sabato 24 novembre 2012

Ken Loach: The show must-NOT- go on!

a cura di USB

FESTIVAL TORINO: LA VERITÀ SULLA VERTENZA DEI LAVORATORI ESTERNALIZZATI COOP REAR
“Ci dispiace comunicare che, per cause indipendenti dalla volontà del Torino Film Festival, Ken Loach non sarà presente per ricevere il Gran Premio Torino e che di conseguenza la proiezione
di The Angels’ Share è annullata”.
Queste poche parole hanno annunciato formalmente il mancato ritiro del premio assegnato dal Torino Film Festival al regista inglese Ken Loach

Il regista ha valutato quanto scrittogli alcune settimane fa da USB su una vertenza in corso a Torino ed ha deciso di solidarizzare con i lavoratori in lotta.
Un atto assolutamente condiviso da USB che ringrazia Ken Loach per la sua sensibilità e militanza e che conferma le posizioni intransigenti e coerenti di difesa dei diritti dei lavoratori del grande regista inglese.
Veramente inopportuni, invece, i commenti di tanta stampa italiana che, invece di preoccuparsi delle condizioni dei lavoratori, si affannano a condannare il comportamento di un uomo e di un regista che tanto nella vita quanto dietro la cinepresa non si è limitato ad affermare con forza e coerenza le proprie idee, ma ne ha sempre fatto seguire atti concreti e militanti.
Per quasi tutta la stampa, anche di fronte ai licenziamenti, alla precarietà, all’ingiustizia – peraltro abbondantemente presenti anche nel mondo dello spettacolo – the show must go on!



IL COMUNICATO DI KEN LOACH


"E' con grande dispiacere che mi trovo costretto a rifiutare il premio che mi è stato assegnato dal Torino Film Festival, un premio che sarei stato onorato di ricevere, per me e per tutti coloro che hanno lavorato ai nostri film.
I festival hanno l’importante funzione di promuovere la cinematografia europea e mondiale e Torino ha un’eccellente reputazione, avendo contribuito in modo evidente a stimolare l’amore e la passione per il cinema.
Tuttavia, c’è un grave problema, ossia la questione dell’esternalizzazione dei servizi che vengono svolti dai lavoratori con i salari più bassi. Come sempre, il motivo è il risparmio di denaro e la ditta che ottiene l’appalto riduce di conseguenza i salari e taglia il personale. È una ricetta destinata ad alimentare i conflitti. Il fatto che ciò avvenga in tutta Europa non rende questa pratica accettabile.
A Torino sono stati esternalizzati alla Cooperativa Rear i servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC). Dopo un taglio degli stipendi i lavoratori hanno denunciato intimidazioni e maltrattamenti. Diverse persone sono state licenziate. I lavoratori più malpagati, quelli più vulnerabili, hanno quindi perso il posto di lavoro per essersi opposti a un taglio salariale. Ovviamente è difficile per noi districarci tra i dettagli di una disputa che si svolge in un altro paese, con pratiche lavorative diverse dalle nostre, ma ciò non significa che i principi non siano chiari.
In questa situazione, l’organizzazione che appalta i servizi non può chiudere gli occhi, ma deve assumersi la responsabilità delle persone che lavorano per lei, anche se queste sono impiegate da una ditta esterna. Mi aspetterei che il Museo, in questo caso, dialogasse con i lavoratori e i loro sindacati, garantisse la riassunzione dei lavoratori licenziati e ripensasse la propria politica di esternalizzazione. Non è giusto che i più poveri debbano pagare il prezzo di una crisi economica di cui non sono responsabili.
Abbiamo realizzato un film dedicato proprio a questo argomento, «Bread and Roses». Come potrei non rispondere a una richiesta di solidarietà da parte di lavoratori che sono stati licenziati per essersi battuti per i propri diritti? Accettare il premio e limitarmi a qualche commento critico sarebbe un comportamento debole e ipocrita. Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni.
Per questo motivo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio".

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L’Unione Sindacale di Base ringrazia il grande artista cinematografico Ken Loach, che ha rifiutato il Gran Premio Torino conferitogli dal Torino Film Festival in solidarietà verso i lavoratori licenziati e vessati dei servizi esternalizzati per il Museo Nazionale del Cinema di Torino, gestiti dalla coop Rear.
L’USB, che aveva esposto a Loach questa realtà di sfruttamento, ritiene che tale gesto, che si pone in perfetta coerenza con l’opera dell’artista, abbia contribuito in modo determinante a mettere in luce la realtà di sfruttamento e precarietà a cui sono sottoposti dei lavoratori che svolgono servizi appaltati da una istituzione pubblica, proprietà della città di Torino.
Per rendere noti ed approfondire tutti gli aspetti relativi alla vertenza dei lavoratori Rear, anche in relazione alle affermazioni avanzate dal Presidente della cooperativa, Mauro Laus, che fra l’altro accusa l’USB di “strategia di tensione, denigrazione dei datori di lavoro e promesse impossibili ai lavoratori”, l’USB Lavoro Privato indice per domani, 23 novembre, una conferenza stampa a Torino, alla quale sono invitati tutti gli organi di informazione, che si terrà presso la sede sindacale di c.so Marconi 34, alle ore 12.00.
Nel corso della conferenza stampa verranno forniti atti e documenti relativi alla vertenza, incluse le sentenze di tribunale che dichiarano illegittimo il licenziamento dei lavoratori e condannano la società cooperativa Rear a versare un risarcimento.
 

 

Un anno dopo, Monti e a capo

di Rossana Rossanda

un’analisi politica che mette sotto le lenti della critica il bilancio del “governo tecnico” ad un anno dal suo insediamento fuori dal coro unanime della sua maggioranza trasversale, tutta intenta invece a tessere sperticate lodi per aver salvato l’Italia dalla deriva greca. La Rossanda prende le distanze anche dalle primarie della “sinistra” che si svolgeranno domani, chiamando in causa direttamente il leader di SEL:“Che cosa speri di ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro”. Ancor più desolante pensiamo sia lo scenario che si appresta a materializzarsi dopo le elezioni prossime venture. La pia illusione di mantenere assieme rigore dei conti e misure di crescita è stato il nodo su cui di fatto si sono arenati i governi di centrosinistra. Forse si spera che, dopo il lavoro sporco svolto dai tecnici e il passaggio di mano dell’esecutivo al Prodi di turno (Bersani?), alla nuova compagine di centrosinistra rimarrebbe solo il grato compito di rilanciare il ciclo virtuoso dell’economia con relativa crescita di profitti e salari? La Rossanda mostra chiaramente le debolezze dell’ipotesi, giacché le manovre montiane hanno lasciato pressoché inalterate le pessime condizioni in cui versa lo stato di salute del paese. Sarà difficile sottrarsi ancora una volta alle politiche dei due tempi: prima i sacrifici dopo (forse) i benefici

È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes.
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”, Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è aumento, crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika, cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes, senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e diritti. Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di lavoro (la Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era ovvio). Sarebbe stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente in feeling con la Confindustria. Il grimaldello per dare una botta decisiva al salariato, che si cercava di imporre già dagli anni ottanta del secolo scorso è stata la nostra competitività sui mercati, troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro (una volta si diceva lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per via dei salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno prospere, come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre fantasie a parte, sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra lavoratori e padroni venisse riportata per legge soltanto su scala aziendale, senza pari trattamento tra chi vende meno e chi vende di più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la Cina, sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di essere competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a migliore qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è il caso della Germania. Monti non segue la strada della sua amica Merkel e di qualcuno che la ha preceduta (perfino abbassando l’orario di lavoro), per cui oggi anche una povera diavola come me compra più volentieri una lavapanni tedesca, e non parliamo di merci di più elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo ripetesse Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di fatto che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio – perfino i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro ex rettore in casa sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è sconfessata una settimana dopo l’altra.

