martedì 29 gennaio 2013

newsletter n.3/4 - rassegna (bi)settimanale

SELEZIONE
a cura della Redazione

di Toni Casano
In questi giorni è stato celebrato il decennale della scomparsa di Gianni Agnelli, al quale, data la rilevanza della caratura storica del Presidente-FIAT, è stato dedicato un doveroso ampio spazio mediatico. L’immancabile “Porta a Porta” per esempio, pur in presenza dell’incalzante campagna elettorale, ha giustamente offerto il suo tributo. Viceversa in pochi, soprattutto a sinistra (e non solo la stampa ad essa vicina) si sono ricordati che poco prima ricorreva il decennale della morte di Claudio Sabattini, storico combattivo sindacalista dei “meccanici” FIOM. Forse troppo impegnati nel certame elettoralistico? O perché troppo scomodo richiamarsi ad una intellettualità critica difficilmente omologabile alle logiche della governamentalità?


di Fondazione “Claudio Sabattini”
“siamo di fronte all’esaurimento della politica sindacale fin qui svolta e alla necessità di una nuova proposta strategica. La linea dello scambio, inaugurata all’Eur nel ’77, non ha più alcun spazio, per la semplice ragione che non abbiamo più nulla da scambiare. È necessario allora avere il coraggio di una innovazione radicale nell’analisi e nella proposta”. il sindacato deve rifondarsi come un’organizzazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici, qualunque sia il loro status contrattuale, cercando quindi un’estensione della sua rappresentatività

di Ernesto Screpanti
Una teoria “marxista” della giustizia incontra grandi difficoltà a criticare il capitalismo. Per questo bisogna fuoriuscirne cercando di porre la libertà a fondamento della giustizia. In questo modo, si evita anche il rischio di un governo universale della ragione imposto forzosamente

di Stefano Petrucciani
Prima di lui la critica sociale si reggeva principalmente su un impianto moralistico. Ecco perché Marx ha segnato un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto

di Benedetto Vecchi
Il governo tecnico del professor Monti è la traduzione italiana di quel mutamento autoritario del sistema politico che vede la cancellazione dell’equilibrio tra il potere giudiziario, legislativo e esecutivo che ha caratterizzato, nel bene e nel male, la democrazia del lungo secolo alle nostre spalle. Antonio Gramsci avrebbe parlato di rivoluzione passiva. Più prosaicamente quello che si è consumato è l’adeguamento della forma Stato alla vocazione globale del capitalismo contemporaneo che ha nella finanza una forma inedita di governance dell’accumulazione di capitale

A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav*

di Centro sociale Askatasuna
Da oltre un decennio, pressoché l’intera comunità della Val di Susa è mobilitata per impedire la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità. In contrapposizione a media, partiti politici, forze dell’ordine e magistratura, un grande movimento di massa non cessa di crescere e, iniziativa dopo iniziativa, consolida la consapevolezza di poter vincere

di Maurizio Lazzarato
L’ordoliberalismo è sicuramente una delle innovazioni politiche principali che stanno all’origine della costruzione delle istituzioni europee. La logica della governamentalità europea sembra costruita sul modello ordoliberale. Il suo metodo di far emergere lo “Stato” dall’“economia” è applicato quasi alla lettera. È questa la ragione per cui si può affermare che l’euro è una moneta tedesca. Essa è l’espressione della potenza economica tedesca, ma occorre anche sottolineare che la potenza economica è inseparabile dalla riconfigurazione dello Stato come “Stato economico”, come “Stato sociale”

Chi paga la crisi e chi ci guadagna

di Luigi Pandolfi
La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma, com’era facile prevedere, visti gli attori in campo, i temi veri, quelli che afferiscono al futuro del paese ed alla sua capacità di vincere le sfide che ha davanti, rimangono inspiegabilmente sullo sfondo. E tra i temi veri, vale la pena ricordarlo, c’è quello che riguarda i nostri impegni con l’Unione europea e le sue strutture tecnico-finanziarie. Insieme a quello, correlato, della compatibilità del nostro diritto al futuro con le scelte finora compiute sul terreno della costruzione dell’Europa monetaria

Temariando

di Toni Casano

In questi giorni è stato celebrato il decennale della scomparsa di Gianni Agnelli, al quale, data la rilevanza della caratura storica del Presidente-FIAT, è stato dedicato un doveroso ampio spazio mediatico. L’immancabile “Porta a Porta” per esempio, pur in presenza dell’incalzante campagna elettorale, ha giustamente offerto il suo tributo. Viceversa in pochi, soprattutto a sinistra (e non solo la stampa ad essa vicina) si sono ricordati che poco prima ricorreva il decennale della  morte di Claudio Sabattini, storico combattivo sindacalista dei “meccanici” FIOM. Forse troppo impegnati nel certame elettoralistico? O perché troppo scomodo richiamarsi ad una  intellettualità  critica difficilmente omologabile alle logiche della governamentalità?

C'è un futuro per il sindacato?

di Fondazione “Claudio Sabattini”

il sindacato deve rifondarsi come un’organizzazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici, qualunque sia il loro status contrattuale, cercando quindi un’estensione della sua rappresentatività


