lunedì 29 ottobre 2012

Buona la prima al No Monti day. 50.000 in piazza e corteo selvaggio degli studenti

di Giorgio Sestili*

A Roma, 50 mila persone in piazza per contestare Monti e le sue politiche. Molte vertrenze sociali in un corteo tranquillo che gli studenti scuotono bloccando la tangenziale e poi tutta la città. Prossima tappa lo sciopero sociale europeo del 14 novembre

È appena terminata la manifestazione del No Monti Day a Piazza San Giovanni, gli studenti sono ancora in corteo selvaggio sulla Tangenziale Est di Roma. Alcune prime considerazioni sorgono spontanee su questa che è stata la prima giornata dell'autunno che ha visto in piazza l'opposizione politica e sociale al governo Monti.
Considerata l'assenza di un movimento sociale forte la manifestazione nei numeri è andata bene. Circa 50 mila persone (per dare numeri realistici) hanno sfilato in corteo per le strade di Roma. Una manifestazione eterogenea che ha visto la partecipazione di lavoratori in lotta (Ilva, Alcoa), di studenti medi e universitari, degli insegnanti in mobilitazione contro l'aumento dell'orario lavorativo e contro il ddl Aprea, di delegazioni del movimento No Tav e per l'acqua pubblica. Tante anche le lotte ambientali presenti. Questo è senz'altro l'aspetto maggiormente positivo del corteo, la presenza di tante lotte e vertenze sociali che ogni giorno si battono contro la crisi e contro questo governo, con lo sguardo sempre attento anche alle mobilitazioni europee.
Poco in sintonia con il quadro europeo è sembrato invece l'arcipelago delle organizzazioni politiche e sindacali presenti nella manifestazione cui comunque va dato il merito di averla costruita. Avremmo però voluto vedere in testa al corteo le lotte della scuola che oggi appaiono come una speranza per tutto il paese. E invece abbiamo rivisto le solite organizzazioni con i soliti volti, rigorosamente maschi. Vecchi anche gli slogan ed il modo di stare in piazza di tante organizzazioni.
Sembra che ancora qui in Italia non si sia imparato molto dagli Indignados spagnoli e dal movimento americano di Occupy. Dal protagonismo diretto e dalla partecipazione di donne e uomini che hanno animato i più grandi movimenti degli ultimi anni.
Fortunatamente a dare un segnale diverso alla giornata del No Monti Day ci hanno pensato gli studenti e i precari che, partiti dalla Sapienza per poi congiungersi a Piazza della Repubblica con il corteo nazionale, non si sono accontentati di fermarsi a San Giovanni per il solito comizio. Hanno proseguito in migliaia in corteo selvaggio verso Porta Maggiore, hanno imboccato la rampa della Tangenziale Est fino allo svincolo della Roma-L'Aquila.
Roma è stata di nuovo bloccata.
Studenti e precari hanno sfilato dietro lo striscione “Piazze invase contro la Troika. È  l'Europa che ce lo chiede”. Un chiaro riferimento ai movimenti di Spagna, Grecia e Portogallo perché, di fronte all'Europa dell'austerity, della BCE e dei presunti governi tecnici, solo una dimensione europea e autorganizzata dei movimenti potrà realmente opporsi alla crisi ed individuarne una via d'uscita radicalmente alternativa.
Le scuole e le università in piazza oggi hanno espresso ancora una volta la volontà di costruire una dinamica di mobilitazione ampia e radicale anche in Italia. Non una sommatoria di tante piccole forze residuali ma una moltiplicazione di forze nuove, giovani e incazzate, distanti anni luce dai vecchi schemi della sinistra e dalle sue lotte intestine.
Questo protagonismo dei giovani e dei precari si è visto anche oggi in piazza e su questo bisognerà puntare. Verso lo sciopero sociale europeo del 14 e la giornata di mobilitazione del 16 novembre.
 
* http://ilmegafonoquotidiano.globalist.it/

 

venerdì 26 ottobre 2012

La concertazione è finita. Per una discussione su sindacato, lotte e organizzazione

di ∫connessioni Precarie

la “questione sindacale” è entrata da subito nel mirino della scaletta riformistica montiana. La perentorietà dell’affermazione relativa alla fine della “concertazione”, tacciata come strumento obsoleto ed inadeguato allo sviluppo economico -se non un vero e proprio fardello per il sistema-paese che è chiamato alla competizione sui mercati internazionali-, è più di una semplice dichiarazione di principio in sintonia colla ideologia neoliberaliberista. Come si segnala nell’articolo di ∫connessioni Precarie si tratta di una “chiara pretesa dello Stato di farsi attore e garante di un processo di ristrutturazione delle relazioni industriali che ha un profilo non solo europeo ma anche globale”, quindi senza più la mediazione delle confederazioni per regolare il conflitto capitale/lavoro nel gioco concertativo col sistema dell’impresa. Ora il quesito non è “il tradimento di questo o quel sindacato, ma a cosa serve il sindacato dentro all’attuale situazione globale”. Tutta la sinistra sindacale è chiamata ad interrogarsi sul tema e ad elaborare una prospettiva rivendicativa alternativa all’invocazione di “politiche che «mettano il lavoro al centro» o favoriscano l’occupazione di giovani e donne”. Come abbiamo potuto verificare “sono questi stessi argomenti a legittimare una continua precarizzazione del lavoro che passa per una differenziazione e frammentazione che il sindacato non fa che riprodurre, anche nel momento in cui «aggiorna» le sue categorie”. Ma anche sul terreno dell’organizzazione – diciamo noi- sarebbe necessario ripensare il modello confederale strutturato per categorie e in linea piramidale. Non sarebbe più appropriata un’organizzazione reticolare che attraversi tutti i luoghi della produzione sociale del lavoro e del non-lavoro, in grado non solo di unificare le lotte ma capace anche di individuare quelle generalizzabili, in primo luogo mettendo sul campo una piattaforma sociale per il diritto al reddito ?