La lotta per la pace e la violenza della crisi

di Collettivo Uninomade
La crisi si approfondisce, accelera, blocca l’orizzonte e allo stesso tempo cambia continuamente i quadri di riferimento. É ormai chiaro a tutti che, nonostante i disperati tentativi di rassicurazione dei vari attori della governance, vie di uscita non se ne vedono. La novità della crisi odierna è che perde la sua forma ciclica e diventa permanente: in questa trasformazione, come abbiamo ripetuto più volte contro le illusioni di una sinistra incapace di ripensare perfino la propria funzione riformista, non ci sono soluzioni keynesiane lineari. Crisi permanente non significa di certo che sia prossimo il “crollo” del capitale: sono ipotesi che lasciamo volentieri ai teologi della storia. Ciò non toglie, però, che la crisi mostra una evidente incapacità del capitale di far funzionare il comune che il lavoro della moltitudine produce

Altro che spread, la vera emergenza è la disoccupazione

Domenico Moro

consulente Filmcams-CGIL l’economista prende spunto dal rapporto-BCE sul mercato del lavoro dell’eurozona, da dove emerge nettamente un tasso crescente della crisi occupazionale sia del dato relativo alla perdita del lavoro sia del relativo dato d'ingresso nel mercato. A fronte di un andamento strutturale della disoccupazione, ben lungi quindi dalle ciclicità congiunturali del passato, l’indicazione tracciata dall’autorità massima della banca centrale europea, l’altro SuperMario italico, è quella di proseguire il percorso “riformatore” (da noi bene interpretato dalla Fornero) e rafforzare la flessibilità salariale. In altri termini si tratterebbe di una ricetta volta a  “liberare” il mercato del lavoro, generalizzando la precarietà sociale, rendendo più selvaggia la competizione dell’offerta di lavoro (aumenti individualizzati contro un abbassamento del saldo complessivo della massa salariale oggi distribuita), evidentemente azzerando la rete di solidarietà conquistata attraverso le lotte operaie e sociali del secolo breve. Certo noi non siamo contrari alla riduzione dell’orario di lavoro, ma diversamente dal modello teutonico pensiamo ad una drastica contrazione del tempo necessario della produzione, liberando tempo-vita autonomo dal paradigma economico neoliberaliberista ed agganciato ad una politica distributiva della ricchezza che garantisca una redditività universale non mediata dalla produttività salariale

In Eurolandia la disoccupazione è strutturale…
La vera emergenza nell’area euro non è lo spread ma la disoccupazione. Lo ammette la Bce nel suo ultimo rapporto sul mercato del lavoro1, che rivela come un’elevata disoccupazione sia ormai una caratteristica strutturale dell’economia europea. Tra il 2008 e il 2011 l’Europa ha perso 4 milioni di posti di lavoro (-2,6%). Negli Usa la perdita è stata maggiore, ovvero di 6 milioni di posti di lavoro (-4,5%), pur a fronte di un medesimo calo del Pil (-5%). Ma mentre dopo il 2010 - quando entrambe le economie raggiunsero un tasso di disoccupazione del 10% - negli USA questo ha cominciato a diminuire, in Europa ha continuato a crescere. La disoccupazione dell’area euro in meno di tre anni è aumentata di due punti, passando dal 9,6% del 2009 all’11,6% del settembre 20122. Contemporaneamente, è aumentata anche la disoccupazione di lungo periodo3, che nel 2010 ha raggiunto il 67,3% del totale (7 punti più che nel 2008). Un segno evidente di quanto la disoccupazione non sia più un fenomeno congiunturale. I disoccupati nell’area euro dal settembre 2011 al settembre 2012 sono aumentati di 2milioni 174mila unità.

… ma “divergente” tra la Germania e quasi tutto il resto dell’area euro
Nel primo periodo della crisi in Germania e in Belgio la perdita di posti di lavoro è stata solo dell’1%, sebbene il calo del Pil fosse nella media europea, mentre in Irlanda è stata del 15%, e in Spagna e Grecia del 10%. Tra il 2009 e il settembre 2012 il tasso di disoccupazione in Germania è addirittura diminuito di più di due punti (dal 7,8% al 5,4%). Anche in Belgio è diminuito, sebbene di poco, come in Austria (dove, però, tra settembre 2011 e settembre 2012 è passato dal 4% al 4,4%). Invece negli altri Paesi, che rappresentano la maggioranza dei lavoratori europei, l’incremento è stato ben maggiore e qualche volta impressionante. L’Olanda passa dal 3,7% al 5,4%, la Francia dal 9,5% al 10,8%, l’Irlanda dall’11,9% al 15,1%, il Portogallo dal 10,6% al 15,7%, la Grecia dal 9,5% al 24,4%, la Spagna dal 18,1% al 25,8%. L’Italia passa dal 5,1% di inizio 2007 al 7,8% del 2009 al 10,8% del settembre 2012. Le previsioni per l’Italia riguardanti il 2013, secondo l’Istat, danno un ulteriore peggioramento, con la disoccupazione all’11,4%, a causa del contrarsi dell’occupazione e dell’aumento della disoccupazione di lunga durata4. Tale percentuale dovrebbe corrispondere a circa 3 milioni di disoccupati. In molti Paesi si è già raggiunto un tasso di disoccupazione da Grande Depressione.
In realtà, il tasso di disoccupazione5 non ci dice tutto sulla gravità della crisi occupazionale. In primo luogo, perché c’è la cassa integrazione e poi perché il totale dei disoccupati è rapportato a forze di lavoro6 che sono cresciute. In Italia, ad esempio si è passati dai 24,93 milioni di forze di lavoro del primo trimestre 2009, ai 25,73 milioni del secondo trimestre 20127. Si tratta di un aumento dovuto al fenomeno del cosiddetto “lavoratore aggiuntivo”, cioè all’ingresso nel mercato del lavoro di giovani e specialmente di donne che hanno in famiglia qualcuno che ha perso il lavoro, spesso il coniuge maschio. Secondo la Bce le cause della divergenza occupazionale tra i vari Paesi dell’Area euro sono dovute alla diversa struttura delle varie economie nazionali. Dove l’economia è molto orientata all’export, come in Germania, le imprese hanno tagliato l’orario ma non i posti di lavoro, in previsione di una ripresa del mercato mondiale. Dove la crescita economia si era basata soprattutto sul boom delle costruzioni, come in Spagna e Irlanda, lo scoppio della bolla immobiliare ha determinato una ristrutturazione permanente del settore. La Bce tace, però, sul ruolo svolto dall’introduzione dell’euro che ha oggettivamente avvantaggiato l’economia tedesca ed accentuato i processi di divergenza tra aree centrali e periferiche d’Europa. 

domenica 18 novembre 2012

La seconda volta di Obama

di Michael Hardt

dopo l’articolo pubblicato domenica scorsa sull’elezione di Obama di Jason Read (cortina-di-fumo-e-segnali-di-fumo.html), torniamo sulle vicende “a stelle e  striscie” offrendo la lettura di questo pezzo di Michael Hardt sulle prospettive dei movimenti Occupy, dai quali senza alcun dubbio il rieletto Presidente ha indirettamente tratto vantaggio, basti ricordare il tema centrale su cui s’è giocata la partita: la crescente povertà di massa a fronte della forte concentrazione di ricchezza nella mani dell’élite finanziaria sempre più famelica, cioè il tema del “99% contro l’1%” parola d’ordine che dall’esplosione di Occupy Wall Street ha attraversato tutti i movimenti su scala globale

