tuttavia, questa confusa spinta al cambiamento convive – ed è il secondo fatto da spiegare – con un 29% dell’elettorato che resta fedele a Berlusconi e alla Lega, immobile nella difesa dei propri interessi, indifferente a scandali e condanne della magistratura, che in Lombardia riesce a mantenere maggioranza e controllo della Regione, e in Sicilia al Senato ottiene tre volte i seggi del centro sinistra. Si tratta di uno zoccolo duro ancorato a destra, alimentato dal potere mediatico di Berlusconi, che ha come bandiera la cultura dell’individualismo, l’uso privato della politica, la tutela dei privilegi. Un blocco che non è stato insidiato nemmeno dall’apparire sulla scena del progetto liberista “classico” di Mario Monti, fermo all’11%.
Il terzo fatto è l’insuccesso del centro sinistra – e in particolare del Pd – sceso al 30% dei voti. Appesantito dall’appoggio al governo Monti, insidiato dallo scandalo Monte Paschi, Bersani non ha offerto alcuna proposta concreta di cambiamento: come redistribuire reddito, come creare lavoro, come riformare la politica. Il Pd ha inseguito la campagna di Berlusconi e ha occupato le pagine dei giornali a discutere della possibilità di collaborare o meno con Monti dopo il voto. Si è mostrato così parte del vecchio sistema, incapace di recepire le esigenze di cambiamento, ha provocato l’emorragia di voti verso Beppe Grillo: un voto su tre ricevuto dal M5S è di ex elettori del centro sinistra.
Il quarto fenomeno, più profondo, riguarda le modalità con cui il disagio e i conflitti sociali “emergono” nel voto. Non sono stati i movimenti attivi in questi anni – per i diritti del lavoro, contro le spese militari, per l’acqua pubblica e la riconversione ecologica, contro le mafie, etc. – a diventare i veicoli dell’espressione politica della protesta. Le mobilitazioni dal basso non hanno trovato ascolto e rappresentanza nei soggetti politici tradizionali e sono state incapaci di trasformarsi in protagonisti della politica; la ricostruzione dell’esperienza di “Cambiare si può” di Guido Viale sul manifesto del 27 febbraio è significativa di questa difficoltà. Così, alle elezioni il disagio sociale ha preso la strada del M5S, mescolando sfiducia generica nel sistema e alcune proposte specifiche. I temi di cui i movimenti sono portatori hanno trovato ospitalità in un M5S in genere assente nelle mobilitazioni dal basso. Quanti esponenti del M5S hanno partecipato ai sit in e alle manifestazioni contro gli F35? Eppure nella Val Susa della Tav, nella Taranto dell’Ilva e nelle aree di crisi occupazionale più grave il M5S ha ottenuto consensi straordinari. In questo senso, come argomenta l’intervista a Wu Ming sul manifesto del 1 marzo, il successo del M5S è il risultato del fallimento dei movimenti.

Brevi appunti sulle elezioni italiane

di Andrea Fumagalli/Cristina Morini

si è scritto che la governance economica finanziaria, sia a livello europeo che nord-americana, sia rimasta delusa dall’esito elettorale. Da più parti si è gridato all’emergenza della ”ingovernabilità”. In realtà, non si può parlare di emergenza, ma di una conferma di quanto si è già verificato: la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi

Vi è un dato certo che scaturisce dai risultati elettorali ed è, a nostro avviso, il più importante. I sostenitori dell’ineluttabilità delle politiche di austerity sono stati sconfitti, con buona pace delle varie troike e istituzioni monetarie. Non a caso è il dato che la stampa estera ha immediatamente rilevato. Non altrettanto fa la stampa mainstream italiana. E non può stupire. Dietro la sconfitta delle politiche di austerity si nasconde infatti la sconfitta del partito di Repubblica e del partito dei Bocconiani (leggi Corriere della Sera).
Tale rifiuto si è canalizzato in due modi: in modo tradizionale-populista nel recupero di Berlusconi che ha sfruttato la tradizione italiana anti-tasse, nonché l’estensione della governance mafiosa anche al Nord (in particolare in Lombardia); in modo innovativo-populista, con il clamoroso successo del M5S.
Dal 1994 a oggi si sono svolte sei elezioni politiche generali. In nessuna di queste, le forze del centro-sinistra sono mai riuscite ad ottenere una chiara e limpida vittoria elettorale. Eppure a questo fine era stata fatta la svolta della Bolognina all’indomani della caduta del muro di Berlino. É evidente che tale strategia non ha funzionato. Ma era altrettanto chiaro che non avrebbe mai potuto funzionare. Il cambio di paradigma nel processo di valorizzazione (con il prevalere della contrattazione individuale e delle strategie di breve periodo) e con il mancato decollo di un vero capitalismo cognitivo  (per l’eccessiva struttura familista, affarista, stato assistita e corrotta delle imprese e l’incapacità corporativa e la tendenza risk-bearer del sistema creditizio italiano, nonostante una forte crescita del grado di istruzione della forza-lavoro) non ha mai creato uno spazio sufficientemente ampio per avviare un progetto riformista in grado di garantire una governance sociale stabile. Gli interessi del profitto e il suo divenire rendita sono stati gli unici obiettivi della governance provinciale della politica italiana, a cui, colpevolmente, il centro sinistra si è accodato. Queste ultime elezioni sono state il canto del cigno per la sinistra riformista.
Ma se il PD piange, piange molto di più la cd. sinistra radicale. Per la seconda volta non riesce ad accedere al parlamento. E non poteva essere altrimenti visto che, nonostante numerose avvisaglie al riguardo, l’impostazione novecentesca sia nei contenuti che nella metodologia di azione politica è sempre rimasta dominante. Per la loro morte, noi, sicuramente, non piangiamo.
Siamo così entrati, finalmente, nel nuovo secolo.
Il vero vincitore delle elezioni è ovviamente Beppe Grillo. Il suo uso dei media è tanto sapiente quanto lo è quello di Berlusconi, anche se la strategia è opposta. In quanto proprietario, Berlusconi usa la televisione per entrare nelle case degli italiani con le sue mirabolanti promesse. Grillo ottiene altrettanto pubblicità, in modo indiretto, negandosi alla televisione. La comunicazione è ancora fondamentale, anche se queste elezioni ci dicono che non basta. Il voto al M5S è anche il frutto di una capillare presenza nelle piazze. Presenza che è stata resa possibile grazie ad un lavoro di lunga durata che è cominciato quasi 6-7 anni fa e che è stato in grado di raccogliere ciò che era stato seminato dal popolo viola, tramite modalità organizzative (i meet-up) altamente flessibili e modulari. Ma vi è un elemento ancor più importante: il M5S vince perché non è un partito. Ciò conferma che le forme tradizionali della rappresentanza sono anch’esse definitivamente perdenti: il M5S non ha una sede centrale né sedi periferiche o circoli, non ha un segretario né una segreteria. Ha invece un “capo” indiscusso, assai ricco, in grado di controllare e reprimere ogni forma di dissidenza interna e che non si candida. L’entrare in Parlamento rappresenterà una prova della validità di questo modello organizzativo.