martedì 25 settembre 2012

SOMMARIANDO DI SETTEMBRE


Per una politica della composizione
di Collettivo UniNomade

nel presentare l’articolo “Tra postoperaismo e neoanarchismo” avevamo evidenziato la polemica innescata dal suo autore in relazione al tema della ricomposizione di classe. A noi è sembrato assai opportuno dare spazio alla discussione rilanciando questo intervento che recupera e sintetizza una serie di contributi prodotti dal Collettivo

 

Studio di coorte sulla mortalità e morbosità nell’area di Taranto
di F. Mataloni/ M. Stafoggia/ E. Alessandrini/ M. Triassi/ A. Biggeri/ F. Forastiere
lo studio, condotto su una coorte di più di 300.000 persone, mostra un aumento delle ospedalizzazioni e della mortalità nei quartieri più vicini agli impianti, anche dopo aver tenuto conto dei differenziali sociali. La mortalità per tutte le cause aumenta dell'8-27% (a seconda dei quartieri, vd tab 5 e 6 dello studio), i tumori maligni aumentano del 5-42%, le malattie cardiovascolari del 10-28%, e le malattie respiratorie dell'8-64%
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/studio-di-coorte-sulla-mortalita-e.html#more

 

Quale democrazia per l'Europa? Una risposta a Habermas

di Etienne Balibar

la crisi europea cambia l'assetto dei poteri, modifica l'equilibrio instabile dei rapporti tra gli stati, e tra il livello nazionale e quello europeo. Le decisioni sull'economia non lasciano spazio ai processi democratici. Ma senza democrazia non c'è Europa
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/quale-democrazia-per-leuropa-una.html#more

 

 

Premessa de “Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità”
di A. Gribaldo/G. Zapperi

il tema dell'immagine delle donne si è imposto negli anni del declino berlusconiano come un problema che richiede una risposta sia politica che teorica. Questo libro -fresco di stampa, del quale pubblichiamo la premessa delle autrici- propone una lettura femminista dell'intreccio tra genere e cultura visiva
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/premessa-de-lo-schermo-del-potere.html


 

Tra postoperaismo e neoanarchia
di Carlo Formenti

l’articolo è stato pubblicato sull’ultimo «Alfabeta2» - n. 22 uscito nei primi giorni di settembre. Nel merito, al di là dei punti di contatto con la pars destruens elaborata da decenni dalla scuola negriana, già dal titolo si intuisce a chi è“indirizzata” la critica dell’intervento, ossia al laboratorio di UnINomade

http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/tra-postoperaismo-e-neoanarchia_18.html


Contro la storia scritta dai vincitori: l'annullamento del debito nell'antichità

di Eric Toussaint

come altri governanti delle città-stato dell’area mesopotamica, il re babilonese Hammurabi proclamò in varie occasioni un annullamento generale dei debiti dei cittadini. La stele di Rosetta conferma la tradizione dell’annullamento dei debiti instaurata anche nell’Egitto dei faraoni

http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/contro-la-storia-scritta-dai-vincitori_11.html


Logistica e circolazione delle merci, come linee tendenziali di sviluppo strategico del capitalismo italiano. Introduzione
di CSA Vittoria
partendo dalla narrazione delle lotte condotte in questi anni dalle cooperative della logistica che operano nella rete di circolazione delle merci il contributo esamina le coordinate strategiche e la valenza del settore della logistica, dei trasporti, delle comunicazioni nel sistema produttivo paese

http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/logistica-e-circolazione-delle-merci.html


Londra: se il Marxismo è ancora tra noi
di Paolo Mossetti
di fronte alla crisi del capitalismo e al dominio del pensiero unico i movimenti antagonisti globalizzati, dei quali la componente giovanile è l’asse portante, rivolgono sempre più l’attenzione al fondatore della prima internazionale, non come la riesumazione di un cane morto, ma come un riferimento potente di negazione dell’esistente al di là dei veteromarxismi otto-novecenteschi
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/londra-se-il-marxismo-e-ancora-tra-noi.html


Il referendum proposto dalla Fiom: discutiamone
di Luca Casarini
Sulle pagine di Global Project s’è aperta la discussione sull’articolata iniziativa referendaria, promossa dai “meccanici” della storica confederazione, contro il pacchetto finanziario ultraliberista in tema di lavoro, varato con le ultime “manovre tecniche”
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/il-referendum-proposto-dalla-fiom.html

 

La costituzione del comune

di Collettivo Uninomade
com’è possibile immaginare e determinare una costituente del comune senza incorrere nel rischio della formalizzazione giuridica ed omologazione delle istanze di lotta? I diritti di cittadinanza, dal reddito sociale al diritto all’insolvenza per sintetizzare, come possono inverarsi senza investire il piano formale della normazione?
http://noteblockrivista.blogspot.it/2012/09/la-costituzione-del-comune.html






Per una politica della composizione

di Collettivo UniNomade

Nel presentare l’articolo “Tra postoperaismo e neoanarchismo”  avevamo evidenziato che la polemica innescata dal suo autore - in relazione al tema della ricomposizione di classe- fosse indirizzata al laboratorio “postoperaista” di UniNomade, costituito dalla rete di ricercatori e attivisti impegnati, come si dice nella nota di Alfabeta2 (che ha pubblicato il “pezzo” facendolo seguire a quello di Carlo Formenti), “nel percorso di autoformazione e dibattito pubblico sui concetti, i linguaggi e le categorie che le esperienze teoriche e pratiche dei movimenti hanno espresso negli ultimi anni”. A noi è sembrato assai opportuno dare spazio alla discussione rilanciando questo intervento che recupera e sintetizza una serie di contributi prodotti dal Collettivo nel corso del seminario “Impresa e soggettività “ – Torino 24/25 marzo 2012
(i materiali sono consultabili in http://uninomade.org/impresa-e-soggettivita/)