Come molti hanno fatto notare, la rielezione di Obama ha visto la mobilitazione di un numero molto minore di attivisti, e a sinistra la campagna elettorale ha generato un entusiasmo e una speranza molto più modesti rispetto al 2008. Questo spiega, almeno in parte, un margine di vittoria così ridotto. I suoi sostenitori, oggi, non si sono più fatti inebriare dal sogno del cambiamento come avevano fatto dopo la prima vittoria, ma sono stati spinti dalla più sobria considerazione che l’alternativa sarebbe stata un disastro. E forse ora, paradossalmente, la rielezione di Obama potrebbe avere un effetto diretto più positivo sul fermento dei movimenti sociali antagonisti rispetto al primo mandato.
La vittoria del 2008 ha prodotto reazioni complesse e contraddittorie da parte dei movimenti negli Stati Uniti. Da un lato, l’imponente mobilitazione per la sua campagna elettorale e l’eccitazione seguita alla vittoria hanno portato, subito dopo l’insediamento, a un debole quanto rapido calo dell’attivismo. L’amministrazione Obama non ha dato spazio ai movimenti, al contrario, ha cercato di metterli a tacere. La prassi generale è stata quella di zittire la sinistra e negoziare con la destra, perseguendo una linea politica moderata e distante dalle ardenti speranze dei sostenitori di Obama. Ma oltre a mettere a tacere i movimenti, questa pragmatic strategy  ha fallito miseramente anche nel conseguimento degli obiettivi più modesti.
Peraltro, è facile supporre che tutti quei militanti che si erano impegnati così tanto per l’elezione di Obama, fossero restii ad attaccare il nuovo governo sul piano politico, nonostante il protrarsi della guerra in Afghanistan, la mancata chiusura di Guantanamo, le deludenti politiche sociali, e così via. Di conseguenza, ecco che gli anni successivi al novembre 2008 sono stati caratterizzati da un’attività piuttosto blanda dei movimenti sociali. D’altro canto, sono convinto che l’esplosione di Occupy Wall Street e degli altri movimenti Occupy che si sono diffusi nel resto del paese nel 2011, sia stata in larga misura partorita e supportata da una sorta di contraccolpo provocato dall’esperienza dell’elezione di Obama. La mia opinione è che molte delle persone che avevano riposto ogni fiducia in Obama per poi rimanere profondamente deluse dal suo operato, siano confluite nei movimenti di occupazione. Visto da questa prospettiva, il disincanto nei confronti di Obama ha innescato delle conseguenze decisamente positive. Passato l’innamoramento, e come per reazione, Occupy è diventato qualcosa in cui credere di nuovo.

sabato 17 novembre 2012

“Vik” Arrigoni, vivere per l’utopia”

di Angelo d’Orsi

Rallegratevi del fatto che sono pronto a qualsiasi destino,
perché vivere con ali recise non fa per me”
“Vik”
 
Non sentitevi sciocchi se, aprendo questo libro appena uscito (Il viaggio di Vittorio, di Egidia Beretta Arrigoni, Dalai editore, pagg.185,15, 00), sentirete gli occhi inumidirsi. Proseguendo nella lettura, sfogliando frammento dopo frammento la breve esistenza, intensissima e generosa, di Vittorio “Vik” Arrigoni, vi sarà difficile trattenere le lacrime. Del resto Vik non si vergognava di piangere, quando, sotto i bombardamenti israeliani su Gaza City, tra gli ultimi giorni del 2008 e i primi del 2009, puntando la videocamera, rinunciava alle riprese. “Ho scoperto di essere un pessimo cameraman”, scriveva, “non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non riesco, perché piango anche io”. Il lutto aleggia in queste pagine, giacché il lettore sa come andrà a finire: sa che il protagonista, un ragazzo che letteralmente si era dedicato alla causa degli ultimi, dovunque nel mondo, fu trucidato nella “sua” Gaza, il 15 aprile 2011.
Non sa, invece, il lettore, che tutta la breve vita di questo ragazzo (muore a 36 anni), fu dedicata ad alleviare le altrui sofferenze, in un viaggio che lo portò in Africa, nell’Est Europa, in America Latina, prima di giungere nel tormentato Medio Oriente, fermandosi infine in quel fazzoletto di terra, intriso di sangue, che sono i Territori palestinesi, sottoposti al pugno di ferro israeliano. Vik si è speso, in ogni modo, sempre pacificamente, sempre con uno sforzo volto non soltanto a testimoniare ma a operare concretamente: non volle mai essere un “cooperante”, un “osservatore”, e meno che meno un giornalista, sia pure solidale: fu uno di loro, volle essere operaio, pescatore, scaricatore, infermiere, cuoco…: volle essere vittima tra le vittime.
In una lettera alla mamma – che oggi è facile leggere come tragicamente profetica – scriveva, da Nazareth: “Percorro strade che rappresentano la nascita, il viaggio esistenziale, il miracolo, il calvario di un Dio che di queste terre sembra essersi scordato”. Lo faceva anche un pò per la mamma, cattolica osservante, donna impegnata come un pò tutta la famiglia, una famiglia il cui mondo, scrive Egidia, “non è mai stato un mondo chiuso individualista, egoista”. Lei, mossa proprio da una passione genuinamente politica, fuori dai partiti, si impegnò nel sindacalismo e nell’associazionismo, in quel di Bulciago, il paese della Brianza, dove si erano trasferiti gli Arrigoni, da Besana, borgo non lontano, dove Vik era nato nel 1975). E nel 2004 divenne sindaco, confermata nel 2009: Vik ne era orgoglioso, quanto lei era orgogliosa di suo figlio, sia pure con le apprensioni di una mamma, apprensioni, purtroppo, più che giustificate. Ma sia allora, sia ora che Egidia si è posta a riordinare i ricordi, e a tentare di renderli pubblici, non c’è amarezza, nel racconto; solo dolore, filtrato sempre da una serenità che giunge alla penna dell’autrice dalla sua fede religiosa e, soprattutto, alleviato dalla consapevolezza che quel ragazzo era stato sempre dalla parte giusta, dalla parte di quegli ultimi di cui il Cristo volle essere interprete e salvatore.
Uno dei tanti episodi che ci regala Egidia Arrigoni, riguarda una foto di papa Ratzinger che in visita in Africa sfoggia un paio di meravigliose scarpette rosse firmate Prada. Vik la pubblicò, mettendole accanto l’immagine di un Gesù in croce, con i piedi trafitti, e ancora, un africano scalzo, e commentò: “Viene da pensare che se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri dell’Africa avere accesso al Paradiso?”. Fu più volte arrestato, malmenato al limite della tortura dagli israeliani, che lo espulsero e lo dichiararono persona “non grata”. Ai suoi aveva scritto: “Rallegratevi del fatto che sono pronto a qualsiasi destino, perché vivere con ali recise non fa per me”. Non era, insomma, Vittorio Arrigoni un ragazzo qualunque: la mamma rifiuta appellativi roboanti, da eroe a martire, ma a me piace invece esattamente riproporli, con assoluta convinzione. Se non è stato un eroe Vik, un eroe inattuale quanto necessario, di questi tempi orribili, chi lo è? Quanto al martirio non v’è alcun dubbio. Ve ne sono invece, e forti, su chi abbia organizzato il suo assassinio: che significa anche chiedersi a chi poteva giovare la morte di un militante pacifico della causa di quegli ultimi, che, dal 2002, furono i palestinesi. Le pagine sulle giornate di aprile 2011, quando si affastellano le notizie sulla cattura e poi l’assassinio di Vik sono strazianti. L’intera nazione palestinese lo pianse, onorando come un fratello caduto nella lotta comune lui che, però, a differenza di loro, aveva scelto quel destino, in nome di valori che percepiva come imperativi. Scrisse l’ebreo dissidente, scrittore e militante contro le demolizioni delle case palestinesi, Jeff Halper, che con Vik condivise molte battaglie: “Tu eri e sei la forza terrena della lotta contro l’ingiustizia”. Non v’è molto da aggiungere; se non l’invito a leggere il libro (i proventi sono destinati alla Fondazione Vittorio Arrigoni – Vik Utopia).