«La concertazione è finita». Nonostante lo scandalo – acceso ed effimero come un fuoco di paglia – provocato a luglio da queste parole, pronunciate non a caso davanti ai banchieri riuniti, Mario Monti si è limitato a registrare un dato di fatto. L’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio e la riforma del mercato del lavoro stabiliscono le condizioni materiali della fine di una lunga stagione di politica economica e di relazioni industriali. Con tecnica chiarezza, Monti ha aggiunto che la concertazione è alla radice di tutti i mali presenti, soprattutto delle difficoltà che, a causa delle colpe concertative dei loro genitori, incontrano i figli e i nipoti di lavoratori e lavoratrici quando cercano un lavoro. Avendo così chiarito i fondamenti ultimi della crisi dei rapporti tra generazioni, Monti ha potuto stabilire che la concertazione non è altro che un moltiplicatore della spesa pubblica da cancellare con un tratto di penna assieme a una buona parte di quella spesa. La concertazione è soprattutto un ostacolo presente alle politiche di investimento, e dunque alla produzione di profitto. Le parti sociali sono solo parti, alle quali il potere pubblico non è tenuto a trasferire in outsourcing responsabilità politiche e che perciò devono, con logica e letterale evidenza, farsi da parte.
Si può persino capire lo sgomento di chi per due decenni ha legittimato la propria azione politica e sindacale sulla base del fatto che c’era qualcosa da concertare. Si può capire la rabbia di chi legge giustamente nelle parole di Monti la delegittimazione di ogni difesa organizzata degli interessi dei lavoratori, siano essi precari, operai, migranti o impiegati pubblici.
Conviene però partire dalla verità contenuta in quelle parole: la concertazione è finita, anche se c’è chi promette di restaurarla, però eventualmente solo dopo le elezioni, o addirittura di fare un referendum su alcune regolazioni giuridiche del rapporto di lavoro, ben sapendo che un referendum sulle condizioni del lavoro operaio non ha alcuna possibilità di successo, e mira solo a cercare un collante per formare soggetti politici altrimenti inesistenti. Piaccia o non piaccia, la concertazione non è più tra le opzioni possibili della politica industriale. L’idea è che non c’è più niente da concertare perché oggi le sacre leggi del mercato impongono comportamenti non contrattabili. La stessa politica industriale, da più parti evocata come soluzione a tutti i mali, nella speranza di un rinnovato interventismo statale e confondendo l’Italia dell’Euro con l’Argentina post-crisi, è a questo punto un concetto vuoto, appunto perché privato di quel carattere concertativo che ne ha segnato i successi nei decenni passati. La realtà è che il capitalismo italiano, non appena si trova di fronte alla classe operaia, trova più conveniente giocare alla roulette del capitalismo finanziario. Il risultato è che, nei tempi duri in cui viviamo – nonostante dalla Fiat all’Ilva, passando per la scuola, Cisl e Uil continuino a chiedere soltanto dove devono firmare – cade l’alibi di chi era concertativo «ma fino a un certo punto» come la CGIL. Anche chi, come la FIOM, non era concertativo nelle grandi vertenze nazionali, ma poi doveva concertare nella contrattazione decentrata – in certi territori con un certo successo – è investito oggi da una crisi profonda. Infine, anche i sindacati di base, che concertativi non sono mai stati, non possono più costruire la propria identità politica e la propria azione in opposizione alla CGIL concertatrice e alla concertazione come politica, perché appunto: la concertazione è finita.
La domanda che ci interessa porre è dunque: lungo quali vie sarà possibile l’organizzazione degli interessi operai nel punto in cui entrano in diretto contatto con le pretese del capitale? Non possiamo dimenticare che nonostante tutti i disagi della CGIL e la bellicosità della FIOM, mentre continuano anche in questi giorni proclami e annunci di nuovi scioperi dove nulla di nuovo sembra mai succedere, i lavoratori e le lavoratrici della CGIL e della FIOM stanno ancora aspettando lo sciopero generale promesso contro la riforma Fornero. Molti di loro comprensibilmente hanno ormai preso altri impegni non solo per i sabati dello sciopero possibile, ma anche per quando si tratta di sostenere la CGIL e la FIOM. Nonostante questa banale verità, l’affermazione che il sindacato è in crisi deve essere considerata con attenzione. È in crisi la capacità di ottenere un qualche risultato all’interno della crisi, ma non è sempre così in crisi quando si tratta di neutralizzare la rabbia montante, l’insoddisfazione, la possibilità di costruire percorsi autonomi di organizzazione. Su questo terreno resiste solo la parte del patto concertativo che prevedeva la riduzione della conflittualità in nome del presunto interesse comune nella crescita economica. La triste realtà sembra essere: poca conflittualità per poco o nulla in cambio, che non sia l’esistenza stessa di un sindacato. Qui il problema non è però il tradimento di questo o quel sindacato, ma a cosa serve il sindacato dentro all’attuale situazione globale, perché non gode di una salute tanto migliore nemmeno chi si comporta diversamente, rifiutando di cedere preventivamente alle richieste del padrone pubblico o privato e denunciando gli effetti delle politiche neoliberiste. D’altra parte, già ben prima del montismo, si era posta la questione del rapporto tra l’organizzazione confederale dei sindacati e quella dei singoli settori del lavoro: all’impossibilità strutturale di un qualche scambio politico ha corrisposto la rottura della relazione, molte volte simbolica o ideologica, tra interesse generale del lavoro e forma associativa del sindacato. Questa stessa rottura ha determinato l’evanescenza del tradizionale confederalismo del movimento operaio italiano e la ricomparsa, che molti pensavano improbabile, di una sinistra sindacale che sembra rifarsi più alle esperienze americane che ad altri modelli, come quello francese.
Le parole pronunciate da Monti di fronte ad alcuni dei suoi principali azionisti indicano allora un futuro che è già in atto e va perciò preso sul serio. Esse non segnano la scomparsa dello Stato dalla scena. Segnalano la chiara pretesa dello Stato di farsi attore e garante di un processo di ristrutturazione delle relazioni industriali che ha un profilo non solo europeo ma anche globale. Piuttosto che ostinarci a rintracciare le origini di quanto accade nel cortile di casa, dobbiamo perciò abituarci a osservare l’azione del sindacato con uno sguardo globale. Pensiamo alle vicende della Maruti Suzuki in India, con la scelta aziendale e statale di favorire solo i sindacati disposti a sostenere le politiche industriali basate sulla piena disponibilità del lavoro, e una gestione dei livelli salariali funzionale a quietare un’iniziativa operaia pericolosamente autonoma; pensiamo alle politiche governative che, nel far east europeo, fanno da cornice all’organizzazione del lavoro da parte di multinazionali del profilo della Foxconn. Queste esperienze solo apparentemente lontane danno indicazioni chiare riguardo a questo futuro ormai presente. Non tutti gli Stati si comportano oggi allo stesso modo e non tutti svolgono le stesse funzioni: il divario esistente, ad esempio, tra gli investimenti in infrastrutture o nella ricerca in posti come il Brasile, e i tagli ai quali ogni giorno assistiamo dal Portogallo alla Grecia basta da solo a mostrarlo. Ma in un contesto globale nel quale lo Stato si occupa quasi solo di stabilire le condizioni per favorire gli investimenti, il sindacato non è altro che un problema da eliminare o da addomesticare – esemplare, per tornare in Italia, è l’esclusione della FIOM dalla Fiat – perché la sua pretesa di contrattare salario o concertare reddito non può che allontanare quegli investimenti. In un certo senso, si cerca di invertire la direzione seguita negli ultimi anni dal capitale nazionale, ricreando le condizioni di irrilevanza dell’organizzazione sindacale del lavoro che a lungo hanno sostenuto i processi di esternalizzazione della produzione verso i paesi dell’est europeo o di quello che fu il terzo mondo.
Al tramonto del modello concertativo potrebbe seguire l’alba delle «politiche del reddito». Non si tratta più solo di una «politica dei redditi», antico fantasma che rischia di ripresentarsi come incubo. Il reddito sta piuttosto diventando il campo di battaglia – finora più imposto che praticato – della costante svalorizzazione del salario.


