sabato 31 marzo 2012

Cronaca da Madrid - 29M la riuscita dello sciopero generale

da #tomalahuelga
Centinaia di migliaia di manifestanti hanno riempito le piazze per protestare contro la riforma del mercato del lavoro e i tagli del Governo. Una giornata di sciopero generale densissima in tutto il paese.
Era l'ottavo sciopero generale convocato nel paese dal ritorno della democrazia in Spagna, e tutti i dati confermano si è trattato del più partecipato.
Bloccate industrie, trasporti, commerci in una giornata di cui sono stati protagonisti non solo i lavoratori ma anche le molte delle espressioni sociali degli "indignados", 15-M, collettivi di quartiere, studenti, precari, disoccupati. Uniti nel ribadire il rifiuto delle misure imposte con il mantra della crisi.
Le manifestazioni sia della mattina che del pomeriggio hanno visto una partecipazione oceanica soprattutto nella capitale.
Nel balletto classico delle cifre del giorno dopo il Governo cerca di minimizzare parlando di circa 800.000 persone nelle varie città, molto più credibili le cifre dei sindacati che parlano a Madrid di 900.000 persone e in tutto il paese di 10 milioni di persone che hanno partecipato allo sciopero.
I commenti dicono che le manifestazioni complessivamente sono state le più imponenti viste nel paese.
Una giornata di sciopero iniziata fin dalla mezzanotte con picchetti e che è continuata con una miriade di iniziative che hanno visto la partecipazione composita di lavoratori, precari, giovani studenti. A Madrid e non solo gli attivisti del 15-M hanno dato vita a biciclettate nelle strade trafficate, pranzi popolari ed azioni di blocco creativo ed informativo.
Un'occasione lo sciopero generale che ha dimostrato nella azione comune di molti e diversi  l'ampiezza della protesta contro le misure del governo.
Manifestazioni che si sono conquistate agibilità politica come quella di Madrid che si è svolta da Piazza Nettuno a Puerta del Sol. Cortei, blocchi, azioni si sono svolte in tutto il paese. A Siviglia e Malaga le manifestazioni più grandi dell'Andalusia. Nei Paesi Baschi cortei nei principali centri e a Vitoria la polizia a cavallo ha caricato ferendo uno studente. A Barcellona ci sono scontri con la polizia ed in altre città alcuni attivisti sono stati fermati durante le iniziative.
Nei comizi sindacali si è ribadito che la riforma va ritirata e i leader sindacali hanno affermato che se l'attitudine del Governo resterà la stessa "Metteremo in campo un conflitto sociale crescente che culminerà nelle manifestazioni del 1 Maggio". La richiesta è che le misure vengano ritirate.
Dai movimenti sociali un impegno a continuare le mobilitazioni verso le date del 12 e 15 maggio ad un anno dall'inizio delle proteste a Puerta del Sol.
.... ed in Italia intanto continuano le proteste contro l'art.18, così come in Inghilterra nei giorni scorsi a protestare erano gli insegnanti contro la riforma delle pensioni, ed ancora si stanno preparando per metà maggio le giornate di azioni a Francoforte, il Portogallo ha scioperato una settimana fa ..
Niente è facile, niente è scontato nel tempo della crisi ma questa è l'Europa di cui abbiamo bisogno.

 