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giovedì 15 novembre 2012

Pechino a congresso

di Simone Pieranni

uno sguardo sintetico sulle vicende politiche caratterizzanti l’appena conclusosi congresso del PC cinese. Come da tradizione -senza soluzione di continuità- in perfetto stile emmelle, la “Linea nera” e la “Linea rossa” si sono scontrate per l’egemonia dentro il partito-stato. Solo nei prossimi giorni si potrà comprendere quale delle due linee sia prevalsa, in relazione soprattutto alle strategie economiche, andando ben oltre l’equilibrio istituzionale formalmente sancito dall’assise pechinese. Non v’è dubbio che i nuovi assetti del partito-unico avranno un’influenza determinante sia nel mercato interno sia nel quadro dei processi globalizzati, da quelli economici e politici a quelli ambientali

In Cina s’è concluso ieri (ndr) il diciottesimo Congresso del Partito Comunista. Si tratta di un evento storico per diversi motivi: in primo luogo per il passaggio dalla quarta alla quinta generazione di leader. Dai tecnocrati, il potere passa nelle mani di politici che hanno vissuto la Rivoluzione Culturale in modo spesso tragico, o da guardia rossa o da figlio di perseguitato politico, che hanno studiato in Master internazionali e che si ritrovano a gestire la seconda potenza economica mondiale, in un clima di crisi globale. È storico anche perché per la prima volta nella sua vita il Partito è arrivato al Congresso dopo una feroce battaglia interna, diventata pubblica dopo la clamorosa caduta, epurazione e infine espulsione di Bo Xilai.
L’ex leader di Chonging è stato capace di attirare intorno a sé una frangia di opinione pubblica, intellettuali e funzionari definiti «neo maoisti», creando un grave problema per Pechino, sempre più orientata a una gestione collegiale, collettiva, e poco propensa a un ritorno al passato maoista. Bo Xilai, a seguito di uno scandalo che ha coinvolto anche la moglie condannata all’ergastolo per l’omicidio di un britannico, sospettato di essere una spia, è stato epurato come nelle migliori tradizioni del Partito, accusato di violazioni disciplinari e altri crimini.
Secondo molti osservatori il suo siluramento politico è stato dovuto anche alla creazione da parte del «principino rosso» del cosiddetto «Modello Chongqing»: una forma di sviluppo capace di attrarre investimenti stranieri, molti strappati a Pechino e Shanghai, e una politica sociale fatta di alloggi popolari, sostegno alle fasce più povere con un intervento massiccio dello Stato, unite a una retorica e nostalgia maoiste e a una feroce campagna contro le triadi locali. «Canta il rosso picchia il nero» è il motto di Bo Xilai, capace di crearsi un seguito popolare come nessun altro attuale leader cinese. Troppo ego per i burocrati pechinesi.

Perché Toni Negri? Intervista sull’America Latina e "dintorni"

di Veronica Gago/Diego Sztulwark

Toni Negri è un visitatore frequente e appassionato dell’Argentina e dell’America latina. Dopo una conferenza a Buenos Aires (Universidad de Avellaneda), ha partecipato al IX Coloquio Internacional Spinoza (Universidad Nacional de Córdoba, per proseguire il suo cammino in Ecuador e Colombia. Nell’ultimo decennio, infatti, questo continente gli sembra uno spazio di sperimentazione politica che merita essere seguito da vicino. Dai movimenti sociali ai governi che seguirono i momenti di crisi nella regione, Negri dispiega un’interpretazione di una relazione che è stata virtuosa e che si trova oggi messa alla prova da una sorta di stabilizzazione. Possiamo sintetizzare in questi termini la domanda che avverte come fondamentale: come fare in modo che i servizi del benessere sociale – o welfare (dai sussidi ai servizi sociali) non siano meramente concepiti dall’alto, ma piuttosto sostenuti e valorizzati come retribuzione di un valore sociale di cooperazione dopo essere stati conquistati dalle mobilitazioni popolari? Nella concezione negriana, neoestrattivismo, moltitudini e moneta del comune s’intrecciano per pensare le nuove forme della produzione e lo scontro determinato dal comando del capitale finanziario

d. Alcuni anni fa proponevi un’ipotesi per comprendere la situazione politica in Sudamerica: dicevi che c’era un attraversamento dello Stato da parte dei movimenti sociali. In questo modo, il potere costituente dei movimenti poteva svilupparsi, seppure in modo conflittuale, all’interno del potere costituito. Oggi parli di stare “dentro e contro” lo Stato. Come leggi attualmente questa relazione tra potenza popolare e Stato?

r. Credo che quando si dice “dentro e contro” si fa una affermazione metodologica che deve essere sempre confrontata con le determinazioni concrete. Non è che “dentro e contro” significhi sempre la stessa cosa, si tratta piuttosto di adottare una prospettiva da cui guardare le cose. Ho l’impressione che, sia dal punto di vista della gestione economica sia di quella politica, si è assistito, negli ultimi anni, a un relativo deterioramento della situazione iniziale che aveva preso forma dopo il 2001 e che era una situazione effettivamente rivoluzionaria. Dal punto di vista economico, c’è stato un mutamento con il primo governo di Néstor Kirchner: si ha una ripresa produttiva che assume come base la produzione sociale nel suo significato ampio e si produce uno scontro con i diktat dei mercati che si sostiene grazie all’esperienza di resistenza del periodo precedente. Questo primo momento è effettivamente molto importante nella misura in cui prende la forza dei movimenti piqueteros, delle occupazioni delle fabbriche, delle organizzazioni di quartiere come base dello stesso ampliamento del terreno della produzione sociale, senza rinchiudere quelle esperienze in un’interpretazione puramente ideologica. Questo elemento nuovo della produttività sociale insorgente è la forza che riesce a rappresentarsi in un processo istituzionale effettivo che ha come spazio definito la nazione. In questo senso, il potere politico nazionale concretizza l’effettiva necessità di avere un punto di riferimento centrale per far fronte ai mercati e alle loro manovre monetarie. Da questo punto di vista, per esempio, la rinegoziazione del debito e le trattative con il Club di Parigi sono state un momento di riqualificazione della trama istituzionale della democrazia argentina rispetto agli schemi ereditati dal peronismo tradizionale, tenendo in conto le mutazioni nel tessuto sociale.

d. E che impressione hai di quello che è successo dopo?

r. Dal punto di vista economico sembra che ci sia stata un’accelerazione verso l’estrattivismo che ha trovato impulso nell’affare della soia, consolidando la struttura del rapporto con le grandi imprese multinazionali. Sicuramente lo scontro con il “campo” ha avuto a che vedere con tutto questo. Da questo punto di vista, mi sembra che ci sia stata una stagnazione e un forte tentativo di centralizzare il potere da parte del governo. L’estrattivismo non è solo un fatto economico. Non si tratta solo di discutere se può essere utile concentrare la produzione su certi prodotti, ma anche di tenere presente che esso funziona come una negazione effettiva di una democratizzazione economica, nel senso che nega una produttività sociale generalizzata. Quindi la domanda è come fa il modello attuale a garantire un effettivo regime di welfare (benessere) in Argentina. Ho l’impressione che le politiche sociali – come succede per esempio in Venezuela – adottino sempre più le sembianze di concessioni date al popolo, anziché essere proposte come prodotto di una mobilitazione generale produttiva alla quale corrisponde un welfare effettivo.

d. Come funziona, dunque, il “dentro e contro” allo Stato in questo contesto?

r. Consiste nell’uso dello Stato, per dirla così, all’interno dello spazio globale dei mercati, ponendo al centro il problema fondamentale della democrazia che non è tanto il problema della libertà, ma quello della produzione. Intendo dire che è al livello delle condizioni materiali della produzione che, essenzialmente, si gioca la realizzazione della democrazia e la conquista di nuove libertà.