martedì 23 ottobre 2012

La composizione politica delle differenze

di Collettivo Uninomade

Ovunque si dice: la discriminazione razziale conta di più – o di meno – di quella di classe o di genere; oppure «razza», «classe» e «genere» sono tre punti di vista che si escludono a vicenda e tra i quali bisogna scegliere, si ricrea dall’interno delle lotte compositive un ordine della prevalenza, un principio, una causa prima; e si espelle la possibilità del pullulare delle differenze sulla quale si può invece l’infinita varietà delle possibili (e necessariamente provvisorie) configurazioni del comune
Judith Revel, «Friabilità dei suoli», ovvero il rovello della composizione politica

1. Può la composizione di classe, nel capitalismo contemporaneo e nella sua crisi, essere uno strumento valido per l’analisi del presente e l’organizzazione del conflitto? E soprattutto: che cos’è la classe una volta criticamente assunta la sua impossibile omogeneità, dopo avere cioè messo profondamente in discussione un’idea monolitica della classe incapace di cogliere la complessità del lavoro vivo contemporaneo? È qui che si colloca l’esigenza di Uninomade di avviare una riflessione capace di portare al centro dell’analisi le differenze di razza e genere quali condizioni imprescindibili per la definizione della classe nel presente. Il seminario di Napoli (23-24 giugno), di cui presentiamo in queste pagine alcuni materiali, ha rappresentato un primo momento di lavoro in questo senso.
Da anni riflettiamo sulle trasformazioni produttive e sui nuovi dispositivi della cattura capitalistica che agiscono sui corpi, sulle emozioni, sui linguaggi e sulle relazioni. La ristrutturazione produttiva che ha seguito e accompagnato la globalizzazione e l’inarrestabile mobilità del lavoro così come le lotte anticoloniali e quelle delle donne tanto nel mondo “occidentale” quanto al di fuori di esso hanno imposto il colore della pelle, l’appartenenza geografica e nazionale, il sesso e la sessualità quali nuovi terreni della valorizzazione capitalistica. Ne sono esempio, tra altri, i processi di inclusione differenziale che segnano l’ingresso di donne e uomini migranti in questo come in altri paesi, al pari della sistematica dequalificazione e del persistente sfruttamento del lavoro di ri-produzione, storicamente attribuito alle donne. La salarizzazione del lavoro domestico e di cura, combinandosi con processi di etnicizzazione e segmentazione del mercato del lavoro, assume da questo punto di vista un valore per molti versi esemplare. La composizione di classe, allora, non può che essere segnata e scissa dalle differenze di razza e di genere che, con sfumature e intensità differenti descrivono, oggi con rinnovata attualità, lo spazio dell’organizzazione e della gestione del rapporto sociale capitalistico. Elementi di divisione e violenta gerarchizzazione del lavoro, razza e genere alludono anche a una nuova definizione del soggetto politico, capace di fare delle differenze elementi di forza dentro una composizione irriducibilmente molteplice ed eterogenea. È qui che il nostro lavoro di questi anni attorno alla categoria di “moltitudine” incontra le riflessioni delle componenti più radicali del movimento queer e LGBT.

2. Tutta la storia del capitalismo è impregnata della presunta superiorità di bianchezza e mascolinità. È la norma del maschile bianco eterosessuale posta a fondamento della narrazione moderna e del discorso coloniale di cui è intrisa la stessa identità nazionale ed europea. Detto altrimenti, non c’è capitalismo senza razzismo e sessismo. O meglio: non c’è capitalismo senza razzializzazione e genderizzazione, senza che la razza e il genere siano cioè assunti quale terreno per la costruzione di pratiche e discorsi che contribuiscono alla dequalificazione e alla svalutazione del lavoro di alcuni gruppi sociali: storicamente le donne, i migranti, le “minoranze” e le popolazioni colonizzate.
In questo senso il razzismo e il sessismo che la crisi economica globale ci mostra con particolare virulenza non sono da intendere come una deviazione ideologica o una patologia sociale – come per gran parte del dibattito scientifico e perfino di movimento in Italia e in Europa. Nella loro indiscutibile ricaduta materiale, cioè nei termini di opportunità, aspettative e forme di vita dei soggetti che li subiscono, sono piuttosto uno strumento di controllo e frammentazione sociale: lo spazio imprescindibile dello sfruttamento del lavoro che la crisi economica globale si è limitata a esacerbare. Lo stillicidio della violenza sulle donne e le ripetute aggressioni a razziste e omofobe che riempiono le cronache di questo paese o i pogrom contro i migranti che segnano in Grecia il violento incedere della crisi, non sono altro che la declinazione più aberrante di un processo più complessivo e sistematico che ha storicamente fatto della razza e del genere lo spazio per la costruzione gerarchizzata di relazioni sociali e del lavoro, senza le quali, la storia ci insegna, lo stesso modello di sviluppo capitalistico non sarebbe neanche immaginabile.

domenica 21 ottobre 2012

Sinistra libertaria e “governi popolari: diversi ponti, non pochi precipizi

di Pablo Stafanoni

questo pezzo è parte di una riflessione più complessa su Argentina, Bolivia, Ecuador e Venezuela, già pubblicata su Movimento operaio a cui rimandiamo per l’ulteriore approfondimento. La nostra estrapolazione di seguito proposta riteniamo sia utile al lettore perché offre un quadro critico della situazione politica sudamericana e consente l’individuazione dei nodi da affrontare per una discussione sulla possibile agenda alternativa al nazionalismo e all’indigenismo in atto egemoni nei processi istituzionali latinoamericani

Una prima constatazione dell’attuale processo di cambiamento su scala sudamericana dopo l’egemonia neoliberista – specie durante gli anni Novanta – è che i regimi considerati più radicali, sia dalle sinistre sia dalle destre, sono quelli il cui avvento al potere è avvenuto grazie a organizzazioni politiche non provenienti dal troncone delle sinistre tradizionali (Venezuela, Ecuador e Bolivia), mentre quelli provenienti da una tradizione di sinistra sono quelli considerati “moderati” (Brasile, Uruguay ed anche Cile). Vale perciò la pena di soffermarci su questo, cercando di avanzare alcune ipotesi preliminari.