Claudio morì prima della grande crisi, prima dell’alternanza tra Prodi e Berlusconi, prima insomma di un’intera fase economica, sociale e politica profondamente diversa da quella precedente. Non è nostra intenzione, quindi, pur sottolineando la vitalità del suo pensiero, di caricaturarne la figura facendone un essere dotato di capacità divinatorie del futuro.
L’attualità del suo pensiero riguarda, a nostro avviso, la sua comprensione e forte denuncia pubblica di alcune tendenze che, a iniziare dal 1992-1993, divennero, a suo giudizio, capaci di rovesciare le fondamenta stesse su cui si era costituito in Italia e in Europa, nel secondo dopoguerra, il rapporto tra Capitale e Lavoro, tra Stato, partiti e sindacati e, infine, l’insieme delle strategie socialdemocratiche e comuniste. Per usare una sua espressione “la storia del Novecento era finita negli anni ’80”, e non solo in Italia. Tali tendenze, aggiungiamo noi, erano preesistenti la crisi, forse componenti del suo sorgere e certamente amplificate e rafforzate dal suo manifestarsi.
Da questa sua solitaria consapevolezza e denuncia nasceva la proposta di una rifondazione del sindacato e della sinistra sociale in Italia e in Europa. Un’esigenza che rimane, per noi, del tutto attuale e non risolta e che richiede un percorso collettivo di elaborazione cui vogliamo dare un contributo, nel corso del 2013, attraverso una serie coordinata di iniziative, che avranno luogo nelle sedi territoriali nelle quali si è svolta la sua vita politica e intellettuale.
Prima di entrare nel merito della sua concezione di quanto stava accadendo è bene premettere che la sua produzione culturale è solo raramente in forma scritta; il tipo di lavoro da lui svolto lo portava a esprimere le sue convinzioni in relazioni agli organismi direttivi o ai congressi del sindacato, in interventi in dibattiti sindacali, politici e culturali, ed infine nei comizi nel corso degli scioperi e delle manifestazioni sindacali. Occorre forse aggiungere che la ragione di ciò sta anche in un’idea della produzione culturale sospettosa di ogni forma di irrigidimento del pensiero, di definizione di “tavole della legge”, favorevole, invece, ad un pensiero plastico, orientato alla prassi, proprio partendo da un nucleo di valori e modi di riflessione non negoziabili quali l’irriducibilità del conflitto tra Capitale Lavoro. Di qui, quindi, la preferenza verso il dialogo, verso una forma di produzione culturale di stampo socratico. Il dialogo si basa ed è possibile come autentico scambio solo a partire dalla chiarezza e nettezza delle posizioni di ciascuno, solo a partire da lì anche i compromessi pratici non diventano una pericolosa palude, diceva Claudio. La palude, infatti, è pericolosa sia nelle relazioni individuali sia, a maggior ragione, in quelle collettive; in queste ultime, infatti, si degrada la democrazia tradendo il ruolo della rappresentanza e non si risolvono i conflitti preparando il terreno a situazioni incontrollate.
La prima intuizione è quella che riguarda il cuore stesso di un sindacato, la sua capacità cioè di contrattare e stipulare un contratto. A un certo punto Claudio giunge alla conclusione che il contratto nazionale, senza la possibilità per i lavoratori di approvarlo o respingerlo in una votazione democratica, è finito. Ciò che egli intende dire è che il contratto si svuoterà vieppiù di contenuti con il rischio di diventare un totem, senza alcun reale valore, cui sacrificare sostanziali elementi dell’autonomia del sindacato e della condizione di lavoro; il problema quindi che si porrà è quello della sua riconquista come contratto dell’industria e non di una sola categoria, realizzando così un elemento di unità. Tale conclusione è figlia di una vera riflessione critica sugli anni ’80 che concerne sia il sindacato sia il rapporto tradizionale di divisione del lavoro tra sindacato e uno o più partiti “laburisti”, siano essi socialisti, comunisti, come nella tradizione europea sia continentale sia inglese. La prima osservazione critica riguarda la teoria dello scambio. Già nel 1995 Claudio, dopo il nobile tentativo confederale del 1993, avvertiva i “suoi metalmeccanici” e tutto il movimento sindacale: “che siamo di fronte all’esaurimento della politica sindacale fin qui svolta e alla necessità di una nuova proposta strategica. La linea dello scambio, inaugurata all’Eur nel ’77, non ha più alcun spazio, per la semplice ragione che non abbiamo più nulla da scambiare. È necessario allora avere il coraggio di una innovazione radicale nell’analisi e nella proposta.” Poiché aggiunge: “Siamo a una svolta profonda di trasformazione radicale dei rapporti sociali e politici, che io credo abbia un significato non transitorio, poiché  punta non solo a un nuovo sistema istituzionale, ma anche a una diversa collocazione delle forze sociali in campo, a partire dal sindacato.”
Di qui il pericolo estremo di una situazione che mette in gioco: “la struttura dell’industria italiana in settori di punta, l’intero sistema contrattuale, l’esistenza stessa del sindacato”.
Ecco quindi il punto cruciale del suo pensiero, che è ancora del tutto attuale. La “politica dello scambio” tra contenimento salariale e occupazione, che non ha portato a nulla di positivo, si basa, infatti, sul riconoscimento del sindacato come istituzione sociale stabilizzatrice nell’ambito di politiche macroeconomiche che non sono più orientate né alla piena occupazione né alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici. In tale ruolo quindi il sindacato, qualunque sindacato, non può assolvere il suo compito di tutela e progresso del mondo del lavoro perché il suo potere di contrattazione è prima neutralizzato a livello centrale, per quanto concerne le dinamiche salariali, e poi progressivamente sterilizzato a livello settoriale e aziendale, per quanto concerne la condizione complessiva di lavoro. Non sfugge, infatti, a Claudio che, dopo Maastricht, L’Unione Europea sviluppa un processo d’integrazione produttiva, dominato dai grandi gruppi capitalistici produttivi e finanziari, che comporta continue ristrutturazioni dei settori e delle imprese e che l’architettura complessiva di tali accordi di scambio impedisce di affrontare con un punto di vista autonomo, basato sulla rappresentanza delle esigenze e delle volontà dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il sindacato quindi deve recuperare un potere che nasce solo dalla sua natura di coalizione sociale, basata sulla rappresentanza democratica e la militanza.
Il suo ruolo “istituzionale”, se possibile, è utile solo nel momento in cui nasce da una sua forza autonoma e non da deleghe del potere statale o dei partiti; in tal caso, infatti, il sindacato è in grado di diventare forza generale di cambiamento, di produrre, come è accaduto, reali “riforme” non solo per quanto concerne la regolazione sociale del lavoro.
Il sindacato quindi non può pensare solo a una “manutenzione straordinaria” degli assetti degli anni ’80 o alla ricerca di un “principe” amico.

Aporie della giustizia: Marx a lezione da Rawls

di Ernesto Screpanti

Una teoria “marxista” della giustizia incontra grandi difficoltà a criticare il capitalismo. Per questo bisogna fuoriuscirne cercando di porre la libertà a fondamento della giustizia. In questo modo, si evita anche il rischio di un governo universale della ragione imposto forzosamente.
 