venerdì 30 marzo 2012

Il vento della Primavera Precaria

di Stati generali della precarietà
 Chi ha la ventura di vivere quest’epoca non potrà certo dire di aver attraversato decenni noiosi e indifferenti. Dopo quasi due secoli di progressi politici sociali e economici improvvisamente, prima lentamente poi sempre con maggiore velocità, il corso della storia sembra invertire la propria direzione e un’ immensa opera di ristrutturazione politico-economica spazza via uno dietro l’altro i diritti fondamentali: le conquiste, i salari dignitosi, uguaglianze, solidarietà e sovranità.
 Certo ci sarebbe da questionare sul significato della parola progresso: sulla sua disomogenea distribuzione sia sociale che geografica, su chi ha potuto fruirne i benefici; si potrebbe pure discutere sugli effetti collaterali di questo progresso: l’insostenibilità dell’impatto ambientale di una politica tutta rivolta al consumo sfrenato, l’insostenibilità e sulla fugacità culturale e neurale di un sistema comunicativo che agisce come bombardamento della corteccia celebrale; si potrebbe dibattere a lungo, ma vi è una questione che non può essere elusa.
 Per quasi duecento anni si è combattuto, NEL BENE O NEL MALE, per il progresso dei diritti, nel nome dell’uguaglianza e della solidarietà. E poi è caduto il muro di Berlino (ma non faremo i nostalgici del terzo millennio). Negli ultimi trent’anni – tradendo le aspettative umaniste e ridicolizzando le tensioni ideali e filosofiche che ci avrebbero voluto parte del primo maxi “prepensionamento” della storia spinto dal saggio citatissimo di Fukuyama ”La fine della storia” (1992)- si è invece concretizzata di giorno in giorno la più grossa restaurazione che la storia conosca. Opera maiestatis di ingegneria economico politica (da far impallidire il congresso di Vienna, Yalta, Bretton Wood…), che ha travolto tutto e tutti ad una velocità impressionante, e che sta spazzando via quei pilastri (istruzione, diritti, solidarietà umana) che fino a qualche “istante” fa erano considerati le fondamenta acquisite e certificate alla base della civiltà occidentale.
 I contabili economici “lavorando” con impareggiabile maestria sulla crisi dei debiti pubblici, gonfiati paurosamente da spese illegittime, stanno stritolando stati sovrani, demolendone le economie e affossandone i relativi sistemi di protezione, tutela, formazione sociale, e stroncando di fatto le tendenze alternative di governo della crisi. Mai le economie globale sono state così interconnesse e mai nella storia i poteri sono stati così sbilanciati verso una supremazia tecno-economica che ha già acquisito una fisionomia matura di un potentato burocratico. La finanza imperatrice di questa fase della globalizzazione economica domina e stravolge attuando una vera e propria rivoluzione reazionaria.
 In Italia quest’onda d’urto è stata ottenuta tramite una politica rivolta alla precarizzazione delle vite e dei territori, colpendo interi strati generazionali che sono caduti , in sequenza, urtandosi l’un l’altro. La ricchezza nazionale appartiene sempre meno ai salari e sempre più ai profitti e alle rendite. Impressionanti al riguardo sono i dati dell’ Ires: in dieci anni, dal 2000 al 2010 i salari hanno perso circa 5.500 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%. La pensione è una chimera, le tipologie contrattuali censite sono 47 e le leggende che parlano di una loro riduzione nascondono l’amara verità: si stanno correggendo solo quelle incongruenze nella riforma complessiva del mercato che danneggiano più l’azienda che il lavoratore. E il tutto è condito con il tam tam ideologico che la capacità di crescita dell’Italia dipende dallo snaturamento dell’art. 18, ovvero da una maggiore libertà di licenziare individualmente. Niente di più falso.
 Forse non tutti sanno (e i media italiani sono i primi a nasconderlo) che se consideriamo l’indicatore OCSE di protezione dei lavoratori (individuali), l’Italia si trova agli ultimi posti della classifica, contro una media dei paesi OCSE superiore di oltre il 40%. Al di sopra del valore italiano (quindi con più vincoli al licenziamento individuale) troviamo paesi come la Corea, la Polonia, la Svezia, il Giappone. Germania, Francia e Lussemburgo hanno livelli di protezione che non hanno pari in tutti gli altri paesi. Sostanzialmente il lavoro individuale dell’Italia ha livelli di tutela più bassi rispetto alla media dei paesi OCSE, mentre la protezione dai licenziamenti collettivi è perfettamente in linea con la media. Diversamente, non si spiegherebbero i licenziamenti collettivi intervenuti in Italia in questi ultimi 3 anni.
 Si definisce così il quadro concettuale e ideologico che sta alla base del golpe finanziario che ha instaurato il nuovo governo Monti-Napolitano e che vede nel lavoro il cardine della riforma: il lavoro è il bene supremo e tramite il lavoro si esercita ricatto, si distribuisce povertà, si occupa la vita altrui (come nel reato di clandestinità). Il quadro sociale è tanto frammentato da non riuscire più a trovare un punto di lettura, i migranti sono contrapposti ai nativi, i garantiti ai precari, i tutelati ai meno tutelati. Un’unica certezza: le organizzazioni storiche portano sulle proprie spalle il peso enorme delle responsabilità politiche, obiettive, della sconfitta. La realtà è terrificante ed è il frutto genuino e velenoso del potere finanziario che si è fatto potere politico facendo saltare ogni mediazione. La realtà è diventata un incubo. Apparentemente è impossibile invertire la tendenza. Eppure non è così.
 La forza terribile con cui il capitale ci schiaccia sta anch’essa mostrando i suoi limiti: con l’umiliazione e il disfacimento dei grandi centri di potere della sinistra si liberano quelle forze sociali che da sempre rappresentano l’esercito più temibile dei movimenti sociali. Le micro-resistenze sono marginali e residuali se isolate l’une dalle altre. Se invece questi margini crollano queste micro-resistenze possono assumere il loro carattere più nobile che non è quello di essere retroguardie di un mondo passato ma è quello di essere unità rigenerative di innovazione e incursione sociale. Bisogna indicare quindi con chiarezza chi e con quali mezzi e verso dove è necessario scatenare la controffensiva. Se prendere parola è difficile, se agire è pericoloso ciò non toglie che ci siano tante persone in ascolto e altrettante in attesa.
 La manifestazione del 31 marzo a Milano deve essere una tappa di un percorso in cui molteplici realtà , grandi e piccole, devono aggregarsi intorno ad un’idea potente: abbattere la precarizzazione, che è vincolo, cappio, bavaglio, catena della società italiana. Per fare questo serve un’idea, un orizzonte più vasto su cui ripartire, un orizzonte credibile, capace di parlare alle differenti realtà sociali colpite dalla precarietà. Il sussidio di disoccupazione agisce per il 25% di chi rimane senza lavoro, l’articolo 18 tutela meno del 50% della forza lavorativa. Gli ammortizzatori sociali sono iniqui, riguardano solo alcuni lavori e sono fonte di sperequazione e scambismi politici. Non è questo il punto da cui partire, non è questo il panorama futuribile con cui irretire “la passione del popolo”.