1. La radicalità dei processi sudamericani non dipende soltanto dalle scommesse ideologiche dei governi (“carnivori” o “vegetariani”, per dirla con Álvaro Vargas Llosa), ma da una serie di precedenti traiettorie politiche e istituzionali, inclusi i livelli di sfiducia politica. Per questo è esploso il sistema dei partiti e lo stesso sistema politico è stato messo in discussione come una democrazia elitaria escludente (Bolivia, Venezuela ed Ecuador) e sono nate richieste di rifondazione del paese, riflesse nella convocazione di Assemblee costituenti. Tra le altre cose, queste si proponevano di farla finita con il “colonialismo interno” che, nel caso di Bolivia ed Ecuador (ma anche in Venezuela), escludeva materialmente e simbolicamente le maggioranze indigene, afro o meticcie.

2. La sinistra organizzata pervenuta al potere (il Partito dei Lavoratori brasiliano, il Fronte Ampio uruguayano e una parte del Partito socialista cileno, ai quali potremmo aggiungere ora il FMLN salvadoregno) ha subito direttamente l’impatto della crisi post-1989, che è sfociata in genere nell’approfondirsi della transizione verso il centrosinistra (uno sviluppo già parzialmente avviato in America Latina durante i processi di restaurazione democratica negli anni Ottanta, sospinto tra l’altro dall’autocritica sulla violenza negli anni Settanta). Lo stesso non è avvenuto, o è avvenuto in minor misura, per le sinistre più deboli e sparse, che hanno cercato una zattera di salvataggio nel nazionalismo e nell’indigenismo (il paese reale), come pure nell’antimperialismo. Questo forniva loro nuove fonti di radicalizzazione ideologica: la difesa della patria, la rivendicazione degli indigeni, il rifiuto della partitocrazia… L’elemento principale della rifondazione è che adesso “c’è patria per tutti”, l’asse dell’anti-neoliberismo.

3. Se, infatti, osserviamo con maggior dettaglio i processi più “radicali”, se ne può ricavare che la fonte della loro radicalità derivi dalla matrice nazionalista: antimperialismo, polarizzazione tra popolo e oligarchia, nazionalizzazioni, ricambio dei gruppi dirigenti al potere, ecc., e se è tornato all’ordine del giorno il socialismo (“del secolo XXI”), esso continua a essere concepito come l’approfondimento lineare del nazionalismo (non a caso, né Chávez, né Evo, né Correa sono soliti parlare di lotta di classe). In larga misura, inoltre, per la stessa natura “estrattivista” delle economie venezuelana, ecuadoriana e boliviana, entra in gioco una sorta di socialismo o nazionalismo geologico. La novità è, comunque, che il nuovo nazionalismo non pencola più tra la destra e la sinistra (come Vargas, Perón o Paz Estenssoro) ed è scomparso il suo risvolto anticomunista; in realtà, c’è un forte legame geopolitico/affettivo con il regime cubano.
Se osserviamo le sensibilità etico/morali, non è difficile avvertire che questi processi non solo mancano di radicalità, ma possono essere (perlomeno gli strati dirigenti) apertamente conservatori per quanto riguarda i diritti riproduttivi o quelli delle cosiddette minoranze sessuali e di genere. Un caso a parte è il kirchnerismo, che ha fatto di questi vessilli progressisti uno degli assi delle sue politiche, mostrando la pressoché infinita capacità del peronismo di assorbire le rivendicazioni e richieste più disparate e, in questo caso, estranee alla sua storia, anche quella più recente.

4. Il crinale sinistra/destra si trova ora, inoltre, a confronto non solo con la tradizione nazional-popolare (che propone l’alleanza nazionale interclassista, anche se ormai questa terminologia è desueta), ma con l’indigenismo e con svariate letture post e de-coloniali subalterne, che propongono come discrimine alternativo modernità/spirito coloniale vs. decolonizzazione/“visione alternativa”. È quel che accade in Bolivia ed Ecuador, dove la presenza maggioritaria o significativa di indigeni consente di costruire una serie di letture in termini di alterità radicale, che mettono in discussione con un’influenza nell’accademia statunitense la modernità/spirito coloniale. Per Mignolo, ad esempio, parlare di una “sinistra indigena” per contraddistinguere il Movimento al Socialismo di Evo Morales è una dimostrazione di “imperialismo di sinistra”, e per l’intellettuale aymara e dirigente dell’opposizione Simón Yampara, chi parla ancora di sinistra e di destra continua ad avere nel cervello il “chip coloniale”.


martedì 16 ottobre 2012

Quello che abbiamo e quello che ci manca

di Collettivo ∫connessioni precarie

Il presente della crisi è fatto da quella massa di lavoratori dipendenti, precari, pubblici e privati, ai quali i movimenti non hanno saputo parlare. Se si rinuncerà ancora a parlare dentro a questo orizzonte, il ruolo dei movimenti sarà, come spesso è stato negli ultimi anni, soltanto quello di testimoniare una diversa ecologia dei comportamenti politici. Costruire un’organizzazione generale delle lotte non significa stabilire una gerarchia che le diriga, né tanto meno al loro interno. Significa però distinguere collettivamente ciò che è generalizzabile e cosa non lo è. Significa guardare nella composizione materiale di classe, magari facendo un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni teoriche
Di fronte alle imponenti manifestazioni che hanno luogo a Madrid, Lisbona e Atene, e alla costante presenza di un’opposizione sociale all’austerity nei paesi che più stanno subendo le politiche di tagli voluti dal patto salva-euro, è frequente la domanda: cosa accade invece in Italia? Oppure: perché in Italia le molte lotte quotidiane contro gli attacchi tecnicamente sferrati dal governo non si saldano, come accade in altri luoghi dell’area mediterranea?
Reclamare un reddito di base incondizionato, di fronte alla precarietà e alla povertà dilagante, è cosa giusta. Difendere il lavoro dipendente, salvaguardando articolo 18 e ammortizzatori sociali, è cosa giusta. Evocare l’assedio del Parlamento, perché così accade in Spagna, Grecia e Portogallo, è un’idea suggestiva. Qualcosa però dovrebbe suggerire che continuare su questa strada non servirà. Nessuna di queste giuste e suggestive prospettive sembra porsi il problema dell’accumulazione di forza che è necessaria per vincere, o anche soltanto a dare all’esasperazione diffusa una forma che sia diversa dalla mera rabbia o indignazione, che rischiano sempre di limitarsi a momenti di sfogo tanto straordinari quanto fugaci.
Sarebbe bene smetterla di ricamare sulla carta ciò che andrebbe fatto, e iniziare a misurarsi con la condizione reale che la precarietà ha prodotto ben prima dei provvedimenti sul lavoro del governo Monti, e che la crisi continua a riprodurre con l’ostinazione di un movimento reale. I rapporti sociali così prodotti mostrano di tenere. Vediamo come sia difficile trovare scorciatoie capaci di trasformare tanto singole vertenze industriali, pur grandi, quanto singole esperienze locali, pur capaci di generare inedite alleanze e mobilitazioni costanti, nelle leve per una mobilitazione generale.
Per noi, il motivo risiede nei rapporti sociali prodotti e riprodotti dal lavoro della precarietà e dall’ipoteca del razzismo istituzionale. Quest’ultimo non è la disgrazia particolare che colpisce alcuni, ma l’evidenza di una divisione che chiarisce agli occhi di tutti in quale parte della società bisogna stare. La sanatoria di queste settimane, sia detto per inciso, mostra da sola l’incapacità dei movimenti di mettere in discussione questa ipoteca e la solitudine dei migranti. Su di loro si sta scaricando una stretta amministrativa che, facendo leva sul reddito, arriva perfino a negare il “diritto alla precarietà” e alla disoccupazione. Eppure sono stati proprio i migranti, in questi anni, a produrre i momenti più alti d’insubordinazione dentro questi rapporti reali, rigettando quel ricatto del salario che pare oggi un ostacolo insormontabile da Taranto a Torino.
Non dovremmo pensare che sia sufficiente costruirsi spazi di autonomia dai quali dirigere l’attacco contro la ristrutturazione globale del capitale, ma essere capaci di entrare e fare i conti con quei rapporti che lasciano la gran massa dei precari, dei lavoratori, dei disoccupati, in Italia come altrove, invischiati nella tela della produzione e riproduzione sociale.