“Le mie riflessioni prendono le mosse da una constatazione di fondo: il marxismo è uno straordinario edificio che, negli ultimi due o tre decenni, ha mostrato tutte le sue crepe, il suo invecchiamento, le sue difficoltà e le sue aporie. Perciò se si vuole provare a valorizzare quell’eredità è necessario impegnarsi in un processo di ricostruzione di lunga lena”. Così Stefano Petrucciani nel suo ultimo lavoro, A lezione da Marx: Nuove interpretazioni, Manifestolibri, Roma 2012, un libro bello e importante.
Ben sapendo che oggi chi si vuole accostare a Marx da marxista non può limitarsi a rileggerlo ma deve in qualche misura tentare di riscriverlo, Petrucciani mette in chiaro sin dalla prima pagina qual è lo spirito del suo approccio: critico, libero e impegnato. Critico, per evitare ogni forma di dogmatismo e scolasticismo; libero, per trarre profitto dai contributi più validi della filosofia contemporanea; impegnato, per rendere la teoria utile nella prassi politica.
Il pensiero comunista post-sessantotto ha modificato radicalmente i metodi e i temi della teoria critica rispetto ai canoni delle vecchie scuole di partito ma anche rispetto a quelli del “marxismo occidentale”, e ha dato vita a due grandi filoni di pensiero altamente innovativi: il marxismo analitico e il marxismo ermeneutico. Il primo filone affonda le radici nel contrattualismo e nell’utilitarismo di tradizione anglosassone, oltre che nel criticismo kantiano – radici che non sono del tutto estranee alla cultura dei padri fondatori, se si pensa che il giovane Engels individuava in Bentham la fonte filosofica del “comunismo inglese”, e che il giovane Marx almeno una volta ha civettato con l’imperativo categorico. Oggi convergono in questo filone studiosi come Roemer, Cohen, Elster da una parte e Habermas dall’altra. L’altro filone si riallaccia a una tradizione di pensiero realista che fu molto apprezzata da Marx, soprattutto nelle figure di Machiavelli e Spinoza. I marxisti che oggi si muovono in quest’ambito hanno fatto tesoro delle lezioni di Althusser (specialmente l’ultimo), di Foucault, di Derrida, di Ricoeur e di tutto il magma teoretico che ribolle nel mondo della filosofia post-filosofica.
I due approcci divergono radicalmente nelle impostazioni scientifiche e nei metodi di ricerca, tanto che sembrano costituire due paradigmi impossibilitati a comunicare nonostante il comune riferimento a Marx. Divergono anche nell’orientamento politico, ammesso che se ne possa enucleare uno comune a tutti gli esponenti di ognuno dei due approcci. Pur consapevole delle ire che mi attirerò con questa iper-semplificazione, direi che gli analitici propendono per strategie riformiste e gradualiste, gli ermeneutici per una prassi libertaria e radicale.
Petrucciani si colloca inequivocabilmente nel primo filone e anzi ne è uno degli esponenti più importanti, ché pochi come lui sono stati capaci di sviscerare e approfondire le implicazioni filosofiche dell’approccio. E ha molto da insegnare anche a chi non condivide quell’impostazione. In queste note vorrei tentare di rompere il muro d’incomunicabilità, se non altro per mostrare alcune idee che un comunista libertario può apprendere da uno in cerca di giustizia.
Petrucciani si pone il seguente problema: è possibile ricostruire il marxismo come teoria critica del capitalismo fondata su una dottrina universale della giustizia? Sa che se avesse rivolto la domanda a Marx avrebbe ottenuto una risposta negativa. Ma pensa che questa sarebbe un’incongruenza almeno parziale, ché in molte occasioni il Moro ha esibito atteggiamenti eticamente critici verso il capitalismo.
Prendiamo la teoria dello sfruttamento. I lavoratori lottano per rovesciare il capitalismo perché non vogliono essere sfruttati. Se lo sfruttamento è una forma d’ingiustizia, allora lottano per una causa morale? Lottano mossi da un interesse universale? Petrucciani sa che Marx, memore della teoria hegeliana dell’eticità e della connessa critica alla moralità kantiana, direbbe di no, direbbe che i principi di giustizia sono ideologicamente e storicamente determinati, che in un sistema capitalistico il salario “giusto” è quello determinato dal mercato e che non esistono classi universali.
Ma come si fa a fondare una vera critica al capitalismo come sistema d’ingiustizia sociale, se si cade nel relativismo etico? Petrucciani sostiene che i fondamenti morali della critica devono essere universali. Dunque si domanda: quale può essere una valida giustificazione etica della critica allo sfruttamento? Forse potrebbe essere una teoria basata sulle seguenti due proposizioni: 1) solo il lavoro crea valore, 2) solo il produttore di un bene ha titolo legittimo alla sua appropriazione. Senonché entrambe le proposizioni sembrano mal fondate in Marx.
La prima, secondo Petrucciani, è fallace in quanto è basata sulla teoria del valore-lavoro. Su questo punto però mi sembra un po’ precipitoso, e non perché questa teoria sia valida. Il fatto è che a volte Marx dà l’impressione di trattare la prima proposizione come un teorema e di usare il concetto di “lavoro contenuto” per dimostrarlo. Però la dimostrazione si risolve in una petizione di principio. Si dimostra che il plusvalore coincide con il pluslavoro perché si assume che il valore è “lavoro cristallizzato”. Allora tanto vale prendere quella proposizione come un assioma, invece che come un teorema. D’altra parte, se serve per fondare una teoria normativa, deve essere presa come un assioma. In quanto tale non ha bisogno di essere dimostrata. È valida per assunzione, qualunque sia l’unità di misura del valore, e quindi non è inficiata dai vizi analitici del valore-lavoro.
Più interessante la critica alla seconda proposizione. Richiamando argomentazioni elaborate da Gerald Cohen, Petrucciani suppone che essa potrebbe essere fondata su un principio di giustizia più profondo, quello che Robert Nozick, utilizzando un’idea di Locke, ha riformulato nei termini di un assioma di auto-proprietà: per diritto di natura ogni individuo è libero in quanto è proprietario di se stesso. Ebbene, la proprietà di uno stock implica quella del flusso da esso prodotto (il proprietario di un albero lo è dei suoi frutti). Quindi il lavoratore, se è proprietario del proprio “capitale umano”, ha titolo legittimo alla proprietà del suo prodotto e perciò è sfruttato se i capitalisti si appropriano del plusvalore. Ma c’è un problema. Il diritto di proprietà su una cosa implica, tra gli altri, il diritto alla sua alienazione. Dunque il lavoratore dovrebbe avere il diritto di vendersi come schiavo. Il ragionamento non fa una piega, tanto che Nozick, l’ultra-conservatore pseudo-libertario, non ha esitato a riconoscere che la propria teoria della giustizia deve ammettere la legittimità della schiavitù. Ora, che razza di critica universale allo sfruttamento capitalistico sarebbe una che legittimasse la schiavizzazione dei lavoratori?
Petrucciani conclude a malincuore che la teoria dello sfruttamento non può essere trasformata in una critica del capitalismo fondata su principi universali di giustizia. Qui però vorrei venirgli in soccorso. Le sue conclusioni negative derivano da due atti di generosità: quello di seguire Marx nel trattare la prima proposizione come un teorema e quello di seguire Locke nel fondare la seconda proposizione sull’assioma di auto-proprietà. Se fosse stato più cattivo, avrebbe riconosciuto che Marx sbagliava a credere di aver bisogno di dimostrare un teorema quando avrebbe dovuto limitarsi a postulare un assioma (il che, tra l’altro, ci avrebbe risparmiato tutta la farragine dialettica del primo capitolo del Capitale). Di Locke avrebbe potuto notare la fallacia del ragionamento che vorrebbe giustificare il principio di auto-proprietà: se uno schiavo non è libero in quanto appartiene a un’altra persona, allora un uomo è libero in quanto appartiene a se stesso. Ovviamente è un non sequitur, la conclusione corretta dovendo essere: è libero in quanto non appartiene a un altro.
La seconda proposizione però potrebbe essere fondata su un criterio di giustizia distributiva proveniente anch’esso, secondo alcuni, dal diritto naturale: il cuique suum, un principio che è presente in tutta la storia giuridica occidentale (si trova in Simonide, Platone, Aristotele, Ulpiano, Giustiniano, Tommaso, giù giù fino a Di Pietro, Berlusconi e l’Osservatore Romano). E si trova anche in Saint-Simon e Marx: a ciascuno secondo le sue capacità, almeno nella prima fase del comunismo. Dunque la critica moralista dello sfruttamento può essere fondata su una teoria universale della giustizia.

Marx e la giustizia, risposta a Ernesto Screpanti

di Stefano Petrucciani

Prima di lui la critica sociale si reggeva principalmente su un impianto moralistico. Ecco perché Marx ha segnato un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto.