A lungo impresa e lavoro sono apparsi concetti inoperosi dal punto di vista del conflitto di classe. Oltrepassata da una nuova economia del tempo (che abolisce le frontiere tra vita e lavoro) e dello spazio (con la messa in produzione della metropoli e dei territori), l’impresa non è da tempo «luogo» cruciale del conflitto, a sua volta allontanatosi dalle grandezze (orario, salario, organizzazione del lavoro) che davano le coordinate della lotta di classe nel fordismo. Ciò non significa che i conflitti sul lavoro siano scomparsi. Nei paesi emergenti sono spesso conflitti «orario e salario» che retroagiscono a livello globale; non pochi osservatori scommettono oggi su una parziale reindustrializzazione dei paesi occidentali. In Europa prendono forma intorno alla privatizzazione del settore pubblico e all’intensificarsi dello sfruttamento nelle produzioni a forte intensità di scala. Le lotte del lavoro, però, non hanno più assunto carattere generale né imposto l’agenda politica. Nonostante ciò, nella formazione soggettiva (politica) dei protagonisti delle nuove lotte nella crisi, le forme del potere e del comando nei rapporti di produzione non hanno parte marginale. La questione del precariato andrebbe osservata anche sotto questa luce.
A monte dei processi di politicizzazione di parte dei nuovi precari non è solo l’impossibilità di convertire gli investimenti educativi in (buona) occupazione, base discorsiva dei progetti di ristrutturazione del mercato del lavoro, ma anche la banalizzazione delle capacità individuali e sociali, come esito dell’«impresizzazione» del tempo e spazio sociale. Il capitalismo contemporaneo (le imprese) si nutre delle prerogative biologiche, delle relazioni, dei pensieri dei produttori, al punto che lo stesso tempo di non lavoro è impresizzato, il consumo organizzato secondo criteri industriali, e molte attività sociali, nella rete e sul territorio, sussunte nel ciclo della valorizzazione. È la vita quotidiana, dunque, che tende a organizzarsi in senso imprenditoriale, poiché la lavorizzazione del sociale rende permeabili i confini tra impresa e società. Questo imperialismo della forma impresa sulle vite non può essere descritto come un potere impersonale: a monte della «cattura» del valore sociale esistono infatti catturatori organizzati. È necessario dunque chiedersi che parte abbiano le imprese in questa dinamica*.
Nel capitalismo industriale l’impresa (il capitalista o il management al suo servizio) «orchestrava» la cooperazione sociale, organizzando direttamente mezzi «freddi» e uomini in rapporto tra loro. Il passaggio al capitalismo finanziario e cognitivo (che non allude in generale solo ad attività knowledge intensive, a fortiori nella provincia italiana) è trainato, viceversa, dal tendenziale divenire autonomo della cooperazione sociale; conoscenze, attitudini, linguaggi, sono mezzi di produzione «caldi» incorporati nel lavoro vivo. È questa capacità umana cooperante la base del processo di accumulazione dopo Ford. Ciò non significa che lo sfruttamento industriale sia scomparso. I creativi della Apple hanno sempre bisogno di una Foxconn, dall’altra o in questa parte del mondo, che produca i supporti materiali dei nuovi media, con i livelli di sfruttamento che tutti conoscono. Molte attività del cosiddetto «terziario superiore» sono oggi organizzate in forme del tutto prescrittive e seriali. Neanche nel capitalismo industriale, peraltro, il lavoro era solo prestazione fisica (i padroni pagavano quella, ma utilizzavano molte altre facoltà dei lavoratori). Tutto ciò non nega però l’evidenza di un salto di paradigma, consumatosi da decenni: piuttosto, ci dice che nel nuovo capitalismo convivono e s’ibridano più forme dell’accumulazione, modalità di comando sulla produzione, più storie del lavoro.

sabato 22 settembre 2012

Studio di coorte sulla mortalità e morbosità nell’area di Taranto

F. Mataloni/ M. Stafoggia/ E. Alessandrini/ M. Triassi/ A. Biggeri/ F. Forastiere

Lo studio, condotto su una coorte di più di 300.000 persone, mostra un aumento delle ospedalizzazioni e della mortalità nei quartieri più vicini agli impianti, anche dopo aver tenuto conto dei differenziali sociali. La mortalità per tutte le cause aumenta dell'8-27% (a seconda dei quartieri, vd tab 5 e 6 dello studio), i tumori maligni aumentano del 5-42%, le malattie cardiovascolari del 10-28%, e le malattie respiratorie dell'8-64%.
Cosa si sapeva già
Precedenti studi sull’area di Taranto hanno messo in evidenza un quadro ambientale e sanitario particolarmente compromesso, con eccessi di mortalità a livello comunale per malattie dell’apparato respiratorio, cardiovascolare e per diverse sedi tumorali.
Cosa si aggiunge di nuovo
1) È  stato possibile condurre uno studio retrospettivo di coorte grazie alla disponibilità dei dati anagrafici, alla geocodifica dell’indirizzo di residenza all’inizio del follow-up e al linkage con dati di mortalità e ricovero ospedaliero. 
2) Lo studio mostra un aumento della mortalità e delle ospedalizzazioni per malattie dell’apparato respiratorio, cardiovascolare e per tumori nei quartieri più vicini alla zona industriale anche dopo aver tenuto conto dei differenziali sociali.
Schema dello studio
Introduzione
l’area di Taranto è stata oggetto di diversi studi per la presenza di numerosi impianti industriali e di cantieristica navale. Sono stati documentati per l’intera città di Taranto eccessi di mortalità e incidenza di patologie tumorali. Tuttavia non sono disponibili analisi epidemiologiche per le diverse aree geografiche della città che abbiano tenuto conto dell’importante effetto di confondimento della stratificazione sociale.
Obiettivo
fornire, attraverso uno studio di coorte, un quadro di mortalità e ospedalizzazione delle persone residenti nei Comuni di Taranto,Massafra e Statte, in particolare dei residenti nei quartieri più vicini ai complessi industriali, dopo aver tenuto conto del livello socioeconomico.
Metodi
utilizzando gli archivi anagrafici comunali è stata arruolata la coorte delle persone residenti al 01.01.1998, o successivamente entrate fino al 2010, nei tre comuni della zona. A ogni individuo della coorte è stato attribuito il livello socioeconomico (per sezione di censimento) e il quartiere di residenza sulla base della geocodifica degli indirizzi all’inizio del follow-up. Sono stati calcolati i tassi di mortalità e ospedalizzazione per quartiere, standardizzati per età. L’associazione tra le esposizioni di interesse (quartiere e livello socioeconomico) e mortalità/morbosità è stata valutata attraverso modelli di Cox, aggiustati per età e periodo di calendario, separatamente per maschi e femmine.
Risultati
la coorte è composta da 321.356 persone (157.031 maschi, 164.325 femmine). L’analisi per livello socioeconomico ha messo in evidenza un differenziale rilevante per entrambi i sessi per mortalità/morbosità totale, cardiovascolare, respiratoria, malattie dell’apparato digerente, tumori (in particolare stomaco, laringe, polmone e vescica) con eccessi nelle classi più svantaggiate. Anche dopo aver tenuto conto del livello socioeconomico, sono emersi tassi di mortalità e ospedalizzazione più elevati per alcune patologie per i residenti nelle aree più vicine alla zona industriale: quartieri dei Tamburi (Tamburi, Isola, Porta Napoli e Lido Azzurro), Borgo, Paolo VI e il comune di Statte.
Conclusioni
i risultati di questo studio mostrano un’importante relazione tra stato socioeconomico e profilo sanitario nell’area di Taranto. Dopo aver tenuto conto di tale effetto, i quartieri più vicini alla zona industriale presentano un quadro di mortalità e ospedalizzazione più compromesso rispetto al resto dell’area studiata.