d. Come credi che altri paesi dell’America latina maneggino questa relazione tra neoestrattivismo e welfare? Pensiamo a esperienze tanto importanti come il Venezuela e il Brasile.

r. Abbiamo già accennato a ciò che succede in Venezuela. Non so se si può chiamarlo welfare, però troviamo lì, senza dubbio, una diffusione di servizi alle comunità con un significativo salto politico e tecnologico che si è prodotto grazie all’appoggio cubano (medici, maestri, ecc.). È stato qualcosa di molto importante, nella misura in cui si è prodotta una crescita delle aspettative di vita. Tuttavia una vera democratizzazione della società deve far fronte a molte difficoltà. Per esempio, i problemi che si sono avuti con le misiones, al tempo stesso in cui si andava formando una nuova borghesia tanto attiva come rapace. Ho un giudizio più positivo sul processo brasiliano, che fa i conti però con condizioni eccezionali dal punto di vista delle risorse naturali e sociali. C’è in effetti una situazione decisamente fortunata, ma non ci sono dubbi che la politica di Lula è stata effettivamente capace di far partecipare tutti allo sviluppo, configurando una società aperta, in termini democratici e produttivi. Lula ha dispiegato una lotta di classe continua, contro una borghesia e un settore capitalistico forti e di grandi capacità, e ciò comporta problemi enormi.

d. Il Brasile ti sembra un modello?

r. Non so se queste lotte possano darsi allo stesso modo in altri luoghi. Non credo che la sua politica sia un modello. Però in questi giorni m’interrogavo sull’enfasi del discorso ufficiale del governo argentino sulla battaglia con il gruppo Clarín. Lula ha dovuto fronteggiare l’enorme portata della televisione brasiliana e non ha fondato un solo giornale, appoggiandosi piuttosto sulla capacità di intervenire sugli altri settori, vale a dire su una politicizzazione di base prodotta da grandi movimenti, come MST e i movimenti delle favelas che sono stati estremamente importanti.
La situazione argentina non sembra mostrare oggi la capacità di ricreare movimenti sociali di tale magnitudine, anche se conservo molti dubbi al rispetto. In ogni caso mi pare che il problema della democrazia si ponga oggi con estrema chiarezza in America latina, che pertanto non può più essere pensata come un territorio periferico ma che al contrario costituisce, per molti aspetti, uno scenario centrale per tutti noi.

d. In gran parte dell’America latina l’estrattivismo convive con una retorica contraria al neoliberalismo, anche se ci sono una serie di pratiche sociali che funzionano secondo logiche di appropriazione neoliberali. Come valuti queste sfasature?

r. Credo che quando lo Stato si pronuncia contro il neoliberalismo dice una menzogna. Esistono tutta una serie di accordi specifici con le multinazionali. È un pò quello che è successo qui dopo il conflitto con il campo. Nel quadro che sorge da questi accordi agiscono le imprese multinazionali e le imprese cooperative che sono immerse in una logica capitalistica. Questi governi sono contro il neoliberalismo? Forse sarebbe meglio dire: sono contro le estreme conseguenze del neoliberalismo, che sono quelle di annullare il welfare. Però queste sono estreme conseguenze.

martedì 13 novembre 2012

Quelle liberalizzazioni incostituzionali

di Lorenzo Dorato

“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”(COST  comma 3, art. 41), così recita la carta fondamentale del nostro ordinamento giuridico col chiaro intento di limitare i principi economico-liberisti dettati dalle “regole di mercato” e dalla “legge del profitto”. La predominanza dell’interesse sociale sull’iniziativa privata viene esplicitamente rafforzata con i successivi artt.42 e 43, i quali sanciscono la legittima sottrazione alla libera concorrenza dei settori economici ritenuti strategici allo sviluppo della società. Al di là delle politiche economiche perseguite negli ultimi decenni da governi sia di centrodestra sia di centrosinistra, volte allo smantellamento dell’apparato produttivo pubblico e alla riduzione progressiva del welfare-state, non v’è dubbio che questi  fondamentali giuridici sono entrati -quanto meno sul piano formale- in conflitto con i diktat normativi dell’UE, soprattutto dopo l’adozione dell’euro come moneta comunitaria che ha invertito il principio della regolamentazione dell’attività imprenditoriale, facendo prevalere i fini economici su quelli sociali. Nel merito è infatti perentoriamente intervenuta la CE allorquando rivendica: “un crescente numero di attività un tempo erogate come servizi sociali ricadono oggi nella sfera delle norme della Commissione Europea nella misura in cui sono considerati servizi di natura economica”. La dicotomia tra le due fonti è il nodo su cui ruota l’intervento di Lorenzo Dorato, ricercatore dell’Università di Roma Tre. In sostanza, sarà mai possibili continuare ad essere europei e rendere reversibile la supremazia della troika, cercando di armonizzare a un livello più alto le fonti gerarchicamente apicali, guardando più ai bisogni della comunità sociale piuttosto che alla comunità economico-finanziaria?     

Gli obiettivi di liberalizzazione dei mercati (e in subordine logico quelli di privatizzazione) - definiti a partire dalle direttive dell’Unione europea della fine degli anni ‘80, principio anni ‘90 - si sono imposti come preminenti rispetto ad altri obiettivi di politica industriale ad essi divenuti subordinati, a scapito così di quella flessibilità discrezionale e di quegli ampi margini di manovra che avevano caratterizzato l’approccio delle politiche pubbliche di intervento nei sistemi produttivi nel trentennio immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (e in parte già dagli anni ’30 del novecento).
Il paradigma liberista, posto come unica opzione possibile, ha eroso in maniera sistematica e progressiva i margini di flessibilità delle politiche industriali degli Stati nell’orientamento dei sistemi produttivi nazionali (erosione, va detto, avvenuta di fatto in forme asimmetriche tra paese e paese, segno di una chiara gerarchia nei rapporti di forza). Si è trattato di un vero e proprio sconvolgimento paradigmatico che ha radicalmente mutato il ruolo dello Stato nella sua capacità di intervento nelle dinamiche del sistema produttivo. Da uno Stato interventista, pensato come governatore dei processi economici a garanzia di obiettivi politici e sociali, si è giunti ad uno Stato regolatore del mercato e del libero gioco della concorrenza. La regolazione ha sostituito la programmazione. E così si è consumato un radicale contrasto tra la concezione di governo del sistema economico che emerge dal dettato costituzionale italiano e la concezione che invece prescrive la normativa comunitaria.