Sono grato a Ernesto Screpanti per aver esaminato con tanta accuratezza e con una notevole acribia critica alcune questioni sulle quali ho provato a ragionare in un libro recente che ho intitolato A lezione da Marx. Questo titolo non sta a significare, come si potrebbe pensare, che io voglia rivendicare in modo un po’ acritico un valore imperituro della lezione marxiana. Vuol dire invece qualcosa di completamente diverso, e cioè che, se si ragiona seriamente e criticamente su Marx, si possono imparare moltissime cose, e si ricevono tanti stimoli che possono essere efficacemente fatti reagire anche con le discussioni più aggiornate della teoria sociale e politica del presente. Questo punto emerge perfettamente dalle considerazioni che Screpanti dedica al mio lavoro: Marx può dialogare con Rawls, Harsanyi, Sen e tanti altri, e talvolta può essere anche usato per muovere ad essi delle critiche molto precise. Da questi confronti emerge anche, e la cosa mi pare ben comprensibile, che le riflessioni di Marx sulle questioni della giustizia e della libertà sono molto meno sofisticate e assai meno articolate di quelle che si possono trovare nel grande supermarket del pensiero filosofico-politico contemporaneo. Questo per due ragioni. La prima è che, per fortuna, anche la ricerca teorica e filosofica (come quella scientifica) progredisce, e dunque è inevitabile che, a quasi duecento anni dalla nascita di Marx, l’apparato di concetti e di ragionamenti di cui disponiamo si sia notevolmente incrementato. La seconda ragione è che (su questo punto Screpanti e io concordiamo) Marx non era interessato a uno sviluppo sofisticato e “tecnico” di questi concetti, perché riteneva di avere cose più importanti da fare (studiare le leggi di movimento della produzione capitalistica) e perché era iperconvinto della sterilità di ogni approccio di tipo astratto e moralistico alla critica sociale.
Ed è proprio questo il vero nodo sul quale bisogna fermarsi a ragionare, e sul quale si misura anche la distanza che separa le posizioni di Ernesto Screpanti dalle mie. Per capirlo, Marx va contestualizzato; nei socialisti e comunisti premarxiani (anche in quelli da Marx apprezzati come Weitling, che nasce nel 1808, dieci anni prima di Marx, e pubblica le sue opere principali negli anni Quaranta) la critica sociale non si regge solo su un impianto moralistico, ma talvolta addirittura evangelico: Weitling, per esempio, sostiene che i suoi elementi di fondo sono tutti già contenuti nel principio cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Rispetto a simili prospettive Marx opera, come è evidente, un capovolgimento totale: ciò che conta è studiare “scientificamente” i meccanismi dello sfruttamento e dell’oppressione di classe e mettere in campo forme di conflitto organizzato che possano contrastarli. Questa rottura segna evidentemente un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne come orizzonte teorico delle loro lotte. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto; e questo occultamento, dal mio punto di vista, dà luogo a serissime aporie della teoria di Marx, delle quali penso che Screpanti sottovaluti sostanzialmente la portata. L’aporia di fondo, in sostanza, è questa: dalla descrizione di uno stato di fatto (il modo in cui funziona l’economia capitalistica, le contraddizioni e le miserie che produce ecc.) non si può ricavare alcuna prescrizione su come ci si debba rapportare ad esso. E poiché i testi di Marx sono pieni di esortazioni e di prescrizioni (per es.: abolire lo sfruttamento), non si sfugge al seguente dilemma: o queste prescrizioni si basano su una teoria prescrittiva o normativa sottostante (per esempio una implicita teoria della giustizia) oppure non si basano su nulla e dunque sono arbitrarie, e Marx non ha nessun titolo per formularle.

Movimenti e realpolitik

di Benedetto Vecchi

Il governo tecnico del professor Monti è la traduzione italiana di quel mutamento autoritario del sistema politico che vede la cancellazione dell’equilibrio tra il potere giudiziario, legislativo e esecutivo che ha caratterizzato, nel bene e nel male, la democrazia del lungo secolo alle nostre spalle. Antonio Gramsci avrebbe parlato di rivoluzione passiva. Più prosaicamente quello che si è consumato è l’adeguamento della forma Stato alla vocazione globale del capitalismo contemporaneo che ha nella finanza una forma inedita di governance dell’accumulazione di capitale.
Rimane inevaso il nodo della legittimità del potere esecutivo, visto che la sua fonte non è più solo nella volontà popolare, ma attinge nei vincoli degli organismi sovranazionali – la troika in Europa – o viene investito di autorità dalla mano molto visibile dei mercati. Dagli inizi della crisi economica si è dispiegata una controrivoluzione dall’alto che ha definitivamente svuotato la democrazia rappresentativa di ogni credibilità. È in questo contesto che il tema dei beni comuni si è imposto come tema politico, interpretati come l’ultimo argine a una radicale e irreversibile mercificazione della vita associata.
Questo l’ordine del discorso di molti movimenti sociali nel Nord e nel Sud del pianeta, ma anche di molti giuristi e economisti, premiati anche con il Nobel per il loro contributo intellettuale teso alla salvaguardia dei beni comuni (la statunitense Elinor Ostrom). Eppure, ogni analisi sui beni comuni risulta incompleta se è assente un’altrettanto articolata elaborazione dei rapporti sociali di produzione, a partire dalla eterogenea composizione del lavoro, composta da lavoratori della conoscenza, lavoratori manuali delle imprese dei servizi, operai ancora alla catena di montaggio e di quella costellazione a geografia variabile di lavoro e non lavoro, figure tutte accomunate dalla precarietà, eletta a norma universale per i rapporti tra capitale e lavoro.
I beni comuni non sono però un’oasi che rende accettabile il deserto del regime di accumulazione dominante. Sono semmai l’esito tangibile, anche nella sua forma digitale o «immateriale», di una cooperazione sociale e produttiva sottoposta allo stigma del lavoro salariato. La politicità di un discorso sulla espropriazione delle terre in India, Africa o sul diritto di accesso alla Rete o nel rivendicare la formazione permanente o nel criticare le norme sulla proprietà intellettuale sta proprio nello svelare l’arcano di come viene prodotta la ricchezza su scala globale; e di come l’accumulazione originaria è un atto che si rinnova ogni volta che il capitalismo si riproduce, allargando la sua zona di influenza. Può riguardare le terre espropriate dal complesso agroalimentare in Africa o quelle sottratte all’uso civico per costruire qualche grande diga, come è accaduto e accade in India o Cina; o come l’intelligenza collettiva viene «catturata» per diventare mezzo di produzione.

A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav*

di Centro sociale Askatasuna

Da oltre un decennio, pressoché l’intera comunità della Val di Susa è mobilitata per impedire la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità. In contrapposizione a media, partiti politici, forze dell’ordine e magistratura, un grande movimento di massa non cessa di crescere e, iniziativa dopo iniziativa, consolida la consapevolezza di poter vincere.
I militanti e le militanti del Centro sociale Askatasuna – insieme ad Alberto Perino, Lele Rizzo, Giorgio Rossetto, Nicoletta Dosio, Mario Cavarnia e molti altri protagonisti della lotta no tav – raccontano le ragioni di un movimento che ha saputo costruire una diversa cooperazione sociale, produrre un’altra scienza, un sapere alternativo, una coscienza capace di tradursi in resistenza di massa.
Oggi, il movimento No Tav interpella il senso di alcune parole della politica, declinandole con nuovi significati: cos’è un’«istituzione», quando essa assume il volto della repressione di un’intera comunità? Cos’è la «democrazia», quando il parere del «maggior numero» viene del tutto ignorato? Cos’è lo «sviluppo», quando l’infrastruttura proposta è mera speculazione? Cosa sono le «risorse», quando il Tav appare come un gigantesco e insensato consumo di risorse naturali?
Per le popolazioni della valle di Susa nel conflitto no tav è anzitutto in gioco un diverso modello di società, di economia e di politica. Un modello che già vive dentro le forme di una soggettività radicale e massificata che diventa punto di riferimento e proposta di metodo per un nuovo agire sociale e politico.