giovedì 20 settembre 2012

Quale democrazia per l'Europa? Una risposta a Habermas

di Etienne Balibar

La crisi europea cambia l'assetto dei poteri, modifica l'equilibrio instabile dei rapporti tra gli stati, e
tra il livello nazionale e quello europeo. Le decisioni sull'economia non lasciano spazio ai processi democratici. Ma senza democrazia non c'è Europa

Jürgen Habermas ha parlato alto e chiaro sulla situazione europea e le decisioni che essa esige nell’articolo scritto assieme all’economista Peter Bofinger – membro del Consiglio tedesco dei saggi – e all’ex ministro bavarese Julian Nida-Ruemielin, uscito sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 3 agosto scorso (in italiano su Repubblica del 4 agosto) con il titolo “Rifiutiamo una democrazia di facciata”, nel quale prende di mira le allusioni di alcuni membri del governo sulla elezione a suffragio universale di un presidente dell’Europa per legittimare il patto di bilancio europeo.
Nell’essenziale la tesi di Habermas è che la crisi non ha nulla a che vedere con le “colpe’ degli Stati spendaccioni che gli stati “economi” stenterebbero a risanare (in tedesco “Schuld” significa sia “debito” sia ”colpa”). Ha invece tutto a che vedere con l’incapacità degli Stati, messi in concorrenza dagli speculatori, di neutralizzare il gioco dei mercati e a premere per una regolamentazione mondiale della finanza. Per cui non si uscirà dalla crisi se l’Europa non si decide a “varcare il passo” verso l’integrazione politica che permetterebbe insieme di difenderne la moneta e affrontare le politiche di riduzione delle ineguaglianze al proprio interno che è la sua ragione di esistere. Terreno naturale di questa trasformazione è il “nocciolo europeo » (Kerneuropa), cioè l’eurozona più gli Stati che dovrebbero entrarvi (in particolare la Polonia). Ma la condizione sine qua non è una democratizzazione autentica delle istituzioni comunitarie, che Habermas intende essenzialmente come formazione d’una rappresentanza parlamentare dei popoli finalmente effettiva (attraverso un sistema a due livelli che egli distingue dal “federalismo” di tipo tedesco), dotata di poteri di controllo politico a livello continentale, in particolare sulla dimensione e l’utilizzazione delle imposte che sosterrebbero la moneta comune, secondo il principio degli insorti americani: «No taxation without representation!».
Bisogna felicitarsi di questo intervento e non lasciarlo isolato. Esso viene dopo una serie di coraggiose prese di posizione con le quali Habermas ha attaccato “il nuovo nazionalismo della politica tedesca e i pregiudizi unilaterali” che esso copre. E comporta un notevole sforzo per tenere assieme il piano politico, quello economico e quello sociale, come a prefigurare il contributo che l’Europa potrebbe portare a una strategia di uscita dalla crisi su scala mondiale, basata sugli imperativi di una protezione dei diritti sociali (che non significa la loro immutabilità) e di una regolazione dei meccanismi di credito che proliferano “sopra la testa” dell’economia reale. Per ultimo, Habermas afferma senza ambiguità che un’Europa politicamente unificata (la si chiami o no «federale ») non è possibile che a condizione d’una democrazia sostanziale che investa la natura stessa dei suoi poteri e della loro rappresentatività, dunque legittimità. Da parte mia, da tempo sostengo una tesi più radicale (qualcuno dirà più vaga): una Europa politica, senza la quale non c’è che declino e impotenza per le popolazioni del continente, non sarà legittima, e quindi possibile, se non sarà più democratica delle nazioni che la compongono, se non farà un passo avanti rispetto alle loro conquiste storiche in tema di democrazia.


mercoledì 19 settembre 2012

Premessa de “Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità”