La Costituzione economica italiana e il rapporto tra Stato e sistema economico
Il testo costituzionale italiano, nella parte inerente ai rapporti economici, contiene tre preziosi articoli che definiscono i tratti essenziali del rapporto tra Stato e sistema economico-produttivo: gli articoli 41, 42 e 43.
L’articolo 41 è il più noto e forse il più significativo, specie per il suo terzo comma, che non a caso è da alcuni anni oggetto di attacco politico da parte dei governi (seppur a fini probabilmente più simbolici che pratici). Tale terzo comma recita: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Questa breve proposizione fu il risultato di un compromesso assai sofferto all’interno dell’assemblea costituente e rispecchia in maniera chiara l’insieme delle componenti culturali e ideologiche maggioritarie nell’immediato dopoguerra italiano: le componenti socialiste e comuniste e il cattolicesimo sociale rappresentato da una parte della democrazia cristiana. La traduzione sostanziale di questo terzo comma è stata la politica economica e industriale adottata dall’Italia dagli anni cinquanta alla fine degli anni settanta del secolo scorso, imperniata sul concetto cardine di programmazione economica.
A ben vedere nella Costituzione italiana non appare mai il termine “concorrenza”. La concorrenza e il libero mercato non vengono cioè trattati come valori in sé da difendere, essendo considerate implicitamente null’altro che modalità specifiche (e non univoche) di funzionamento di un sistema economico. Al contrario si fa esplicito richiamo al termine “programmazione” che, unito al riferimento al “coordinamento a fini sociali” descrive in maniera chiara l’ispirazione sostanziale della politica economica nazionale nel primo trentennio post-bellico. Tale programmazione, stando al dettato costituzionale poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza affidando ad esempio (Art. 42 e 43 Cost.) l’esclusiva della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale).
Nella sostanza, la struttura consolidata nel periodo ‘50-‘80 del capitalismo italiano era tale che la libera concorrenza riceveva quattro forme di limitazione forte:
1-         una limitazione esterna dovuta al fatto che l’economia nazionale era un’economia parzialmente chiusa con limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci;
2-         una restrizione interna della concorrenza legata a vincoli normativi piuttosto intensi ricadenti su diverse attività economiche: limiti spaziali e numerici all’apertura di esercizi; obblighi di servizio pubblico; minimi e massimi tariffari; prezzi imposti; norme deontologiche per le professioni;
3-         un’alterazione-attenuazione della concorrenza dovuta all’azione pubblica nel mercato a fini strategici e sociali tramite: sussidi di Stato; sistema delle partecipazioni statali; vincoli alle importazioni ed esportazioni; politiche di commesse pubbliche;
4-         la vera e propria eliminazione della concorrenza tramite l’instaurazione di monopoli pubblici nei settori ritenuti particolarmente sensibili o strategici (imprese nazionalizzate e municipalizzate).
Laddove non eliminata (tramite il monopolio legale), la concorrenza nell’ordinamento economico italiano, agiva, quindi, per lo più come forza istituzionalmente limitata, proprio al fine di evitare alcuni fenomeni ritenuti indesiderabili quali: l’eccessiva concentrazione del capitale (favorita proprio dall’azione della competizione libera); la perdita di professionalizzazione dei mestieri; determinate forme di destabilizzazione del sistema economico; la denazionalizzazione del capitale. Più che una forza da incentivare, la libera concorrenza veniva quindi intesa dal legislatore e dalla cultura politica egemone al tempo come una forza potenzialmente destabilizzante, fonte di squilibri e disuguaglianze che andava in ogni caso, se non corretta, comunque incanalata in un’ottica di programmazione economica ispirata a fini generali.

Fondamenti normativi del processo di liberalizzazione
Questa logica viene poco a poco stravolta tra gli anni 80 e il principio degli anni 90 sulla scorta dei mutamenti legislativi avviati dalla comunità europea. I fondamenti normativi del processo di apertura al libero mercato nella normativa comunitaria, vanno rintracciati su due livelli: un livello che impone la liberalizzazione verso l’esterno (tra le diverse economie nazionali dell’UE) e un livello che monitora e indirettamente impone una liberalizzazione all’interno dei paesi. I due livelli sono profondamente intrecciati poiché i provvedimenti interni trovano un senso proprio nella misura in cui restrizioni normative della concorrenza interne all’economia nazionale hanno immediate conseguenze sulla libera circolazione di merci e capitali da un paese ad un altro e violano pertanto i trattati comunitari.
Il primo passo deciso verso la piena liberalizzazione dei mercati verso l’esterno è avvenuto con l’Atto Unico del 1987 basato sul libro bianco del 1985 per il completamento del mercato unico. Si tratta di un passaggio decisivo che segna la definitiva transizione da una strategia di integrazione dei mercati positiva ad una strategia negativa. Nella prima, la creazione di un mercato unificato avviene sulla base dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali, al fine di creare regole comuni entro cui far operare la concorrenza. Nella seconda l’ordine logico si inverte poiché prioritario su tutto diventa la rimozione di ogni barriera alla concorrenza e l’armonizzazione legislativa diviene una chimera successiva (mai realizzata in oltre vent’anni).
L’Atto unico pone le basi per la vigenza del “principio del paese di origine”, per cui ogni bene e servizio prodotto nelle diverse nazioni dell’UE deve assumere un passaporto europeo, ovvero essere ammesso nei mercati degli altri paesi membri indipendentemente dalle norme legislative e salariali del paese produttore. Il che significa automaticamente concorrenza a ribasso tra paesi sulle norme fiscali e quelle concernenti il diritto del lavoro per far fronte alla concorrenza nella vendita dei prodotti. Dall’idea di una concorrenza tra imprese in un unico mercato unificato dalla stessa legislazione si passa alla pratica di una concorrenza tra paesi sulla deregolamentazione sociale e fiscale in uno spazio eterogeneo liberalizzato. È il primo passo per un mutamento radicale del concetto applicato di libera concorrenza.

lunedì 12 novembre 2012

Il capitalismo entra nella sua fase senile. Intervista a Samir Amin

di Ruben Ramboer

"Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale". Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. "Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate"; "Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote". Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica

Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l'economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all'inizio degli anni 1970. "All'epoca, economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy ed io stesso, avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con le oscillazioni come ne avevamo avute tante prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del forum del Terzo Mondo a Dakar ed autore di molti libri tradotti in tutto il mondo. "Siamo stati presi per matti. O per comunisti che desideravano quella realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la grande crisi è davvero cominciata a quel tempo e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980". Inoltre Samir Amin afferma recisamente: "essere marxista implica necessariamente essere comunista, perché Marx non dissociava la teoria dalla pratica: l'impegno nella lotta per l'emancipazione dei lavoratori e dei popoli".

Parliamo per cominciare della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprimes, quella del credito, del debito, della finanza, dell'euro… A che punto siamo?

Samir Amin. Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprimes, tutti hanno fatto finta di non vedere. Gli europei pensavano: "Questa crisi viene dagli Stati Uniti, la assorbiremo rapidamente". Ma, se la crisi non fosse venuta da là, sarebbe cominciata altrove. Il naufragio di questo sistema era scritto e lo era fin dagli anni 1970. Le condizioni oggettive di una crisi di sistema esistevano ovunque.
Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta in modo più profondo. Non si possono comprendere le crisi separatamente, ma in modo globale. Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita a questa, si troveranno soltanto cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre, le banche e gli istituti finanziari sembrano essere i beneficiari principali di quest'espansione di capitale, cosa che rende più facile indicarli come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono soltanto i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale che hanno beneficiato dell'espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti proviene da operazioni finanziarie.

Quali sono state le ragioni oggettive della diffusione della crisi?

S. A. Le condizioni oggettive esistevano ovunque. È la sovranità "degli oligopoli o dei monopoli generalizzati" che ha posto l'economia in una crisi di accumulazione, che è allo stesso tempo una crisi di sottoconsumo ed una crisi di profitto. Solo i settori dei monopoli dominanti hanno potuto ristabilire il loro tasso di profitto elevato, distruggendo però il profitto e la redditività degli investimenti produttivi, degli investimenti nell'economia reale.

"Il capitalismo degli oligopoli o monopoli generalizzati" è il nome con cui lei chiama una nuova fase di sviluppo del capitalismo. In cosa questi monopoli sono diversi da quelli di un secolo fa?

S. A. La novità è nel termine "generalizzato". Dall'inizio del 20° secolo, ci sono stati attori dominanti nel settore finanziario e nel settore industriale, nella siderurgia, la chimica, l'automobile, ecc. Questi monopoli erano grandi isole nell'oceano delle piccole e medie imprese, realmente indipendenti. Ma, da una trentina di anni, assistiamo ad una centralizzazione sproporzionata del capitale. La rivista Fortune cita oggi 500 oligopoli le cui decisioni controllano l'intera economia mondiale, dominando a monte e a valle tutti i settori di cui non sono direttamente proprietari. Prendiamo l'agricoltura. Una volta un contadino poteva scegliere tra molte imprese per le sue attività. Oggi, piccole e medie imprese agricole devono affrontare a monte il blocco finanziario di colossi bancari e monopoli di produzione dei fertilizzanti, dei pesticidi e degli OGM di cui Monsanto è l'esempio più eclatante. E, a valle, deve affrontare le catene di distribuzione e i grandi supermercati. Con questo doppio controllo, la sua autonomia e i suoi redditi si riducono sempre di più.