Un Assaggio

Non per principio, ma per la vita e l’esistenza stessa di un territorio, in Val di Susa ci si mobilita da più di un decennio per impedire la costruzione di una linea ferroviaria ad Alta Velocità. Si tratta di una comunità che ha consolidato un movimento di massa; contemporaneamente, la lotta no tav sta trasformando la comunità. Sono qui raccolte e presentate riflessioni e vissuti che provano a raccontare questa esperienza. Si vuole far conoscere il movimento osservandolo dal suo interno e allo stesso tempo ragionare sulle difficoltà e sulle possibilità future. In Val di Susa sta accadendo qualcosa di nuovo e inaspettato. In contrapposizione a quanto impongono media, partiti politici, forze dell’ordine, industriali, amministratori delegati delle imprese, cooperative di costruzione e magistratura, un movimento di massa cresce, confligge e, iniziativa dopo iniziativa, consolida la consapevolezza di poter vincere. Si tratta di un processo sovversivo perché cambia le aspettative, i comportamenti, concretizza una nuova legittimità e instaura diversi rapporti di forza. Alcuni protagonisti di queste lotte, come in un’assemblea, prendono qui la parola e intervengono sulle peculiarità e sulle prospettive di un movimento che progetta e costruisce per sé una diversa cooperazione sociale. Sono legami umani, sociali e politici che si radicano concretamente tra la popolazione di un territorio, caratterizzati e finalizzati a costruire e diffondere una contrapposizione, attiva e partecipata. Credenze, esperienze, saperi, scienza altra, coscienza antagonista e resistenza popolare si amalgamano e costruiscono una nuova cultura di parte che potenzia e motiva la lotta, modi di ragionare e di essere che insieme definiscono un punto di vista collettivo che sa contrapporsi, tenere e maturare. La contrapposizione è netta, definita, sostanziale.

L’euro, moneta tedesca*

di Maurizio Lazzarato

L’ordoliberalismo è sicuramente una delle innovazioni politiche principali che stanno all’origine della costruzione delle istituzioni europee. La logica della governamentalità europea sembra costruita sul modello ordoliberale. Il suo metodo di far emergere lo “Stato” dall’“economia” è applicato quasi alla lettera. È questa la ragione per cui si può affermare che l’euro è una moneta tedesca. Essa è l’espressione della potenza economica tedesca, ma occorre anche sottolineare che la potenza economica è inseparabile dalla riconfigurazione dello Stato come “Stato economico”, come “Stato sociale”.
L’euro è l’espressione di un nuovo capitalismo di Stato in cui è impossibile separare “economia e politica”. La propaganda dell’informazione e degli esperti ci fa capire quanto sia assurdo il progetto della moneta unica, dal momento che occorrerebbero un’autorità politica, uno stato (o un centro di potere assimilabile) e una comunità politica per legittimare e fondare una moneta. L’euro ha operato e opera in senso inverso, partendo dall’economia, da cui la sua inevitabile debolezza e fallimento. Questo punto di vista riproduce delle analisi del capitalismo di Stato del XIX secolo e non riesce a cogliere le novità presupposte e la dinamica del capitalismo di Stato della seconda metà del XX secolo inventata e praticata dagli ordoliberali. La costituzione è scritta dall’economia, come direbbe Schmitt, lo Stato è creato dall’economia, come direbbero gli ordoliberali.
I pro-europei alla Cohn-Bendit, per contro, vorrebbero farci credere che la moneta unica è una misura assolutamente originale di superamento dello Stato-nazione. In realtà, come i sovranisti, essi non colgono ciò che è in gioco con l’euro, ossia la costruzione di un nuovo spazio di dominazione e di sfruttamento del capitale. La governamentalità europea cerca di costruire uno spazio e una popolazione di dimensioni adeguate al mercato mondiale. Lo Stato-nazione non rappresenta più né un territorio né una popolazione in grado di realizzare questo progetto capitalistico.
Contro i sovranisti occorre dunque affermare che il metodo non è assurdo e, contro i pro-europei, che è un metodo di potere e di sfruttamento neoliberista, una strategia adeguata alle nuove condizioni del capitalismo di Stato. Un capitalismo di Stato neoliberista che cerca uno spazio diverso dalla Nazione, una “comunità diversa” dalla società nazionale per costituirsi. Le istituzioni europee seguono l’insegnamento degli ordoliberali: lo Stato non è un presupposto dell’economia (e della moneta), ma un loro risultato. Più precisamente, lo Stato è una delle articolazioni di questo nuovo dispositivo di potere capitalista che esso contribuisce fortemente a creare e a mantenere. Questo progetto non mira all’unità e alla coesione dell’Europa, alla solidarietà dei suoi popoli, ma a un nuovo dispositivo di comando e di sfruttamento e dunque di divisione di classe. [...]

Chi paga la crisi e chi ci guadagna

di Luigi Pandolfi

La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma, com’era facile prevedere, visti gli attori in campo, i temi veri, quelli che afferiscono al futuro del paese ed alla sua capacità di vincere le sfide che ha davanti, rimangono inspiegabilmente sullo sfondo.
E tra i temi veri, vale la pena ricordarlo, c’è quello che riguarda i nostri impegni con l’Unione europea e le sue strutture tecnico-finanziarie. Insieme a quello, correlato, della compatibilità del nostro diritto al futuro con le scelte finora compiute sul terreno della costruzione dell’Europa monetaria.
Nel luglio del 2012 il nostro Parlamento ha ratificato, in un clima che potremmo definire inerziale, due importanti trattati, quello sul Fiscal compact e quello sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).
Il primo impegna il nostro paese a ridurre il debito pubblico nei prossimi venti anni, fino a portarlo entro la soglia stabilita dal Trattato di Maastricht (60% del PIL). Considerato che il debito italiano ammonta ormai a circa 2000 miliardi di Euro, che in rapporto al prodotto interno fa il 127%, per raggiungere l’obiettivo del trattato bisognerà rastrellare circa 900 miliardi di Euro in venti anni, 50 ogni anno, 150 milioni ogni giorno.
Il secondo è riferito invece all’istituzione del cosiddetto “Fondo salva stati”, un plafone di 650 miliardi di Euro che l’Europa metterebbe a disposizione, previa accettazione di vincoli draconiani dal lato della riduzione della spesa, dei paesi a rischio bancarotta. Chi alimenterà questo portafoglio? Gli stati membri, in rapporto alla loro ricchezza (PIL). L’Italia ha dovuto sottoscrivere quote per il 18% dell’intero capitale, per un importo di circa 125 miliardi di Euro, da versare in 5 anni.
La prima domanda che sorge snocciolando queste cifre è questa: dove prenderà i soldi il nostro paese per onorare questi impegni? Stiamo parlando infatti di cifre vertiginose, tanto grandi da apparire immediatamente incompatibili con le disponibilità finanziare dello Stato, specie in questa fase etichettata con la parola “crisi”.
Evidentemente,come il governo dei professori ci ha anticipato, una parte dei quattrini necessari per “stare in Europa” dovrà venire da una contrazione significativa della spesa e da un inasprimento generalizzato della pressione fiscale, diretta ed indiretta. Ergo, meno servizi e tutele per i cittadini, meno stato sociale, più tasse. Con tutte le conseguenze, in termini di recessione economica e di crescita della povertà, che una simile spirale porta inevitabilmente con sé.
Ma questo non sarà sufficiente, perché oltre una certa soglia, nei tagli al welfare, non si potrà andare, pena l’annientamento della nostra società. E questo il Meccanismo di stabilità l’ha previsto, stabilendo che i paesi membri, per finanziare il “Fondo salva stati” potranno fare nuovo debito pubblico.