I diritti e qualcosa di più: Verso una Precarious’ Charter *

da (s)Connessioni Precarie
1. I precari hanno una lunga storia di lotte, non di riconoscimenti giuridici. Ci piace quindi proporre come riferimento storico il Cartismo in luogo della Magna Charta. Quest’ultima è stata in definitiva ottenuta dai baroni che volevano vedere riconosciuto il loro diritto di ceto e, soprattutto, grazie a questo riconoscimento legittimavano il monarca nella sua posizione. L’habeas corpus è stato sospeso in Inghilterra così tante volte (di fronte a insurrezioni, riot, ribellioni varie) da non essere una grande garanzia politica. Il cartismo per oltre vent’anni (tra il 1830 e il 1850) lotta costantemente per il riconoscimento dei diritti politici e sociali degli operai inglesi. La Carta per i cartisti è un insieme di rivendicazioni in termini di diritti e allo stesso tempo la manifestazione del loro potere sociale (un potere che ai tempi della Magna Charta non c’era, e d’altra parte in senso stretto non c’era nemmeno la società). Il fatidico 7 aprile 1848 i cartisti dichiararono che avrebbero presentato una petizione al parlamento con due milioni di firme (mentivano un po’ sui numeri, ma chi non lo fa…). Non andò bene. Ma tutti i funzionari pubblici andarono al lavoro armati per difendere la monarchia dal loro assalto. Londra non ha mai avuto tanta paura del suo proletariato. A questo punto, consapevoli dei limiti politici della loro People’s Charter, essi coniarono lo slogan: la carta e qualcosa di più. A Marx piaceva e noi abbiamo una vena di nostalgia. Sarebbe simpatico che i precari lo riformulassero a modo loro: i diritti e qualcosa di più…
 2. I precari non hanno una visione progressiva dei lavori. Parlare dell’incremento del lavoro cognitivo a scapito di quello manuale rischia di riprodurre la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che si vorrebbe invece superata. I diversi e contemporanei tempi del capitalismo non relegano il lavoro manuale a un passato destinato a scomparire, oppure in luoghi del mondo che possano essere cancellati dal discorso sulla precarietà. Qui e ora i lavoratori cognitivi siedono tutti i giorni in uffici o università che qualcuno pulisce; usano computer o I-pad prodotti da altri precari; qui e ora o da qualche altra parte del mondo. Leggono libri che altri precari spediscono dai grandi magazzini (in giro per il mondo e anche nel bel paese) di Amazon. Se le fabbriche del nord sono in crisi, la fabbrica verde del sud d’Italia prospera grazie alla precarietà dei migranti. Le lotte precarie devono saper cogliere questa contemporaneità di forme e farne un elemento di forza. Assumere la dimensione globale della precarietà significa non pretendere di individuare un punto più avanzato del capitalismo, ma cogliere la complessità che produce la precarietà stessa.
3. La precarietà è un rapporto di potere. La precarietà è una questione di classe. Ciò non significa che la precarietà produca una composizione sociale omogenea o si riconosca in una qualche etica del lavoro. Ciò non era particolarmente vero nemmeno durante il fordismo. Non era vero né dentro né fuori la fabbrica. Significa invece che i precari sono una parte della società – quella sfruttata – che vuole mettere fine al proprio sfruttamento. Il punto non è quindi stabilire quali siano i precari con maggiore coscienza della propria condizione, ma quali sono i modi per accumulare la forza sufficiente per rompere i confini della precarietà in quanto sistema gerarchico di coazione al lavoro. La precarietà è la condizione individuale e individualizzata di una massa enorme di individui. Questo è il nostro punto di partenza.