di A. Gribaldo/G. Zapperi

Il tema dell'immagine delle donne si è imposto negli anni del declino berlusconiano come un problema che richiede una risposta sia politica che teorica. Questo libro -fresco di stampa, del quale pubblichiamo la premessa delle autrici(ndr)- propone una lettura femminista dell'intreccio tra genere e cultura visiva. La critica dell'immagine come ambito sessuato permette di cogliere la complessità dei rapporti di potere che si esprimono attraverso le immagini, senza cedere alla nostalgia di un femminile autentico. Il femminismo ha mostrato infatti come il corpo naturale sia già un corpo immaginato, storicamente connotato, plasmato dai rapporti di potere. Se il tempo è adesso, non abbiamo bisogno di redenzione per fare posto a un'immagine di donna integra e dignitosa, quanto piuttosto di reinvenzione. Declinare il genere attraverso le linee della classe, del colore e della sessualità permette di pensare la soggettività in termini di processo, di conflitto e di possibilità, in una forma che è insieme immagine e sguardo  (http://www.ombrecorte.it)
Questo testo è nato dalla necessità comune, teorica e politica insieme, di elaborare una riflessione femminista sull’intreccio tra genere e visualità a partire dal contesto italiano. Il tema dell’immagine femminile si è imposto in termini di emergenza in concomitanza con gli scandali sessuali che hanno accompagnato il declino berlusconiano, fortemente caratterizzato dalla rinnovata visibilità di immaginari e comportamenti sessisti.
Il nostro contributo si riaggancia alla radicalità femminista come chiave di lettura del presente, nella possibilità di riconnettere elementi nodali della contemporaneità a partire dal genere. Invece di soffermarci sulla riduzione del genere femminile ad immagine erotizzata e asservita e sul suo rapporto più o meno diretto con la condizione delle donne in Italia, siamo partite da una critica della rappresentazione come ambito sessuato e dalle risposte date dai movimenti legati al femminismo. Si tratta infatti di tematizzare una serie di questioni sollevate dagli scandali, ma che sono state costantemente rimandate a tempi più opportuni, fuori dalla contingenza e da un’emergenza che sembrava richiedere una risposta senza scarti, immediata, compatta, condivisa.
Da questo punto di vista la caduta di Berlusconi ha avuto un effetto ulteriore di chiusura nei confronti di posizioni critiche, in un contesto in cui l’unità viene presentata come condizione indispensabile per uscire dalla crisi politica ed economica che sta attraversando l’Italia. La questione della visualità si è affermata esclusivamente nei termini di un problema, poi rapidamente accantonato per dare spazio ad altre tematiche ritenute di maggiore rilevanza politica, con l’effetto di dare per scontato, lasciandolo indiscusso, un campo di analisi decisivo. A fronte dell’emergenza rappresentata dalla crisi economica, i temi relativi al genere sono infatti stati messi da parte come secondari, se non addirittura superflui, mentre il ribaltamento “d’immagine” ai vertici dello stato è stato funzionale al depotenziamento delle istanze più critiche interne al femminismo.
Se da una parte è evidente come la produzione del genere funzioni all’interno di una serie di dispositivi di dominio che coinvolgono fortemente il campo visivo, dall’altra il problema identificato con l’immagine femminile è stato percepito nei termini di uno schermo, come qualcosa che blocca la visione, impedendo alla realtà – delle “donne” come categoria, della condizione femminile – di emergere in modo intelligibile. La “dignità delle donne” offesa dai modelli femminili veicolati dai media è stato l’oggetto attorno al quale si è cristallizzata l’attenzione dell’opinione pubblica. È proprio attraverso l’analisi della formazione di questo luogo produttivo di istanze sul genere che è possibile sciogliere ed evidenziare l’intreccio che lo costituisce. Un intreccio estremamente complesso e storicamente determinato, affatto scontato, attraverso il quale è possibile analizzare le modalità dello sguardo che costruisce l’alterità, dove la categoria di genere non può darsi da sola, ma va sempre articolata insieme a quelle di razza, sessualità, classe. La dimensione visiva costringe a confrontarsi con le tematiche dell’origine e dell’autenticità, dell’autorappresentazione, della soggettività, dell’agency.
L’immagine del femminile appare dunque come un prisma che rifrange i rapporti tra le generazioni, il razzismo e l’omofobia dilaganti, lo scambio sessuo-economico, le nuove forme del lavoro. Si tratta di nodi attraversati dalla produzione del genere nell’Italia contemporanea, dove il genere emerge come una dimensione strutturalmente più complessa rispetto alla focalizzazione sulla donna e sulla sua immagine degradata.
Il visuale è un ambito cruciale per la riflessione femminista a partire da una problematizzazione di questioni che coinvolgono una molteplicità di soggetti che non si identificano necessariamente con la categoria “donna”. L’immagine e le forme di assoggettamento nelle quali quest’ultima è coinvolta sono infatti inscindibili dalle molteplici articolazioni attraverso le quali vengono prodotte le differenze. L’immagine femminile come schermo del potere ha una duplice valenza: da una parte è ciò che nasconde le dinamiche di potere attraverso processi di naturalizzazione e legittimazione, dall’altra rappresenta anche un campo politico di negoziazione e di conflitto, prodotto e sito di produzione insieme.

martedì 18 settembre 2012

Tra postoperaismo e neoanarchia

di Carlo Formenti

l’articolo è stato pubblicato sull’ultimo «Alfabeta2» - n. 22  uscito nei primi giorni di settembre. Nel merito, al di là dei punti di contatto con la pars destruens elaborata da decenni dalla scuola negriana, già dal titolo si intuisce a chi è “indirizzata” la critica dell’intervento, ossia al laboratorio di UnINomade. Pur riconoscendo lo sforzo teorico del collettivo di ricerca, cioè nell’avere rimesso dentro la materialità storica dei rapporti di produzione la categoria della “moltitudine”, come soggettività determinata del nuovo processo di ricomposizione di classe, tuttavia il nostro autore ritiene essere assai debole la pars costruens dell’analisi postoperaista, ancorata ancora al piano metafisico (“il comunismo è già nelle cose, nelle lotte della moltitudine). Orbene, il nodo politico di forte attrito è che se si riconosce la necessità della fase ricompositiva del soggetto essa non può essere affidata esclusivamente alla spontaneità delle singolarità in conflitto. D’altro canto, però, è ipotizzabile un progetto costruito sul modello del rapporto avanguardia/massa, per usare una terminologia assai in voga nella tradizione marxista? Di contro, al tempo stesso, la costituente “del comune” non ha bisogno di un suo piano normativo che - se non è quello giuridico (la transizione)- necessita di essere definito, o quanto meno paventato nella tracciabilità della ricerca?   
La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità, daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi. Prima, proverò a evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti anticapitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario; transizione alla società postcapitalista; uso della violenza per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario, di evidenziare le differenze fra anarchici e postoperaisti che, a mio parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine, cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso posto-peraista su quello anarchico.
La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Comune è il timore che un processo rivoluzionario egemonizzato da gerarchie professionali possa dare vita a strutture di dominio ancora più oppressive di quelle dello Stato borghese, analogo è l’impegno a creare istituzioni di democrazia diretta e partecipativa che esorcizzino il rischio (anche se persistono differenze nelle motivazioni: ideali e «di principio» quelle anarchiche, analitico scientifiche quelle degli intellettuali autonomi, che considerano la forma partito obsoleta rispetto alla nuova composizione di classe). Ciò detto, è indubbio che gli anarchici abbiano lavorato più concretamente per mettere in pratica le proprie idee. Ispirati alle descrizioni antropologiche delle civiltà precapitalistiche e alla pratica femminista, i modelli elaborati da Graeber e altri hanno di fatto egemonizzato (ma a loro non piacerebbe il termine!) la recente cultura di movimento (dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street): rifiuto di leader designati e permanenti; ricerca del consenso attraverso il confronto e la mediazione (non si vota per non provocare frustrazione nelle minoranze); privilegiare i piccoli gruppi autonomi e autorganizzati (comuni) dove è più facile applicare il principio di orizzontalità; visione «spontaneista» della diffusione dei movimenti (una volta sperimentate le pratiche di azione diretta, le persone le imitano spontaneamente, diffondendole per via virale). Su questi punti c’è totale convergenza con i neosituazionisti (che mettono però l’accento sulla produzione di «eventi» simbolici, in grado di accelerare i processi di «contaminazione»). I postoperaisti si accodano a loro volta anche se, troppo sofisticati per condividere certe ingenuità, lasciano trasparire qualche imbarazzo, come quando Franco Berardi scrive che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, che è già nelle cose», per poi smentire parzialmente questa professione di fede spontaneista, allorché aggiunge che si tratta di suscitare la coscienza dei precari cognitivi e organizzare la loro collaborazione politica (perché suscitare e organizzare, se l’insurrezione è nelle cose?)