sabato 12 gennaio 2013

newsletter n.2 - rassegna

SELEZIONE
a cura della Redazione


di Luciano Gallino

l’agenda elettorale del professore bocconiano si guarda bene dal dover spiegare come intenda coniugare l’annunciata fase2, quella della crescita e del rilancio dell’economia, e la misura e i tempi  prescritti per la riduzione del debito pubblico italiano richiesti dal Trattato Europeo sulla Stabilità. Nella fattispecie l’art. 4, punto 2, comma c, prescrive delle condizioni capestro che se rispettate provocherebbero –come dice Gallino- “una generazione o due di miseria per l’intero Paese”. Ma anche il centrosinistra dovrebbe spiegarci le compatibilità del suo programma di crescita e sviluppo economico con il mantenimento degli impegni assunti con l’Europa, ricordandosi di avere già approvato la ratifica parlamentare del Trattato sulla stabilità in questione



di Fabio Milazzo

“nella storia dell’economia-mondo capitalista, i lunghi periodi di crisi, ristrutturazione e riorganizzazione- in breve, di cambiamento discontinuo- sono stati molto più comuni dei brevi momenti di espansione generalizzata lungo un ben definito percorso di sviluppo”. Lo stato di crisi della società capitalista è una sorta di condizione permanente, ovvero una costante che secondo Arrighi si manifesta come un “eterno ritorno” che -in particolare nella storia del XX secolo- ha accompagnato lo sviluppo del capitale. Su questa costante ci sembra opportuno rimarcare l’influenza decisiva della lotta di classe. L’eterno ritorno della crisi non va infatti inteso semplicemente come causalità di quelle sproporzioni cicliche oggettuali riequilibrabili "naturalmente" dalla legge di mercato. La crisi è stata ed è agita dalla conflittualità sociale dentro il rivolgimento autovalorizzante della soggettività antagonista nel corso dei suoi processi di scomposizione-ricomposizione. L’adozione dell’accumulazione flessibile, i cui esperimenti ristrutturanti hanno avuto inizio dalla fine degli anni 70,  è stata la risposta su cui la nuova razionalizzazione capitalistica ha giocato la partita per eternizzare lo status dominante, sottraendosi così dalla morsa del conflitto innervato nella produzione materiale dell’era fordista. La flessibilità è stata quindi la soluzione immaginata dal sistema di accumulazione oltre la legge del valore. Come dice David Harvey, si tratta di un nuovo regime che “gli attori politico-finanziari hanno escogitato per oltrepassare le rigidità di una crisi strutturale che rischiava di far collassare un certo ‘ordine delle cose’ ”



Ugo Marani e Nicola Ostuni

gli autori presentano un’analisi sulle mutazioni storiche della dinamica debitoria tra lo Stato e i suoi cittadini nella doppia veste di contribuente/creditore, partendo dall’evoluzione del rapporto fra Sovrano e Suddito, passaggio questo che contrassegna il trasferimento del carico delle garanzie sul debito sovrano dal monarca ai sudditi-contribuenti: "il re non offre più garanzie personali, ma, in favore di ciascun singolo banchiere-garante, impegna specifiche entrate dello stato”. Tuttavia fino a quando il debito statale veniva contratto con i propri cittadini-creditori i saldi di bilancio, mediante l’azione della leva fiscale sui cittadini-contribuenti, potevano mantenersi invariati, giacché coloro che percepivano una rendita più alta venivano colpiti da una tassazione aggiuntiva: “Introiti ed esborsi non sono altro che una partita di giro per i medesimi soggetti” (così come avviene ancora attualmente in Giappone, dove è fatto espresso divieto di contrarre il debito sovrano con creditori esteri. Per la cronaca ricordiamo che il debito pubblico nipponico è pressoché il doppio dell’Italia, eppure non c’è spread che tenga nel paese del Sol Levante). Nella determinazione storica in corso, dove la gran parte del debito pubblico nostrano è detenuto per la maggior parte da creditori-banchieri esteri “L’incremento dello spread e della sottoscrizione esterna rimane, quindi, un meccanismo, nell’ossessione del pareggio del disavanzo pubblico, doppiamente vessatorio: per i cittadini residenti che non detengono titoli la partita di giro interna è a duplice saldo negativo – introiti da cedola nulli ma tassazione negativa - sia rispetto ai detentori nazionali di titoli sia rispetto a quelli esteri”



di RADIO UNINOMADE

 “mi sembra che in Europa si riproduce la situazione di crisi di governabilità statunitense. Quello che succede in Italia, almeno visto da fuori, sembrerebbe confermare questa impossibilità di formare un governo che sia all’altezza della situazione. Anche questa strutturalità della crisi della governamentalità è uno degli aspetti di questa fase che stiamo attraversando, con tutti i problemi che restano sul tappeto, perché comunque il reddito reale sta diminuendo, la disoccupazione – sempre parlando dell’Europa – sta aumentando, si sta cronicizzando in un modo spaventoso. C’è distruzione di capitale, proprio nel senso classico della crisi, di know-how, di capacità di innovazione”



Questo non è un manifesto
di Nicolas Martino
nel segnalare il pamphlet di 112 pagine pubblicato da Michael Hardt e Antonio Negri, per i tipi della Feltrinelli (2012), proponiamo la breve recensione che ne porta il titolo apparsa su alfabeta2 e la presentazione del libro estratta dalle pagine online del sito dell’editore


Una recensione su David Harvey
di Redazione Connessioni
La crisi, per Harvey, è definita come una condizione dove c'è un eccesso di capitale che non è capace di trovare opportunità di re-investimento profittevoli. Se la crescita non riprende, allora il capitale sovra-accumulato è distrutto, per permettere alla accumulazione di ricominciare. La crisi è vista dall'autore come un processo di aggiustamento strutturale che razionalizza le contraddizioni del capitalismo


Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria
di Collettivo Uninomade
Quando diciamo che la Costituzione del 1948 è esangue e non restaurabile, ci trattano da nemici della patria. Recitate un De Profundis non solo di quella Carta ma della democrazia, ci ripetono. Davvero? Non sarà invece che proprio attorno al ripetersi di quelle difese (ormai puramente ideologiche) si consuma quel po’ di democrazia che resta in Italia?