martedì 9 ottobre 2012

Rompere il blocco. La fine del berlusconismo e l'impasse dei movimenti sociali

di Francesco Raparelli

Quanto possa durare l’incanto montiano nessuno è in grado di prevederlo. Quel che sappiamo, però, è che le politiche della "costituente neoliberaliberista" non sono sostenibili sul versante sociale e, nei prossimi mesi, non è improbabile che le lotte siano destinate a montare. Forse la tornata elettorale alle porte, con una prospettiva di successo della sinistra istituzionale, alimenterà la speranza di un cambiamento di rotta, ma stando alle indicazioni programmatiche del maggior partito della coalizione progressista non vi sarà alcun segno di discontinuità con l’attuale esecutivo. Pertanto non c’è bisogno di ricorrere a qualche solone per preconizzare prima o poi un inasprimento del conflitto sociale contro l’ideologia dell’austerity, le cui caratteristiche non sono date sapere, viste le condizioni della crisi ambiguamente giuocate sul falso dualismo tra sovranità nazionale e sovranità europea. Quindi è possibile rovesciare tale ambiguità ed immaginare una nuova costituente europea che riconosca un altro status della cittadinanza aperto alle contaminazioni extracomunitarie, subordinando la sfera economica ad un nuovo welfare-state universale ed inclusivo, lasciando parimenti spazio allo sviluppo delle forme di cooperazione solidale del comune?  In sintesi questi sono i temi affrontati dall'articolo di Raparelli
A migliaia, in alcuni casi decine, in altri centinaia di migliaia, assediano il Parlamento spagnolo e quello greco, manifestano contro l’austerity in Francia. E in Italia? A cosa è dovuta l’afasia dei movimenti e dei sindacati italiani? Sì è vero, ci sono tante resistenze operaie e non solo, ma faticano ad essere innesco di una mobilitazione più ampia, capace di incidere sul futuro del Paese e dell’Europa. Indagare le ragioni del blocco è oggi passaggio obbligato per chi non pensa che di rigore sia giusto morire e che Monti sia il nostro destino.
Con l’attacco speculativo dei mercati finanziari dell’estate del 2011 e la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto (dello stesso anno), in Italia finisce un’epoca, termina, cioè, la Seconda repubblica, quella dell’anomalia berlusconiana. L’agonia sarà ancora lunga, intendiamoci, e gli scandali della Regione Lazio sono lì a dimostrarcelo, ma il salto è ormai compiuto. Attraverso la leva del debito pubblico, infatti, una nuova “costituente neoliberale”, che ha in Monti e Napolitano i massimi protagonisti, sta liberando il campo non tanto e non solo dalla destra populista ed eversiva dell’uomo di Arcore e dei suoi “sgherri”, quanto dalla democrazia liberale e dallo Welfare State che, tra mille contraddizioni, hanno qualificato il dopo-guerra italiano. Certo sarebbe sbagliato pensare questa costituente come un unicum del Bel Paese: se di costituente si tratta, è fino in fondo una costituente continentale di cui l’Italia, come gli altri pigs, sono privilegiato laboratorio di sperimentazione. Lo stesso Draghi, lo scorso 23 febbraio, sulle colonne del Wall Street Journal, ha chiarito che il “modello sociale europeo” è un ferro vecchio di cui non si può far altro che sbarazzarsi. Con quali mosse? Attraverso la moderazione salariale e le privatizzazioni, delle istituzioni del welfare come delle public utilities.

APPELLO 27 OTTOBRE



 
NO MONTI DAY
Tutte/i a Roma, piazza della Repubblica alle 14,30 il 27 ottobre
L'appello per la manifestazione nazionale

 

lunedì 8 ottobre 2012

Nulla è successo in fiom?

di Giorgio Cremaschi

Ha ragione il leader dell’area programmatica “Rete28Aprile”, quel che è successo al vertice del sindacato metalmeccanico è passato in assoluto silenzio nei maggiori media della sinistra, soprattutto fra quelli che hanno interessi nell’imminenza della campagna elettorale. Certo la delusione di chi credeva nella Fiom -come ultima organizzazione di massa resistente al giogo capitalista- è  stata grande. Ma già da tempo i rapporti con i movimenti si sono incrinati. Ed è molto probabile che la vicenda sulla “fine della democrazia” nella segreteria Landini sia un riflesso della crisi di consenso registrata nelle lotte sociali (ricordate i fischi di Taranto), giungendo alla resa dei conti con quella minoranza interna che ha tentato di mantenere la Fiom dentro l’unità del conflitto, in difesa degli interessi dei soggetti deboli più colpiti dalle manovre “tecniche” della compagine governativa