sabato 15 settembre 2012

Logistica e circolazione delle merci, come linee tendenziali di sviluppo strategico del capitalismo italiano. Introduzione

di CSA Vittoria

partendo dalla narrazione delle lotte condotte in questi anni dalle cooperative della logistica che operano nella rete di circolazione delle merci, vertenze dentro le quali è stato impegnato il Centro Sociale Autogestito Vittoria di Milano, il contributo esamina le coordinate strategiche e la valenza del settore della logistica, dei trasporti, delle comunicazioni nel sistema produttivo paese, un’analisi che tenta di declinare le ragioni del conflitto nel comparto in antitesi  al ragionamento concertativo politico-sindacale
Per uscire dalla crisi che ha colpito il sistema di produzione capitalista negli anni '70 e per il conseguente rilancio di un nuovo ciclo di valorizzazione (e di accumulazione dei profitti), diverse e articolate sono state le misure adottate dal capitale che si sono, in estrema sintesi, mosse lungo due direttrici di massima: in primis, l'esternalizzazione e lo snellimento della produzione nonché l'implementazione del ricorso agli strumenti offerti dalla finanza e, poi, la deregolamentazione del mercato del lavoro (e la conseguente precarizzazione dei rapporti di lavoro) e la compressione dei salari.
Da un lato, infatti, pur mantenendo e conservando una forma fortemente centralizzata del comando negli stati a capitalismo avanzato, si sono sfruttate e create intere filiere transnazionali alla costante ricerca di luoghi ove produrre a costi inferiori (e con maggiori profitti) rispetto a quelli di origine, in virtù soprattutto dello sfruttamento di amplissimi bacini di forza lavoro senza diritto alcuno, né sindacalizzazione e con salari miserevoli (nonché di un esercito di riserva potenzialmente illimitato).
Riduzione dei costi del lavoro e snellimento della produzione (con esternalizzazione degli ulteriori “costi di gestione” della forza lavoro) perseguiti, in un contesto di ricerca continua di flessibilità, anche riducendo le dimensioni delle imprese non delocalizzatesi in altri territori attraverso appalti e sub-appalti o cessioni di interi rami.
Ciò con l'ulteriore obiettivo politico, di non secondaria importanza, di riuscire a disgregare e indebolire la classe operaia (e l'ampio movimento rivoluzionario che ha espresso) che, nel centro capitalista sempre in quegli anni (e soprattutto in Italia), aveva posto all'ordine del giorno l'alternativa sistemica conquistando nel contempo diritti e condizioni salariali fino ad allora impensabili, rappresentandosi quale vera e propria variabile indipendente rispetto alla produzione (e quindi all'antagonista di classe).
Questo rinnovato processo di accumulazione è stato poi alimentato da nuove possibilità di profitti “drogati” su scala mondiale, non più reinvestiti nella produzione sempre più delocalizzata (né tantomeno redistribuiti al lavoro), tanto di origine eminentemente finanziaria e speculativa quanto quale diretta conseguenza della creazione di un sistema di credito, che ha permesso di sopperire alla carenza di domanda indotta dall'imposizione di bassi salari, che ha costretto all'indebitamento milioni di lavoratori liberando denaro per la rendita e il capitale.
Dall'altro lato, come detto sempre con la medesima finalità, si sono progressivamente sgretolate le garanzie contrattuali e salariali conquistate dai lavoratori nel corso del ciclo di lotte degli anni '60 e '70 del secolo scorso.
Un processo lungo, e di cui non si vede ancora la fine compiuta, ma che è stato – e tutt'ora viene – perseguito con scientifica meticolosità da parte di tutti governi che si sono succeduti in questi ultimi trent'anni (dietro espresso impulso delle rappresentanze padronali) e che sta modificando strutturalmente dalle fondamenta le regole che disciplinano il mercato del lavoro. Tale operazione è stata avallata e sostenuta dalle centrali del sindacalismo confederale che, per il tramite della concertazione, hanno permesso lo smantellamento in corso sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici solo formalmente rappresentati.
Un processo che è il frutto, materiale e ideologico, della feroce guerra di classe dichiarata e condotta dal padronato e che ora, con Monti e Fornero, ha prodotto una controriforma che mira nella sostanza a flessibilizzare totalmente la forza lavoro in entrata e in uscita riportando così le “lancette dell'orologio” ai tempi in cui il lavoro era senza tutela alcuna.
Questa ulteriore tappa non può essere poi in alcun modo separata dalle ulteriori misure (privatizzazioni e riduzione delle spese sociali, aumenti delle tariffe dei servizi, ecc.) che hanno colpito, e colpiscono, il salario (indiretto) dei lavoratori da consegnare alle imprese e al grande capitale finanziario.
Questa introduzione, che ne descrive la genesi e la formazione, è resa necessaria per un corretto inquadramento del nuovo ruolo assunto dalla struttura dell'economia italiana nel contesto mondiale.

per leggere l’intero contributo clicca sotto 

martedì 11 settembre 2012

Contro la storia scritta dai vincitori: l'annullamento del debito nell'antichità

Eric Toussaint*

il potente non può opprimere il debole, la giustizia deve proteggere la vedova e l’orfano … al fine di rendere giustizia agli oppressi “ (dall’epilogo del Codice di Hammurabi). Come altri governanti delle città-stato dell’area mesopotamica, il re babilonese “proclamò in varie occasioni un annullamento generale dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici, i loro alti funzionari e dignitari”. La stele di Rosetta conferma la tradizione dell’annullamento dei debiti instaurata anche nell’Egitto dei faraoni. Infatti in essa si trovano le tracce della pratica politica volta alla “proclamazioni di amnistia che precede gli annullamenti generali del debito”
È fondamentale attraversare la cortina fumogena della storia raccontata dai creditori e ristabilire la verità storica. Annullamenti generalizzati del debito hanno avuto luogo ripetutamente nella storia.