Acciaio, servizi locali, finanza: il degrado del sistema Italia
di Vincenzo Comito
L’accaieria Ilva, la multiutility Hera, la Cassa Depositi e Prestiti hanno in comune una deriva pericolosa nei rapporti tra grandi imprese e territori in cui operano, tra potere economico e potere politico. Promemoria per una nuova politica industriale





 







Il baratro fiscale dell’Agenda Monti

di Luciano Gallino 

l’agenda elettorale del professore bocconiano si guarda bene dal dover spiegare come intenda coniugare l’annunciata fase2, quella della crescita e del rilancio dell’economia, e la misura e i tempi  prescritti per la riduzione del debito pubblico italiano richiesti dal Trattato Europeo sulla Stabilità. Nella fattispecie l’art. 4, punto 2, comma c, prescrive delle condizioni capestro che se rispettate provocherebbero –come dice Gallino- “una generazione o due di miseria per l’intero Paese”. Ma anche il centrosinistra dovrebbe spiegarci le compatibilità del suo programma di crescita e sviluppo economico con il mantenimento degli impegni assunti con l’Europa, ricordandosi di avere già approvato la ratifica parlamentare del Trattato sulla stabilità in questione

Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica.
L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce.
L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia.
Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio.
La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78).
L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti.
La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.

Giovanni Arrighi e l’eterno ritorno del Capitale

di Fabio Milazzo

nella storia dell’economia-mondo capitalista, i lunghi periodi di crisi, ristrutturazione e riorganizzazione- in breve, di cambiamento discontinuo- sono stati molto più comuni dei brevi momenti di espansione generalizzata lungo un ben definito percorso di sviluppo”. Lo stato di crisi della società capitalista è una sorta di condizione permanente, ovvero una costante che secondo Arrighi si manifesta come un “eterno ritorno” che -in particolare nella storia del XX secolo- ha accompagnato lo sviluppo del capitale. Su questa costante ci sembra opportuno rimarcare l’influenza decisiva della lotta di classe. L’eterno ritorno della crisi non va infatti inteso semplicemente come causalità di quelle sproporzioni cicliche oggettuali riequilibrabili "naturalmente" dalla legge di mercato. La crisi è stata ed è agita dalla conflittualità sociale dentro il rivolgimento autovalorizzante della soggettività antagonista nel corso dei suoi processi di scomposizione-ricomposizione. L’adozione dell’accumulazione flessibile, i cui esperimenti ristrutturanti hanno avuto inizio dalla fine degli anni 70,  è stata la risposta su cui la nuova razionalizzazione capitalistica ha giocato la partita per eternizzare lo status dominante, sottraendosi così dalla morsa del conflitto innervato nella produzione materiale dell’era fordista. La flessibilità è stata quindi la soluzione immaginata dal sistema di accumulazione oltre la legge del valore. Come dice David Harvey, si tratta di un nuovo regime che “gli attori politico-finanziari hanno escogitato per oltrepassare le rigidità di una crisi strutturale che rischiava di far collassare un certo ‘ordine delle cose’ ”

I Cicli di accumulazione del Capitale
“Crisi” è uno di quei termini che quotidianamente vengono fatti rimbombare nelle nostre orecchie e che, proprio per questo, spesso diventano “impercettibili” alle nostre strutture cognitive. Assumendo lo statuto di “rumore di fondo” non li si discrimina più percettivamente e cognitivamente.
Porre sotto attenzione questo “silenzio del rumore” equivale a significarlo, a riscoprirlo, ad indagarlo nelle sue componenti troppo spesso celate nelle pieghe dell’abitudine.
Crisi, capitalismo e finanza, sono termini che devono essere tratti fuori da quello stato di invisibilità dovuto alla “troppa visibilità”. Al pari della “lettera” di E.A.Poe queste parole ci si celano proprio perché ci stanno sempre davanti.
Quando Giovanni Arrighi, per anni docente di sociologia alla prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora, iniziò ad indagare l’oggetto “crisi economica”, le sue lenti di osservazione si diressero verso la stasi degli anni 70; questo nella consapevolezza che la comprensione del fenomeno passasse per un’analitica di ampio respiro che traesse fuori l’evento dalla contingenza per relazionarlo alla congiuntura di riferimento, quella del “lungo secolo XX”. La crisi veniva percepita come “il terzo e conclusivo momento di un singolo processo storico, definito dall’ascesa, dalla piena espansione e dal declino del sistema statunitense di accumulazione del capitale su scala mondiale(Arrighi 2003, p.9).
Un ciclo di sviluppo sul medio-lungo periodo destinato ad una implosione immediatamente preceduta da un periodo di “accumulazione finanziaria“. Quest’ultima fase si delineò chiaramente durante l’età del “Presidente attore”, Reagan. Arrighi, facendo sua la lezione braudeliana contenuta nei tre volumi di Civilisation matérielle, comprese che la finanziarizzazione del capitale non era una delle possibili soluzioni all’impasse economica degli anni 70 ma il suo esito scontato, così come avvenuto più volte in passato allorquando si delineava una ristrutturazione del ciclo. Il capitale finanziario segnala la transizione da un “regime di accumulazione su scala mondiale ad un altro.” (Arrighi 2003, p.10)
La ormai “classica” ricostruzione di Giovanni Arrighi, docente presso il Dipartimento di Sociologia di Baltimora, sviluppata nel fortunatissimo (e troppo poco letto) “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” (Il Saggiatore 2003), individua 3 fasi utili per spiegare le dinamiche entro le quali si situano le crisi economiche novecentesche: una prima fase, situata alla fine del XIX secolo coincide con il passaggio di supremazia dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti post Guerra di Secessione; una seconda fase, successiva al secondo conflitto mondiale, contraddistinto dall’espansione dei commerci e dalla conseguente accumulazione capitalistica; una terza fase, contraddistinta dal “capitale finanziario” in cui si dovrebbe definire la transizione ad un nuovo “stato di cose”.
L’espansione finanziaria, con il prevalere dei flussi virtuali di denaro cartolarizzato, a noi così tristemente attuale, rappresenterebbe non il momento eccezionale di un sisma che richiede costruzioni solide in grado di sopportare l’urto ma la normale fase di accumulazione finanziaria alla fine di quello che Arrighi ha definito un “ciclo sistemico di accumulazione”. Le attuali politiche di austerity, imposte dai tecnocrati bocconiani in Italia, non hanno, in tale ottica, alcun senso, visto che, secondo quest’ipotesi, siamo ad un passaggio di rotta: obbligato, necessario, strutturale. Non ha senso in una prospettiva di longue durée, lo ha in ordine al progetto di congelare i rapporti di forza strutturati in questo ciclo sistemico. In altre parole ciò che le attuali politiche economiche vogliono ottenere è l’ibernazione dell’insieme delle relazioni di potere così come si sono strutturate in questo ciclo. È  un tentativo disperato, perpetrato a spese delle conquiste sociali degli ultimi due secoli, di salvaguardare un certo ordine. Stiamo attenti: il problema non è quindi economico, non si tratta del capitalismo in quanto tale (qualsiasi cosa sia ha molto probabilmente i “secoli contati” per rubare la battuta di Ruffolo), oggetto dalla fisionomia vaga, quasi trascendente, ma politico, e quindi economico, solo che riguarda un ambito che non è più quello del governo degli stati ma della gestione del “sistema mondo”.
La tesi che anima Arrighi nel “Lungo XX secolo” è che “nella storia dell’economia-mondo capitalista, i lunghi periodi di crisi, ristrutturazione e riorganizzazione- in breve, di cambiamento discontinuo- sono stati molto più comuni dei brevi momenti di espansione generalizzata lungo un ben definito percorso di sviluppo [ …](Arrighi 2003, p. 17). Sono fasi che preparano “trasformazioni nell’organizzazione dei processi di produzione e di scambio” (p. 18). Senza peccare di faciloneria interpretativa direi, sulla scia di diversi autori (cfr. Sassen, The mobility of labor and capital: a study in international investment and labor flow, 1988), che la crisi è strutturale.
Queste trasformazioni ci sono sempre state, fanno parte della geometria del capitalismo fin dai suoi albori. Arrighi, hegelianamente diremmo, non sottolinea il contenuto contingente, storico, delle diverse crisi ma la struttura logica entro la quale queste (crisi) si ripropongono con cadenze ripetitive: un eterno ritorno dell’uguale.