In Fiom non è successo niente su cui valga la pena di soffermarsi e di riflettere? Un segretario nazionale è stato dimissionato dalla segreteria perché il suo dissenso è stato giudicato incompatibile con il segretario generale e quindi con l'incarico. Poco più della metà del comitato centrale dell'organizzazione ha eletto una nuova segreteria, più ampia della precedente e preventivamente omogenea al segretario generale.
Il diritto al dissenso è stato così equamente bilanciato dal diritto a cacciare chi dissente. Ma pare non sia successo niente. Una crisi nel gruppo dirigente di una bocciofila avrebbe suscitato più rumore. Il solo giornale che ha commentato , in anticipo e positivamente, la vicenda è stato il Sole 24 Ore. Poi silenzio, salvo una notiziola sul Manifesto che alterava la realtà. La realtà? Un lusso che non ci si può permettere di affermare ed approfondire.
Ecco allora che la vicenda della destituzione di Sergio Bellavita viene trasformata in un episodio increscioso di cui è meglio tacere. La politica non c'entra, sono altre le questioni, slealtà, ambizioni personali, forse peggio. Il fatto non sussiste.
In questi anni la Fiom è stata il simbolo e il riferimento di chi non si arrende. In Fiat ha detto no al ricatto di Marchionne e ha pagato assieme ai lavoratori un prezzo altissimo. Non ha scelto di salvare l'organizzazione anche quando i lavoratori perdevano tutto. Ha perso con loro non firmando e per questo è ancora viva.
In un paese disabituato al rigore, quello della giustizia e della moralità non quello di Monti a favore delle banche, il no della Fiom ha coperto un vuoto politico enorme ed è diventato una cartina di tornasole della buona politica. Questo però ha avuto un doppio prezzo. La Fiom è diventata una specie di acquasantiera per una sinistra confusa e subalterna al moderatismo e al liberismo del centrosinistra, dell'antiberlusconismo di facciata, dei governi tecnici. E questo ha evitato un chiarimento di fondo, come avviene invece nel resto d'Europa. Per dirla più brutalmente, molti gruppi dirigenti a sinistra del Pd si sono nascosti dietro alla Fiom per continuare ad essere e a fare quello di prima. Così oggi c'è chi sta con la Fiom e contemporaneamente con chi sostiene Monti.
In secondo luogo la Fiom e il suo gruppo dirigente hanno ricevuto un ritorno di immagine che ha finito per supplire alle difficoltà dell'agire concreto. Così come negli anni della concertazione il sindacato confederale sembrava contare moltissimo mentre la condizione concreta dei lavoratori precipitava in basso, così il mito della Fiom si dilatava ben oltre la sua forza reale.
Naturalmente non c'è un male assoluto in questo. Se un gruppo dirigente usa un prestigio e un consenso superiori alla forza per far crescere nella libertà del confronto l'organizzazione che dirige, l'immagine viene usata bene. Se invece ci si presenta alle riunioni carichi di gloria solo per pretendere fedeltà qualunque scelta si faccia., questo non va bene, ma Landini e Airaudo si sono incamminati su questa seconda strada.

sabato 6 ottobre 2012

Lo stoccafisso tra il sacro e il profano

di Lanfranco Caminiti

estratti da un più articolato contributo, titolato “Perché, nella crisi del debito pubblico, avremmo voluto dirci cattolici” *, queste due note -ci sembra- sintetizzino un’analisi che è più di una semplice suggestione. Forse una chiave di lettura? Sicuramente le riflessioni di Caminiti si configurano come risposta a certe interpretazioni della crisi, le quali riconducono il fattore religioso ad elemento giustificativo “correlato” al malessere economico che pervade i “peccatori” stanziali nella periferia dell’impero del capitale, quella stessa periferia a cui la forma imperiale del dominio deve i natali e la sua consacrazione divina nell’incontro col cristianesimo  

Lo stoccafisso unisce il Mediterraneo ai mari del Nord, tutto il resto ci divide
I paesi europei con un debito pubblico eccessivo, e i cui titoli sovrani faticano a trovare acquirenti, se non pagando interessi spropositati, in un momento in cui chi già li possiede in quantità tende a disfarsene per il timore di un continuo deprezzamento e di un’insolvenza incombente, sono mediterranei e cattolici – Italia, Spagna, Portogallo – o ortodossi – Grecia e Cipro. I paesi europei che hanno un debito pubblico non allarmante e un rapporto d’esso con il Pil in linea con i parametri di Maastricht, e i cui titoli sovrani trovano facilmente acquirenti anche se gli interessi sono addirittura negativi, sono nordici e protestanti – Germania, Olanda, Finlandia. Se al gruppo dei paesi indebitati fino al collo, che sono tutti mediterranei, aggiungiamo l’Irlanda, che mediterranea non è, sappiamo però che cattolica lo è di sicuro. Il tratto dominante della faglia che sta spaccando l’Europa è quindi solo cartograficamente una spaccatura tra il nord e il sud. Invece, più profondamente è una separazione religiosa. Tra protestanti e cattolici. Quelli dell’orribile acronimo Piigs, sono cattolici, i virtuosi che chiedono più rigore e manifestano perplessità a operare salvataggi, quelli della tripla AAA sono invece protestanti. L’Europa ha già vissuto nel Seicento questa separazione e questo conflitto nella lunga Guerra dei Trent’anni tra l’Impero spagnolo e l’Olanda [e i principi tedeschi e la Svezia], a cui la pace di Westfalia pose termine adottando la regola cuius regio, eius religio – che ciascun territorio abbia una sua religione – che a noi oggi può sembrare un banale principio di tolleranza, come consentire che ciascuno si circoncida se lo crede, ma che allora significò la risistemazione del potere politico – la Catalogna, il Portogallo, le Fiandre conquistarono l’indipendenza mentre nel Sud Italia scoppiò la rivolta di Masaniello – e soprattutto dell’economia europea. La nuova spaccatura europea ruota intorno la moneta unica di riferimento, che ha sostituito nei nostri cuori e nelle nostre menti la religione unica di riferimento, e dentro una crisi finanziaria che a quella del Seicento somiglia per tanti versi, soprattutto per quel che riguarda l’Impero spagnolo, sempre più in penuria dell’oro e dell’argento delle colonie, con una tecnocrazia dispendiosa e presa tutta dalle sue dinamiche intestine nella capitale unica di riferimento, una casta politica sparsa nelle regioni inzeppata di privilegi, una produzione in rallentamento e quasi allo sfascio, e una tassazione minuta fatta di rendite e gabelle divenuta insopportabile e che non lasciava nulla ai ceti territoriali in ascesa contro l’immobile e parassita baronia. La nuova pace di Westfalia arriverà rompendo la sacralità della moneta unica sancendo il principio cuius regio, eius moneta – si chiama così il nostro equivalente generale di scambio perché la prima zecca romana fu posta sotto la protezione del tempio di Giunone moneta, dal latino monere, cioè ammonire avvertire, il denaro è un ammonimento –, a ogni territorio corrisponda una propria moneta? Non potremmo arrivarci evitandoci il flagello, un massacro – che oggi per fortuna non ha il carattere della morte in battaglia, ma quello della disoccupazione di massa, che ha già raggiunto – non in Germania, certo, gli eventi non si ripetono mai eguali – i livelli dopo la Prima guerra mondiale?