Hammurabi, re di Babilonia, e gli annullamenti del debito

Il Codice di Hammurabi si trova nel Museo del Louvre di Parigi. In realtà il termine “codice” è inappropriato, perché Hammurabi ci ha tramandato piuttosto un insieme di regole e di giudizi sulle relazioni tra i poteri pubblici e i cittadini. Il regno di Hammurabi, “re” di Babilonia (situata nell’attuale Iraq), iniziò nel 1792 avanti Cristo e durò 42 anni. Quello che la maggior parte dei manuali di storia non dice è che Hammurabi, come altri governanti delle città-Stato della Mesopotamia, proclamò in varie occasioni un annullamento generale dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici, i loro alti funzionari e dignitari. Quello che stato chiamato il Codice di Hammurabi fu scritto probabilmente nel 1762 avanti Cristo. Il suo epilogo proclamava che“il potente non può opprimere il debole, la giustizia deve proteggere la vedova e l’orfano (…) al fine di rendere giustizia agli oppressi”. Grazie alla decifrazione dei numerosi documenti scritti in caratteri cuneiformi, gli storici hanno trovato la traccia incontestabile di quattro annullamenti generali del debito durante il regno di Hammurabi (nel 1792, 1780, 1771 e 1762 A. C.).
All’epoca di Hammurabi, la vita economica, sociale e politica si organizzava intorno al tempio e al palazzo. Queste due istituzioni, molto legate, costituivano l’apparato dello Stato, l’equivalente dei nostri poteri pubblici di oggi, nei quali lavoravano numerosi artigiani e operai, senza dimenticare gli scriba. Tutti erano alloggiati e nutriti dal tempio e dal palazzo. Ricevevano razioni di cibo che gli garantivano due pasti completi al giorno. I lavoratori e i dignitari del palazzo erano nutriti grazie all’attività di una classe contadina a cui i poteri pubblici fornivano (affittavano) le terre, gli strumenti di lavoro, gli animali da tiro, il bestiame, acqua per l’irrigazione. I contadini producevano in particolare orzo (il cereale di base), olio, frutta e legumi. Dopo il raccolto, i contadini dovevano consegnare una parte di questo allo Stato come quota per l’affitto. In caso di cattivi raccolti, accumulavano debiti. Oltre al lavoro nelle terre del tempio e del palazzo, i contadini erano proprietari delle loro terre, della loro casa, delle loro greggi e degli strumenti da lavoro. Un’altra fonte di debiti dei contadini era costituita dai prestiti concessi a titolo privato da alti funzionari e dignitari al fine di arricchirsi e di appropriarsi dei beni dei contadini in caso di mancato pagamento di questi debiti. L’impossibilità nella quale si trovavano i contadini di pagare il debito poteva portare anche alla loro riduzione in schiavitù (anche membri della loro famiglia potevano essere ridotti in schiavitù per debiti). Al fine di garantire la pace sociale, in particolare evitando un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, il potere annullava periodicamente tutti i debiti [**] e ripristinava i diritti dei contadini.

Londra: se il Marxismo è ancora tra noi

Paolo Mossetti

La risposta al Guardian -“Why Marxism is on the rise again” – è intuibile nello straordinario  successo stesso della manifestazione svoltasi questa estate a Londra di cui ci parla Mossetti, dedicata alla dottrina del grande rivoluzionario di Treviri e che ha fatto registrare soprattutto una forte presenza giovanile. Di fronte alla crisi del capitalismo e al dominio del pensiero unico i movimenti antagonisti globalizzati, dei quali la componente giovanile è l’asse portante, rivolgono sempre più l’attenzione al fondatore della prima internazionale, non come la riesumazione di un cane morto, ma come un riferimento potente di negazione dell’esistente al di là dei veteromarxismi otto-novecenteschi. Ma sembra che nel mondo anglosassone il ritorno del confronto con Karl Marx non sia soltanto un affare degli attori del conflitto sociale. Da noi, invece, c’è chi dice che comunista e marxista non è stato mai, pur avendo militato con ruoli anche di responsabilità politica in un partito marxista (quello storicamente più importante – il PCI)  

«Il conflitto di classe sembrava semplice, un tempo: “La borghesia produce innanzi tutto i suoi seppellitori. La sua caduta ed il trionfo del proletariato sono altrettanto inevitabili”. Questo scrivevano Marx e Engels tra il 1847 e il 1848 nel secondo libro più venduto della storia, Il Manifesto del Partito comunista. Oggi, a 164 anni di distanza, la situazione è esattamente all’opposto. I proletari, lungi dal seppellire il capitalismo, lo stanno tenendo in vita artificialmente. Gli sfruttati e i sottopagati apparentemente liberati dalla più grande rivoluzione socialista della storia – quella cinese – sono condotti sull’orlo del suicidio per far continuare a giocare quelli in Occidente con i loro iPad. I soldi della Cina finanziano un’America altrimenti in bancarotta».
Inizia così un pezzo di Stuart Jeffries per il Guardian, dal titolo Why Marxism is on the rise again, perché il marxismo si sta rialzando di nuovo. Non un patetico foglio sovversivo, ma il più importante quotidiano progressista britannico decide di rispolverale i testi di Marx and Engels e si chiede come mai riescano ancora, nello scenario di macerie del mondo contemporaneo, ad alimentare una qualche speranza di cambiamento. La domanda non è del tutto peregrina, dato che dal 5 al 9 luglio si è tenuto a Londra il festival Marxism 2012. Non era una novità.
L’evento è organizzato da oltre un decennio dal Socialist Workers’ Party, un partito minoritario ben lontano dalle stanze dei bottoni. Ma questa volta è stato diverso: il festival ha ottenuto un’attenzione senza precedenti, soprattutto da parte dei più giovani. Ho deciso di farci un salto dopo aver aver ricevuto l’invito contemporaneamente da un amico ventenne artista di Camberwell, una traduttrice italiana di Islington, uno scrittore di New Cross e un anarchico sessantenne di Hackney.
Ci sentivamo in buona compagnia, anche prima del festival: l’editoria inglese sta sparando sugli scaffali munizioni letterarie di tutto rilievo, tali e tante da far pensare che il dibattito sul marxismo non sia del tutto esaurito – come invece pare essere in Italia. Terry Eagleton ha pubblicato l’anno scorso un libro intitolato Why Marx Was Right. Alain Badiou ha partorito un volume dalla copertina rossa col titolo The Communist Hypothesis. E si dichiarano senza alcun timore o tremore “marxisti” personaggi come l’ancora attivissimo Eric Hobsbawn, Jacques Ranciere, il sempre più di moda Slavoj Žižek, il ventisettenne Owen Jones che ha affrontato la tematica dei chav – i tamarri inglesi – con l’ispirazione del primo Pasolini. Resta da vedere se le loro munizioni saranno di granata o di cerbottana.