È per questo che lei preferisce parlare oggi di un sistema basato "sulla massimalizzazione di rendite monopolistiche" piuttosto che "di massimalizzazione del profitto?"

S. A. Sì. Il controllo garantisce a questi monopoli rendite provenienti dal reddito complessivo del capitale ottenuto dallo sfruttamento del lavoro. Quest'entrate diventano imperialiste nella misura in cui questi monopoli operano nel Sud. La massimalizzazione di queste entrate concentra i redditi e le fortune nelle mani di una piccola elite a scapito dei salari, ma anche dei vantaggi del capitale non monopolistico. La disuguaglianza crescente diventa assurda. In definitiva è paragonabile ad un miliardario che possiede il mondo intero e lascia tutti nella miseria.

I liberali sostengono che occorre "ingrandire la torta" reinvestendo i profitti. È soltanto dopo che si può operare la divisione

S. A. Ma non si investe nella produzione, poiché non vi è più domanda. Le rendite sono investite dalla fuga in avanti sui mercati finanziari. L'espansione di un quarto di secolo di investimenti nei mercati finanziari non ha precedenti nella storia. Il volume delle transazioni su questi mercati è più di 2.500.000 miliardi di dollari, mentre il PIL mondiale è di 70.000 miliardi di dollari.
I monopoli preferiscono quest'investimenti finanziari a quelli nell'economia reale. È "la finanziarizzazione" del sistema economico. Questo tipo d'investimento è l'unico modo per continuare questo "capitalismo dei monopoli generalizzati". In questo senso, la speculazione non è un vizio del sistema, ma un'esigenza logica di quest'ultimo.
È nei mercati finanziari che gli oligopoli - non soltanto le banche - fanno i loro profitti e si fanno concorrenza tra loro per questi profitti. La sottomissione della gestione delle aziende al valore delle azioni della borsa, la sostituzione del sistema pensionistico con la capitalizzazione del sistema a ripartizione, l'adeguamento dei tassi di cambio flessibili e l'abbandono della determinazione del tasso d'interesse da parte delle banche centrali lasciando questa responsabilità "ai mercati" devono essere comprese in questa finanziarizzazione.

La deregolamentazione dei mercati finanziari è nel mirino da qualche anno. I dirigenti politici parlano "di moralizzazione delle operazioni finanziarie" e "di sbarazzarsi del capitalismo-casinò". La regolazione sarebbe dunque una soluzione alla crisi?

S. A. Queste non sono che parole, frasi vuote per fuorviare l'opinione pubblica. Questo sistema è destinato a proseguire la sua pazza corsa alla redditività finanziaria. La regolazione peggiorerebbe ancor più la crisi. Dove andrebbe allora l'eccedenza finanziaria? Da nessuna parte! Comporterebbe una massiccia svalutazione del capitale, che si tradurrebbe tra l'altro in un crac di borsa.
Gli oligopoli o monopoli ("i mercati") ed i loro servitori politici, non hanno dunque altro progetto che restaurare lo stesso sistema finanziario. Non è escluso che il capitale sappia restaurare il sistema esistente prima dell'autunno 2008. Ma ciò richiederà somme gigantesche delle banche centrali per eliminare tutti i crediti tossici e ristabilire il profitto e l'espansione finanziaria. E il conto dovrà essere accettato dai lavoratori in generale e dai popoli del Sud in particolare. Sono i monopoli che hanno l'iniziativa. E le loro strategie hanno sempre dato i risultati sperati, vale a dire i piani d'austerità.

In effetti questi piani d'austerità si succedono, a quanto pare, per ridurre i debiti degli stati. Ma si sa che ciò peggiora la crisi. I dirigenti politici sono degli imbecilli?

S. A. Ma no! È sull'obiettivo che c'è menzogna. Quando i governi pretendono di volere la riduzione del debito, mentono deliberatamente. L'obiettivo non è la riduzione del debito, ma che gli interessi del debito continuino ad essere pagati e, preferibilmente, a tassi ancora più elevati. La strategia dei monopoli finanziari, al contrario, ha bisogno della crescita del debito: il capitale ci guadagna, sono investimenti interessanti.
Nel frattempo l'austerità peggiora la crisi, c'è chiaramente una contraddizione. Come diceva Marx, la ricerca del massimo profitto distrugge le basi che lo permettono. Il sistema implode sotto i nostri occhi, ma è condannato a proseguire la sua folle corsa.

Dopo la crisi degli anni 1930, comunque lo Stato è stato capace di superare parzialmente questa contraddizione ed è stata adottata una politica keynesiana di rilancio

S. A. Sì, ma quando è stata introdotta questa politica keynesiana? All'inizio, la risposta alla crisi del 1929 è stata esattamente la stessa di oggi: politiche di austerità, con la loro spirale discendente. L'economista Keynes diceva che era assurdo e che occorreva fare il contrario. Ma è soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale che è stato ascoltato. Non perché la borghesia fosse convinta delle sue idee, ma perché ciò è stato imposto dalla classe operaia. Con la vittoria dell'Armata Rossa sul nazismo e la simpatia per la resistenza comunista, la paura del comunismo era davvero molto presente.
Oggi alcuni - non molto numerosi - economisti borghesi intelligenti, possono dire che le misure d'austerità sono assurde. Ed allora? Finché il capitale non sarà costretto dai suoi avversari ad allungare con l'acqua il suo vino, tutto questo continuerà.

Quale è il legame tra la crisi emersa da qualche anno e quella degli anni 1970?

S. A. All'inizio degli anni 70 la crescita economica ha subito una caduta. Nel giro di qualche anno, i tassi di crescita sono scesi alla metà di quelli del trentennio glorioso: in Europa dal 5 al 2,5%, negli Stati Uniti dal 4 al 2%. Questa caduta brutale era accompagnata da una caduta di medesima ampiezza degli investimenti nel settore produttivo.
Negli anni 1980, Thatcher e Reagan hanno reagito con le privatizzazioni, la liberalizzazione dei mercati finanziari e una durissima politica di austerità. Ciò non ha fatto risalire i tassi di crescita, ma li ha mantenuti ad un livello molto basso. D'altra parte lo scopo dei liberali non è mai stato il ripristino della crescita che dicevano. Lo scopo era soprattutto di ridistribuire i redditi verso il capitale. Missione compiuta. Ed ora, quando in Belgio si passa dal -0,1% allo 0,1% di crescita, alcuni esultano: "La crisi è terminata!" È grottesco.

Lei compara gli anni 1990 e 2000 con quelli del secolo precedente: una sorta di seconda "Belle Epoque".