giovedì 4 ottobre 2012

Contro il merito. Meritocrazia non fa rima con democrazia

di Giuseppe Caliceti

L’ideologia sulla meritocrazia è divenuta in questi ultimi anni  fondamento del pensiero unico dominante, trasversalmente contenuta nel quadro programmatico del ceto politico istituzionale, assolutamente indifferente al posizionamento classico dentro l’emiciclo della rappresentanza. Anzi, la disputa sulla “vera meritocrazia” costituisce terreno di scontro elettorale per la conquista del consenso. Dall’orizzonte ideale della sinistra parlamentare – non a caso- è pressoché scomparso il principio di “uguaglianza” surrogato da quello di “equità”. La base propagandistica su cui si regge quest’ultimo principio è la rivendicazione delle “pari opportunità”  dove si esalterebbe la virtuosità del sistema meritocratico. Orbene non sfuggirà ai nostri lettori che l’intervento di Caliceti (si tratta di due articoli correlati -da noi temporalmente invertiti- pubblicati rispettivamente  su «Alfabeta2» il 22 settembre 2012 e su «il manifesto» il 29 settembre 2012), smaschera l’impianto meritocratico, mettendo in evidenza il nesso che lega la “teologia del merito”  alla reazionaria “ideologia dell’esclusione”   
Meritocrazia non fa rima con democrazia
Avendo ricevuto numerose critiche per il mio articolo Contro il merito, vorrei provare ad approfondire. Nel suo saggio Contro il merito: una provocazione, Francesca Rigotti ricorda come l’attuale mitizzazione del merito risenta “della crescente svalutazione del concetto di eguaglianza in atto negli ultimi decenni”. La sua reale funzione? Giustificare i privilegi di alcuni. La storia dell’umanità può essere letta come eterna contrapposizione tra uguaglianza e disuguaglianza. Oggi l’idea di merito non è altro che una nuova pericolosa forma di giustificazione razziale di una presunta differenzazione tra esseri superiori e inferiori. Per nascita. Il bluff della meritocrazia è infatti evidente analizzando un altro aspetto: tra i meritevoli vi è una spiccata tendenza a promuovere l’ereditarietà delle cariche. Insomma, c’è una palese contraddizione tra il dire e il fare.
Roger Abravanel, nel suo libro Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008), sostiene che la classe dirigente è l’unica depositaria del merito. E ha diritto a un premio: i vantaggi di una crescita economica senza fine. Come è organizzata la società meritocratica? In classi sociali. Peggio: in caste. Da una parte stanno intelligenti, arroganti, competitivi; dall’altra stupidi, demoralizzati, umiliati. I valori che la reggono? Competitività e aggressività. A svantaggio di gentilezza, coraggio, creatività, sensibilità, simpatia, tolleranza, solidarietà. La posizione meritocratica condurrebbe addirittura a matrimoni intelligenici  fra persone con un alto Q.I.
Insomma, l’antica aristocrazia di nascita sarebbe sostituita da una “aristocrazia dell’ingegno”. I bambini, fin da piccoli, sarebbero indirizzati verso scuole differenti a seconda delle presunte capacità individuali. “Sessant’anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la selezione naturale della società” (p.65). E ancora “(…) ricerche approfondite evidenziano come la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offra un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni” (p.83).
Quali ricerche? Nel libro di Abravanel le teorie pseudoscientifiche sono sempre riassunte con approssimazione e senza citare la fonte. Ma è chiaro che qui stiamo già parlando di una teoria eugenetica che ha come suo nemico principale la democrazia, di cui la meritocrazia è l’esatta antitesi. Per tutto questo, non posso fare a meno che ripetere: attenti al merito, anche quando se ne parla a Sinistra. Meritocrazia fa rima con democrazia, ama ripetere il rettore piddino dell’Università di Bologna. Io temo che sia esattamente il contrario.

Contro il merito

All’entrata dell’ateneo di Parma, dove si svolgevano i test di ammissione alle facoltà di medicina, alcuni ragazzi e ragazze immagine pagati dalla scuola privata Cepu distribuivano volantini che invitavano ad aggirare i test iscrivendosi a un’università europea. Insomma, pagando. Perché con un anno di studio in altre nazioni europee poi si può rientrare in un’Università italiana al secondo anno di medicina. Così si aggira il test del numero chiuso. Naturalmente con l’aiuto del Cepu: solo per chi paga. Insomma: fatta la legge, trovato l’inganno, e se non è proprio un inganno è qualcosa di molto simile. Comunque sia, un messaggio chiaro ai giovani: perché studiare, quando basta pagare?
Ecco, dopo averli chiamati bamboccioni e scansafatiche si prendono di nuovo in giro gli studenti e le loro famiglie. Parlando falsamente di “merito” e offrendo loro scappatoie per “comprarsi il merito”. E mai per “meritarselo” o accettare i suoi verdetti negativi. Se può essere comprato, che merito è? Si arriva così all’assurdo che, vendendo il sogno di un lavoro che molti giovani mai avranno, i giovani vengano derubati: dei soldi e del loro sogno. Potrebbero degli adulti fare di peggio ai propri figli? Eppure è quello che in questi anni sta accadendo nel silenzio generale. Dei giovani e dei loro genitori.
Ogni battaglia politica è anche una battaglia culturale. E viceversa. Così come ogni battaglia culturale è anche una battaglia linguistica. Per esempio, in Italia il centrodestra si è impossessato della parola “libertà” e, anche grazio a questo, è riuscito a governare ininterrottamente per quasi vent’anni. Anche sulla parola “uguaglianza” sinistra e centrosinistra da tempo hanno abbassato inspiegabilmente la guardia. E anche loro parlano sempre più del “merito”. Ha iniziato a farlo il governo Berlusconi, con il ministro all’istruzione Gelmini, per promuovere il più grande licenziamento di massa della storia della nostra Repubblica, quello dei docenti della scuola pubblica. Sinistra e centrosinistra non si sono opposti.

mercoledì 3 ottobre 2012

#dirittodiscelta - Emergenza Nordafrica: arrivano i permessi umanitari ma il 31 dicembre... si salvi chi può!

di Redazione Meltingpot

Il Governo verso il rilascio dei permessi fuori tempo massimo. Un permesso umanitario per non morire tuttavia sembrerebbe, forse con un decreto forse con provvedimenti interni, essere diventato una possibilità concreta. Intanto pronte le linee guida per l’uscita del 31 dicembre