Il referendum proposto dalla Fiom: discutiamone

di Luca Casarini
Sulle pagine di Global Project s’è aperta la discussione sull’articolata iniziativa referendaria, promossa dai “meccanici” della storica confederazione, contro il pacchetto finanziario ultraliberista in tema di lavoro, varato con le ultime “manovre tecniche”. Specificamente i quesiti abrogativi depositati oggi in Cassazione riguardano la riforma-Fornero sull’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, per il ripristino integrale della norma originaria, e l’art.8 del Dl 138/2011 che ha cancellato i diritti minimi e universali previsti dal contratto nazionale di lavoro. Ferme restando le profonde differenze con il Comitato promotore, allargato alle forze d’opposizione della sinistra istituzionale, per Casarini la campagna referendaria potrebbe configurare un’opportunità politica fra le altre, affinché i movimenti possano “proporsi  come forza costituente a tutto campo”, uno dei tanti modi per continuare – nei territori e su scala generale – “a costruire significato alla necessità di lottare”, cogliendo l’occasione per affiancare alla raccolta delle firme pro-referendum una campagna di adesione per la presentazione di una proposta di  legge di iniziativa popolare sul reddito di cittadinanza
Come aveva annunciato dal palco dello Sherwood Festival a Luglio il suo segretario generale, la Fiom ha lanciato la proposta del referendum sul lavoro. O meglio, su due articoli di legge che hanno concretizzato le politiche di austerity imposte dalla Banca Centrale Europea a cavallo della crisi dell’Eurozona: l’articolo 8 della finanziaria dell’Agosto 2010, varata dall’allora governo Berlusconi, e lo stravolgimento dell’articolo 18 operato dal ministro Fornero e dal governo Monti. Il referendum, come si sa, nel nostro paese ha carattere abrogativo, cioè può essere utilizzato per chiedere la cancellazione di leggi o articoli di legge e ripristinare de facto ciò che c’era prima. Nel nostro caso non si tratta però di cavilli. Il carattere politico della consultazione, non sfugge, ed appare in tutta la sua potenziale forza se guardiamo a questi due provvedimenti all’interno del quadro delle politiche europee sul lavoro e sui diritti, che con il fiscal compact e il pareggio di bilancio nelle costituzioni nazionali, hanno marcato i contorni di quella che abbiamo più volte definita come la “dittatura commissaria” operata dai board della finanza sulla sovranità politica. Nella discussione estiva con Landini emergeva il grande problema che tutti noi abbiamo di fronte: la crisi economica e la recessione, diretto prodotto del modello di capitalismo finanziarizzato a cui si inchinano le economie globali, non aveva e non ha, per ora, aperto grandi varchi alle alternative: la casa brucia, ma è come se per salvare i piani alti, quelli dove vengono accumulati i grandi capitali, si sia scelto di alimentare le fiamme in basso, per offrire combustibile ad un fuoco che in questo modo si espande in orizzontale piuttosto che salire. I 116 milioni di europei che sono sulla soglia della povertà, come i 400.000 bambini greci denutriti, sono una fotografia reale di questa scelta scellerata di quelli che, camuffati da pompieri, sono in realtà piromani criminali. Il prezzo perché la crisi di sistema non produca il suo crollo, lo stiamo pagando noi, e non coloro che l’hanno provocata, consapevolmente o meno. La scelta di operare in questo modo è divenuta in questi anni così decisiva da costruire attorno ad essa una nuova narrazione capitalistica: la colpa collettiva del debito ha dato un nuovo significato al termine “pubblico” che da sempre lo accompagna. Ciò che è pubblico può essere solo fonte di rinuncia, di sacrificio, di taglio. Invece la ricchezza, anche quella collettiva, non può mai dirsi pubblica: essa è solo la somma delle ricchezze private, dell’accumulazione individuale di pochi che in virtù di tale privilegio, definiscono anche i contorni della nuova democrazia, o se preferiamo, della post democrazia. Le decisioni, al di là dei meccanismi di registrazione del consenso legati all’elezione di parlamenti e governi, sono prese a prescindere e a priori. Sono legate ad istituti di controllo finanziario e monetario che impongono direttamente le politiche economiche al di là di qualsivoglia differenza di impostazione della governance temporanea formale di uno stato o dell’intera europa. I parlamenti, a cominciare da quello europeo, non contano più nulla. I governi invece sono commissariati, e possono ritagliarsi un protagonismo politico, solo ed unicamente in un quadro di compatibilità con il board postdemocratico che è in grado di reggere il gioco al massacro della speculazione finanziaria. La notizia del referendum non può non essere accostata a ciò che sta accadendo in queste ore ad opera della BCE. Alla fine, come era abbastanza prevedibile, il compratore di ultima istanza di titoli di stato europei sarà la Banca Centrale. Come lo è la Fed negli Usa. Non ci sono limiti, e questo dimostra l’assoluta astrattezza, virtualità di ciò che chiamiamo denaro, e del suo rapporto con la produzione di merci. L’euro è carta stampata, e se si decide se ne stampa quanta si vuole. Anche i meccanismi inflattivi, tanto temuti dalla Germania per via della sua supremazia commerciale, da cui deriva anche quella produttiva, sono ampiamente consigliati dai fondamentali dell’economia di mercato in tempi di recessione. Ma la questione è un’altra. L’accordo prevede infatti che la BCE diventi anche una sorta di mega agenzia di rating nel caso in cui un paese non rispetti la road map imposta da Francoforte in cambio dell’acquisto massiccio di debito. Cioè se la Bce non compra più, perchè un paese non rispetta ciò che è stato deciso dagli organismi bancari e finanziari sovranazionali ed eletti dal mercato, non dalle persone, automaticamente è come se il downgrouding raggiungesse il livello massimo possibile: i suoi titoli sarebbero carta straccia, e gli speculatori potrebbero così sbranarlo come fanno le iene in branco attorno ad un cadavere. Non è un caso che la BCE abbia chiarito che queste decisioni, comprare o non comprare, le prenderà previa consultazione con il FMI. Che cosa se ne deduce? Che la post democrazia è al livello più esplicito che mai si era raggiunto. Il tentativo, all’indomani di quella che viene definita la grande vittoria di Draghi sulla Merkel, operato da Napolitano da Venezia e da Monti da Fiesole, di riparlare di unità politica europea, è una maniera ipocrita di sottolineare quanto invece la sovranità non stia più nelle mani di alcuna forma politica classica legata alle procedure della democrazia liberale.