S. A. Ho fatto il parallelo tra le due lunghe crisi perché, curiosamente, cominciano esattamente con cento anni di differenza: 1873 e 1973. Inoltre, hanno gli stessi sintomi all'inizio e la risposta del capitale è stata la stessa, cioè tre serie di misure complementari.
In primo luogo, una centralizzazione enorme del capitale con la prima ondata dei monopoli, quelli analizzati da Hilfirding, Hobson e Lenin. Nella seconda crisi, ciò che chiamo "i monopoli generalizzati" che si sono costituiti negli anni 1980.
In secondo luogo, la mondializzazione. La prima grande crisi è l'accelerazione della colonizzazione, che è la forma più brutale della globalizzazione. La seconda ondata, sono i piani d'adeguamento strutturale del FMI, che si possono qualificare come ricolonizzazione.
Terza ed ultima misura: la finanziarizzazione. Quando si presenta la finanziarizzazione come un fenomeno nuovo, sorrido. Cosa è stato creato in risposta alla prima crisi? Wall Street e la City di Londra nel 1900!
E ciò ha avuto le stesse conseguenze. Inizialmente, per un periodo breve, sembrava funzionare, perché si pompava sui popoli, soprattutto quelli del Sud. Fu dal 1890 al 1914, la "Belle Epoque". Si sono tenuti gli stessi discorsi "sulla fine della storia" e la fine delle guerre. La globalizzazione era sinonimo di pace e di colonizzazione per una missione civilizzatrice. Ma, a cosa ha condotto tutto ciò? Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione Russa, crisi del 1929, nazismo, imperialismo giapponese, Seconda Guerra Mondiale, Rivoluzione Cinese, ecc. Si può dire che dopo il 1989 c'è stata una sorta di seconda "Belle Epoque", fino al 2008, sebbene sin dall'inizio, sia stata accompagnata da guerre del Nord contro il Sud. Il capitale ha, in questo periodo, stabilito le strutture affinché gli oligopoli potessero beneficiare delle loro rendite. E, come la globalizzazione finanziaria ha condotto alla crisi del 1929, ha recentemente condotto alla crisi del 2008.
Oggi, si è raggiunto lo stesso momento determinante che annuncia una nuova ondata di guerre o di rivoluzioni.

Senza tanto ridere, su quest'immagine futura… Lei scrive che "un nuovo mondo sta nascendo, che può diventare di gran lunga più barbaro, ma che può anche diventare migliore". Da che cosa dipende?

S. A. Non ho la sfera di cristallo. Ma il capitalismo è entrato nella sua fase senile, che può causare enormi spargimenti di sangue. In questo periodo, i movimenti sociali e le proteste portano cambiamenti politici, verso il meglio o verso il peggio, fascisti o progessisti. Le vittime di questo sistema riusciranno a formare un'alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa è oggi la sfida politica.

Quali sono le caratteristiche di questo "capitalismo senile" che potrebbe, a suo giudizio, condurre "ad una nuova era di grandi spargimenti di sangue"?

S. A. Non esistono più imprenditori creativi, ma "dei wheeler-dealers" (intriganti). La civilizzazione borghese, con il suo sistema di valori - elogio dell'iniziativa individuale, ma anche dei diritti e delle libertà liberali come della solidarietà sul piano nazionale - ha fatto posto a un sistema senza valori morali. Guardate ai criminali presidenti degli Stati Uniti, ai burattinai e tecnocrati alla testa dei governi europei, ai despoti del Sud; guardate all'oscurantismo (talebani, sette cristiane e buddisti…); alla corruzione generalizzata (nel mondo finanziario in particolare)… Il capitalismo d'oggi può essere descritto come senile e può inaugurare una nuova era di massacri. In un periodo siffatto, le proteste dei movimenti sociali portano a cambiamenti politici. Nella buona e nella cattiva sorte, fascisti o progressisti. La crisi degli anni 1930 ad esempio, ha condotto al Fronte Popolare in Francia, ma anche al nazismo in Germania.

Che cosa significa tutto ciò per i movimenti di sinistra attuali?

S. A. Viviamo un'epoca dove si profila un'ondata di guerre e di rivoluzioni. Le vittime di questo sistema riusciranno a dar vita a un'alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa è la sfida politica oggi. Occorre che la sinistra radicale prenda l'iniziativa nella costruzione di un fronte, di un blocco alternativo antimonopolista che comprenda tutti i lavoratori e produttori vittime di questa "oligarchia dei monopoli generalizzati", di cui faccia parte la classe media, gli agricoltori, le Piccole Medie Imprese…

domenica 11 novembre 2012

Cortina di fumo e segnali di fumo

di Jason Read

l’analisi sul voto delle presidenziali americane viste dalla prospettiva di Occupy. Nonostante la propaganda degli elefantini repubblicani, volta ad attribuire agli asinelli democratici i contenuti del movimento al programma obamiano, Occupy s’è tenuta ben lontana dalla tenzone elettoralistica pur aggirandosi come uno spettro sullo sfondo dello scontro tra gli sfidanti
 
É difficile guardare alle presidenziali americane del 2012, specialmente alle elezioni presidenziali, dalla prospettiva di Occupy. Se Occupy ha qualcosa che assomiglia a una prospettiva unitaria, e bisognerebbe già molto discutere su questo, dovrebbe includere almeno due caratteristiche che la definiscono: una critica della politica rappresentativa e del sistema bipartitico, e una critica dell’ineguaglianza massificata. La prima caratteristica rende indiretta la relazione tra Occupy e le elezioni, mentre la seconda la filtra in forme conflittuali.
Riguardo alla prima, il 2012 ha visto tra liberal e progressisti intensi dibattiti e discussioni sui vantaggi del voto. Una parte di questa frustrazione rispetto al voto deriva senza dubbio dalla frustrazione nei confronti di Barack Obama, che non solo non può più reclamare per sé il manto storico del cambiamento, ma ha deluso molti con un’agenda di politica interna che ha lasciato irrisolti i problemi strutturali di Wall Street, continuando al contempo le politiche di guerra al terrore che Bush aveva cominciato. Diversi di questi argomenti non sono nuovi, riproducendo le critiche alla posizione del “male minore” che hanno dominato le discussioni nella sinistra del Partito Democratico, ma hanno assunto una crescente intensità sullo sfondo della recente memoria di occupazioni, scioperi e altre forme di azione diretta. Mentre si può ipotizzare che queste discussioni abbiano qualcosa a che fare con la minore affluenza alle urne, calata dal 62% al 60% e attestatasi su circa 84 milioni di votanti, un recente sondaggio Pew suggerisce che i non votanti a queste elezioni tendono ad avere un orientamento a sinistra. L’uso dei social media e vari gruppi di discussione online possono deformare la prospettiva, mettendo conversazioni private sotto una luce pubblica, tuttavia queste elezioni appaiono essere quelle in cui il dibattito sul voto e sui limiti della democrazia rappresentativa non solo é cresciuto in intensità, ma si é anche esteso a più ampie porzioni della società.
Trattando la seconda questione, quella dell’ineguaglianza, le cose sono molto più complicate e forse più interessanti. I temi del 99% e dell’1%, così come il ruolo del capitale finanziario, sono apparsi perfino nelle primarie repubblicane. Le immense ricchezze del candidato repubblicano Mitt Romney e la sua posizione alla Bain Capital sono stati fatti oggetto di una sorta di critica populista dell’ala destra, che ha tentato di fare un distinguo tra gli eccessi della finanza e la fede nel libero mercato. Durante le elezioni tali questioni sono ritornate in forza dopo un video in cui Romney ha parlato del 47% degli americani che non pagano le tasse e che non avrebbero mai votato per lui. Questo numero, 47%, é una risposta di destra al 99% che si concentra sul 53% degli americani che pagano l’imposta federale sul reddito. Questo 47% é spesso presentato come interamente dipendente dal sostegno governativo, ma esso in realtà comprende quelli i cui salari sono troppo bassi per essere sottoposti all’imposta federale sul reddito (così come i pensionati e i militari). Romney non é riuscito a liberarsi dell’immagine di colui che é interessato solo al destino dei ricchi. É importante notare che questo é successo nonostante il fatto che Obama si sia solo retoricamente allineato all’idea del ceto medio e di una società più equa, non facendo in realtà nulla per sfidare l’ineguaglianza di massa. Obama non ha mai menzionato Occupy e ha chiaramente evitato eventi come lo sciopero degli insegnanti di Chicago o il tentativo di destituire il governatore del Wisconsin, azioni organizzate da una combinazione di sindacati e attivisti.
Le elezioni politiche si vincono e si perdono sulle apparenze e non sulla politica, e Obama é stato abile ad apparire più collegato a questi temi, benché l’ineguaglianza sia cresciuta durante la sua presidenza.