Mesi e mesi di campagna, oltre 15.000 firme raccolte tra amministratori locali, artisti, professionisti, attivisti, volontari, un coro di voci che fin dal dicembre 2011 ha chiesto al Governo Monti il rilascio di un titolo di soggiorno ai richiedenti asilo approdati sulle nostre coste durante il conflitto libico. Cittadini di altri stati che in Libia avevano cercato una nuova vita costretti a fuggire nuovamente, dalle bombe della coalizione o dalle violenze di chi li accusava di essere mercenari al soldo di Gheddafi, mentre lo stesso dittatore preparava i loro viaggi verso Lampedusa, lanciati in mare come proiettili umani, sono stati per oltre un anno e mezzo figli di nessuno.
Inseriti in un circuito di accoglienza "fai da te", affidato alla Protezione Civile, hanno atteso per lungo tempo di conoscere il loro futuro, alcune volte supportati dagli enti locali, altre dalle associazioni del volontariato, altre volte, troppe volte, abbandonati a loro stessi.
Un permesso umanitario per non morire, dicevano a Trento pochi mesi fa, ed oggi quel permesso sembra diventato una possibilità concreta.
Sono sempre più insistenti le voci che trapelano dai corridoi del Viminale secondo cui verrà data indicazione (forse con un decreto forse con provvedimenti interni) affinché venga rilasciato loro un permesso di soggiorno umanitario dopo la sottoscrizione della rinuncia alla domanda d’asilo: una sorta di ricatto che poco ha a che vedere con la voglia di riconoscere diritti.
In ogni caso si tratta di una grande vittoria per noi, e di un nuovo problema per loro.
È la vittoria della campagna #dirittodiscelta e di tutte quelle voci che hanno richiesto questo provvedimento, ma contemporaneamente appare anche come una decisione presa fuori tempo massimo. Oggi non é il maggio 2011 e quella che poteva diventare una grande occasione per tutti, il rilascio di un permesso che consentisse a migliaia di richiedenti asilo di progettare e costruire un loro futuro autonomo ed indipendente, diventa un nuovo problema per questo governo che ha scelto di rilasciare il titolo solo a ridosso (mancano ormai meno tre di mesi) della data di scadenza dei progetti di accoglienza.

Una scelta insomma che sembra più dettata dall’esigenza di "liberarsi" di migliaia di persone ormai stanche ed esasperate per l’attesa, in vista del 31 dicembre, quando con la fine del percorso di "accoglienza" i nodi verranno al pettine.
Non è un caso che contemporaneamente il Governo, lo scorso 26 settembre, abbia predisposto insieme alla Conferenza Unificata Stato Regioni un documento di indirizzo per il superamento dell’emergenza nordafrica, un mix di descrizioni tragiche, buoni propositi e scenari irrealizzabili che, proprio in vista della data del 31 dicembre, si cimenta in un’ultima disperata arrampicata sugli specchi.

lunedì 1 ottobre 2012

È morto Eric Hobsbawn

nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917 da genitori ebrei, è deceduto presso il Royal Free Hospital di Londra dopo una lunga malattia. A dare la notizia è stato poco fa il quotidiano britannico The Guardian. Eric John Ernest Hobsbawm, scrittore e storico celebre per il libro “Il secolo breve”, uno dei più lucidi intellettuali marxisti, è morto questa notte all'età di 95 anni. Tra i suoi libri più significativi oltre a “Il secolo breve” del 1994, anche “Ribelli. Forme primitive di rivolta sociale”, la quadrilogia: “L’età della rivoluzione, il trionfo della borghesia, l’età degli imperi, l’età degli estremi”, e l’autobiografia “Anni Interessanti”.  Il suo ultimo contributo all'analisi di un mondo che ha iniziato a correre in maniera vorticosa Hobsbawn lo aveva fornito pochi mesi fa a maggio scorso. Contropiano aveva pubblicato la sua intervista rilasciata a L'Espresso e ripubblicata in queste ore. Doverosamente abbiamo voluto riprendere la sua recente testimonianza unendoci nell'ultimo omaggio al grande intellettuale marxista anglosassone


IL CAPITALISMO DI STATO SOSTITUIRÀ QUELLO DEL LIBERO MERCATO
intervista dello storico inglese Eric Hobsbawn rilasciata al settimanale l’Espresso

Lo storico Eric Hobsbawn ritiene che a fronte della crisi capitalista, il “capitalismo di stato ha un grande futuro”. Lo dimostrano i Brics. “La sinistra non ha un programma da proporre”.
«Mi ha chiesto se sia possibile il capitalismo senza le crisi”, inizia: «No. A partire da Marx sappiamo che il capitalismo opera attraverso crisi appunto, e ristrutturazioni. Il problema è che non possiamo sapere quanto sia grave quella attuale, perché ci siamo ancora in mezzo».

 La crisi in corso è differente da quelle precedenti?
 «Sì. Perché è legata a uno spostamento del centro di gravità del pianeta: dai vecchi Paesi capitalisti verso nazioni emergenti. Dall’Atlantico verso l’Oceano Indiano e il Pacifico. Se negli anni Trenta tutto il mondo era in crisi, ad eccezione dell’Urss, oggi la situazione è diversa. L ‘impatto è differente in Europa rispetto ai Paesi del Bric: Brasile, Russia, Cina, India. Altra differenza, rispetto al passato: nonostante la gravità della crisi, l’economia mondiale continua a crescere. Però solo nelle aree fuori dall’Occidente».

Cambieranno i rapporti di forza, anche militari e politici?
«Intanto stanno cambiando quelli economici. Le grandi accumulazioni dei capitali da investire sono oggi quelle dello Stato e delle imprese pubbliche in Cina. E così mentre nei Paesi del vecchio capitalismo la sfida è mantenere gli standard del benessere esistenti -ma io credo che queste nazioni siano in un rapido declino -per i nuovi Paesi, quelli emergenti, il problema è come mantenere il ritmo di crescita senza creare problemi sociali giganteschi. È chiaro, ad esempio, che la Cina si è data a una specie di capitalismo in cui l’insistenza di stampo occidentale sul Welfare è completamente assente: sostituita invece dall’ingresso velocissimo di masse di contadini nel mondo del lavoro salariato. È un fenomeno che ha avuto effetti positivi. Rimane la questione, se questo sia un meccanismo che possa operare a lungo».

Quello che sta dicendo porta alla questione del capitalismo di Stato. Il capitalismo come l’abbiamo conosciuto significava scommessa personale, creatività, individualismo, capacità di invenzione da parte dei borghesi. Può lo Stato essere altrettanto creativo?
 «L’“Economist” alcune settimane fa si è occupato del capitalismo di Stato. La loro tesi è che potrebbe essere ottimo nella creazione delle infrastrutture e per quanto riguarda gli investimenti massicci, ma meno buono nella sfera della creatività. Ma c’è dell’altro: non è scontato che il capitalismo possa funzionare senza istituzioni come il Welfare. E il Welfare è di regola gestito dallo Stato. Penso quindi che il capitalismo di Stato ha un grande futuro».

E l’innovazione?
 «L’innovazione è orientata verso il consumatore. Ma il capitalismo del Ventunesimo secolo non deve pensare necessariamente al consumatore. E poi: lo Stato funziona bene quando si tratta dell’innovazione nell’ambito militare. Infine: il capitalismo di Stato non è legato al dovere di una crescita senza limiti, e questo è un vantaggio. Detto questo, il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della sconfitta storica di quello che io chiamo “la teologia del libero mercato”, la credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto si regola da sé e non ha bisogno di alcun intervento esterno».