La costituzione del comune

di Collettivo Uninomade

La costituzione del ‘48 era il prodotto storico del conflitto di classe sovrastrutturato sul piano giuridico formale, conflitto incarnato da un movimento operaio che aveva posto in essere una serie di lotte in fabbrica e nelle campagne prima dell’avvento del fascismo (che fu la risposta violenta della borghesia industriale ed agraria) e che nella lotta partigiana poi costruì quella costituzione materiale su cui i “padri costituenti”  basarono la redazione dei principi della carta fondamentale repubblicana, ed in primo luogo quello del “Lavoro” su cui si fonda l’intero impianto. Ora a fronte di un profondo processo di scomposizione produttiva (sancita da una produzione sempre più immateriale e da una soggettività sedimentata) e crollati i luoghi identitari della classe operaia -da quelli politici (il partito) a quelli socioesistenziali (la fabbrica fordista)-, com’è possibile  immaginare e determinare una costituente del comune senza incorrere nel rischio della formalizzazione giuridica ed omologazione delle istanze di lotta? I diritti di cittadinanza, dal reddito sociale al diritto all’insolvenza per sintetizzare, come possono inverarsi senza investire il piano formale della normazione?  Su questi nodi il collettivo di UniNomade intende aprire, partendo dal conflitto sociale e dentro esso, il fronte della ricerca politica progettuale  
0. La Costituzione va difesa o liquidata? Come sempre quando si parla di cose concrete ci si capisce meglio, ne abbiamo avuto un ennesimo esempio nell’ultimo mese. Così a Taranto, ad esempio, che si ritenga la repubblica fondata sul lavoro oppure sulla libertà di impresa, tutti insieme – dalla famiglia Riva alla sempre più ristretta famiglia Vendola, dai sindacati (davvero tutti, nessuno escluso) all’ineffabile ministro Clini, dal partito dell’austerità a quello di Repubblica – sono appassionatamente d’accordo: nessuno tocchi la fabbrica della morte. In questo caso si può perfino sacrificare la magistratura, fino a ieri eletta sacra custode della costituzione di fronte al demoniaco Berlusconi. Che la costituzione “materiale”, di cui quella “formale” si pretendeva espressione, si sia esaurita, d’altro canto, non lo scopriamo oggi – e per parte nostra assumiamo questo esaurimento come punto di partenza del prossimo seminario di UniNomade (Roma, 27/28 ottobre), dedicato proprio a temi costituzionali. La sua possibilità di mettere in forma, ovvero contenere la composizione del lavoro vivo si è sfaldata già negli anni ’60 e ’70, nelle lotte operaie che hanno fatto saltare la misura del valore, nella conseguente fine della prospettiva socialista, nell’insorgenza di quel precariato cognitivo oggi al centro dei rapporti sociali. Chi vuole individuare la fine della prima repubblica sarà bene che inizi a volgere lo sguardo alla radicale trasformazione postfordista del lavoro e alla produttività delle lotte che hanno sfidato, sempre tra i ’60 e i ’70, le mediazioni tradizionali, non al termidoro guidato dalla magistratura o dal sistema dei partiti.
Se così è, allora, il problema non è l’“adeguatezza” della Carta del ’48, fosse anche solo per un piano avanzato di sviluppo del conflitto. La domanda è: c’è ancora in essa qualcosa da difendere, magari in modo tattico oppure immaginando questa difesa come tappa necessaria verso qualcos’altro? É praticabile, per dirla in altri termini, una politica della trasformazione che proceda per stadi di sviluppo, che dalla difesa del pubblico si sviluppi in costituzione del comune? Questa domanda non ha nulla a che vedere con un esercizio speculativo: interroga le lotte, attraversa in modo inquieto i movimenti, riguarda la tattica e la strategia. Sul fronte opposto i neoliberali – la cui truce aggressività, sarà bene ricordarlo, è direttamente proporzionale al fallimento e alla crisi irreversibile delle loro politiche – una riposta l’hanno già data da tempo. I continui interventi commissariali nella nomina dei governi cosiddetti tecnici, l’inserimento in Costituzione della “regola aurea” del pareggio di bilancio, la determinazione della Bce ad agire solo se prima i paesi che chiedono un intervento di salvataggio accettano di sottostare a ulteriori condizioni, aggiuntive rispetto a quelle già concordate con la Commissione europea, mostrano con chiarezza il terreno di attacco scelto dal nostro nemico.
Non si tratta semplicemente della “dittatura finanziaria”, etichetta retoricamente efficace ma che corre il rischio di identificare il nemico esclusivamente nelle troike e gli alleati nei residui rappresentanti della sovranità nazionale. Poiché gli uni e gli altri agiscono di concerto, il problema non è ristabilire il primato della “politica” (i partiti) sull’“economia” (i mercati). Il problema è la critica dell’economia politica: la ricchezza finanziaria rimanda infatti al comando sul comune, al grado di autorità che i governi riescono ad esercitare sulla moltitudine attiva, produttiva di cooperazione, legame sociale, sapere diffuso. Da soli, dunque, i mercati finanziari non sono in grado di portare a compimento questo programma di feudalizzazione del comune, hanno bisogno delle istituzioni statali, degli apparati politici e giuridici di cattura, delle modifiche della costituzione. La questione della rappresentanza si pone a questo livello, e a questo livello deve porsi la lotta di classe “oltre la rappresentanza”.
Rovesciare la situazione significa perciò non attestarsi sulla trincea di una difesa reattiva della Carta del ’48, ma guadagnare un campo autonomo di battaglia, ossia affermare la capacità costituente del comune. Già sentiamo gracchiare le accuse di utopia a fronte della stagnazione delle lotte nella crisi. E se invece proprio questa stagnazione fosse dovuta all’incapacità di uscire da un piano di mera difesa reattiva, alla distopia di un retroguardismo incapace di cogliere la ricchezza del comune? Questioni politiche urgenti, su cui è necessario approfondire la discussione, a cui soprattutto dobbiamo iniziare a dare collettivamente qualche risposta.