Debito statale, debito sovrano, debito pubblico, debito dei cittadini

Ugo Marani e Nicola Ostuni[1]

gli autori presentano un’analisi sulle mutazioni storiche della dinamica debitoria tra lo Stato e i suoi cittadini nella doppia veste di contribuente/creditore, partendo dall’evoluzione del rapporto fra Sovrano e Suddito, passaggio questo che contrassegna il trasferimento del carico delle garanzie sul debito sovrano dal monarca ai sudditi-contribuenti: "il re non offre più garanzie personali, ma, in favore di ciascun singolo banchiere-garante, impegna specifiche entrate dello stato”. Tuttavia fino a quando il debito statale veniva contratto con i propri cittadini-creditori i saldi di bilancio, mediante l’azione della leva fiscale sui cittadini-contribuenti, potevano mantenersi invariati, giacché coloro che percepivano una rendita più alta venivano colpiti da una tassazione aggiuntiva: “Introiti ed esborsi non sono altro che una partita di giro per i medesimi soggetti” (così come avviene ancora attualmente in Giappone, dove è fatto espresso divieto di contrarre il debito sovrano con creditori esteri. Per la cronaca ricordiamo che il debito pubblico nipponico è pressoché il doppio dell’Italia, eppure non c’è spread che tenga nel paese del Sol Levante). Nella determinazione storica in corso, dove la gran parte del debito pubblico nostrano è detenuto per la maggior parte da creditori-banchieri esteri “L’incremento dello spread e della sottoscrizione esterna rimane, quindi, un meccanismo, nell’ossessione del pareggio del disavanzo pubblico, doppiamente vessatorio: per i cittadini residenti che non detengono titoli la partita di giro interna è a duplice saldo negativo – introiti da cedola nulli ma tassazione negativa - sia rispetto ai detentori nazionali di titoli sia rispetto a quelli esteri”

Le mutazioni del linguaggio, specie quelle terminologiche, sono, com’è ovvio, l’espressione di nuove idee e, talora, di nuove ideologie. E l’economia non è da meno.
È da tempo che i debiti nazionali non sono più denominati statali, come si usava fino a qualche decennio fa, quando essi erano argomento relegato dai giornali più nelle pagine politiche, che in quelle economiche. Il famigerato vol-au-vent di pomiciniana memoria distribuiva discrezionalmente generosi importi di finanziamenti statali, senza alcun riguardo al rapporto tra introiti e spese. Il debito era “dello stato” perché, causato dai suoi rappresentanti, doveva essere pagato dallo stato. Da quando la sua influenza travalica lo stretto ambito del rapporto tra prestatore e creditore, per invadere campi apparentemente lontani come i rendimenti complessivi del mercato finanziario e la fragilità del sistema bancario, termini come “sovrano” o “dei cittadini” hanno preso il sopravvento definitorio. L’accento della responsabilità dell’onere si è, di fatto, spostato non su chi lo contrae ma su chi lo paga. Non è una differenza, si badi, di poco conto.
In età moderna la garanzia degli interessi e della restituzione del denaro a coloro che lo prestavano non poteva essere affidata alle magre entrate di un bilancio pubblico che doveva fondarsi su gabelle e su qualche imposta diretta di un’economia di sopravvivenza. Il prestatore sapeva che le possibilità di godere della rendita del suo prestito e di ritornare in possesso del capitale erano legate alla potenza del debitore, alle sue conquiste militari. Se, attratto dalle prospettive di un’impresa che prometteva un ricco bottino, egli finanziava la costruzione, ad esempio, di una flotta, che avrebbe dovuto annientare il nemico o scoprire nuove terre, e che invece affondava miseramente, altro non restava che continuare a sostenere lo sfortunato sovrano, in attesa di una vittoria, che avrebbe riportato i conti in equilibrio. Il garante del prestito non poteva che essere il re, meglio un imperatore, che aveva altre possibili entrate. L’entità dei prestiti, quindi, spesso aumentava progressivamente fino alla restituzione o, come a volte accadeva, alla bancarotta[2].
I banchieri, sia per essere coadiuvati nello sforzo finanziario, che era reso sempre più gravoso dalla nascita di molteplici stati nazionali di potenza equivalente, sia per condividere il rischio, cominciarono a spezzettare o, come si direbbe ora, a spacchettare il loro credito distribuendone quote di scarsa rilevanza unitaria, ma globalmente consistente, ai privati. L’attribuzione di tali piccole quote era intralciata da un inconveniente non trascurabile: il prestito non aveva una data di scadenza e poteva avere una lunghissima durata, durante la quale il debitore corrispondeva solo gli interessi. Il piccolo prestatore, quindi, non era propenso ad accedere a un investimento, che avrebbe bloccato il capitale per un numero indefinito di anni. Da una parte, quindi, lo sforzo finanziario totale s’incrementava, dall’altra i finanziatori non potevano crescere proporzionalmente, poiché mancava la condizione necessaria per attrarre piccoli capitali in possesso di numerosissime persone.
Nasce così la borsa valori, che, in un primo tempo, contratta solo titoli pubblici[3]. Man mano che il giro dei prestatori si allarga, il rapporto di fiducia personale con il sovrano, lontano sia geograficamente sia socialmente, si fa sempre più labile ed è sostituito da quello con l’intermediario, cioè il banchiere, che finisce con l’essere il vero garante agli occhi del prestatore. Questi, a sua volta, è solo uno dei tanti, poiché i prestiti divengono sempre più cospicui, ad avere accesso a corte per trattare le condizioni dei prestiti. Più spesso ancora non è il re in persona che tratta; e neanche il banchiere. La garanzia non può più essere conseguenza di un rapporto, che, in realtà, è inesistente. Il debito, tuttavia, resta “sovrano” ma, a partire dal XVI secolo, il re non offre più garanzie personali, ma, in favore di ciascun singolo banchiere-garante, impegna specifiche entrate dello stato, specialmente gabelle, che intanto sono cresciute e diversificate. Il rapporto tra i creditori e i debitori, cioè coloro che pagano annualmente la gabella sulla quale i creditori dovrebbero soddisfare i loro interessi e il loro credito, è quindi, soltanto mediato dal banchiere. I veri garanti del prestito cominciano a essere i cittadini. Gli insiemi dei creditori e dei debitori, però, sono assolutamente separati, essendo i primi appartenenti al ceto dei privilegiati, specialmente chiesa e nobili, esenti dalla tassazione.