Per uno stile di militanza

di COLLETTIVO UNINOMADE
La natura a suo modo costituente dell’azione del capitale finanziario si sta dispiegando completamente: in quanto sussume industria, servizi e lavoro sociale in generale, dà ormai prova di essere immediatamente politica. Perciò esso esercita una governance finanziaria sulla nuova composizione sociale del lavoro e trasforma quindi i governi in organi di esecuzione del suo comando diretto. L’attacco a quanto rimaneva, sul terreno del welfare, delle conquiste strappate dalle lotte dei decenni precedenti, è ora presentato esplicitamente, senza neppure più nascondersi dietro le retoriche del galateo costituzionale, come comando dei mercati finanziari, al quale non resta altro che adeguarsi.
In questa situazione, il primo cadavere lasciato sul campo è, ovviamente, qualsiasi richiamo al metodo concertativo, ancora in piedi solo nei sogni, sempre più nostalgici, di qualche settore della socialdemocrazia europea, che ancora prova a richiamarsi a un “modello tedesco” già abbondantemente in crisi nella stessa Germania. Il tentativo di sperimentare una via d’uscita liberista dalla crisi del neoliberalismo richiede in tutta evidenza l’archiviazione dei riti della mediazione, chiude gli spazi del compromesso, va imposto ai recalcitranti non senza far mostra di un’adeguata dote di cinismo “professorale”.
 È in questo quadro europeo che il governo Monti prova a dettare la riforma del mercato del lavoro. L’attacco all’art. 18 e l’ulteriore riduzione degli ammortizzatori sociali acquistano perciò una portata tutta politica, davanti alla quale le difficoltà del sindacato appaiono evidenti. La FIOM da tempo si presenta come ultimo baluardo della “difesa del lavoro”, ma qui è ora tutta la CGIL a essere consapevole che non reagire in qualche modo potrebbe significare rischiare grosso. Non ci sono letteralmente spazi per retrocedere: se non fosse stato già abbastanza chiaro, lo hanno spiegato a voce alta i blocchi stradali, gli scioperi spontanei, le mobilitazioni che hanno coinvolto i lavoratori ben al di là delle stesse appartenenze sindacali. “In difesa dell’art. 18”, si è detto e scritto: ma non ci vuole molto a vedere che, al di là dello stesso diritto al reintegro, quella che si è animata è una spontanea, istintiva difesa della vita intera, una resistenza generale al ricatto dell’austerità e dell’indebitamento. “Non un passo indietro”, questo semplicemente hanno detto – e imposto di fare al sindacato – quei lavoratori.
 Non c’è nessun dubbio che nella FIOM in primo luogo, nella sua composizione operaia, ma probabilmente non solo nella FIOM, esiste in questa fase disponibilità e generosità militante, un’istintiva capacità di avvertire la necessità della resistenza. Ma proprio per questo, è necessario vedere con lucidità il problema fondamentale. C’è la possibilità, davvero, e fuor di retorica, di passare dalle “aperture” a forme di reddito di cittadinanza, a fare del reddito incondizionato e universale la priorità programmatica centrale, e ad assumerlo come dispositivo di ricomposizione delle lotte, come strumento per la riappropriazione di tutto quanto la rendita finanziaria espropria, come cardine di un nuovo welfare che liberi le vite dal ricatto dei dispositivi di indebitamento?

giovedì 29 marzo 2012

Giù le mani dall’articolo 18! No alle "manutenzioni"!

del Coordinamento lavoratrici e lavoratori autoconvocati - contro la crisi
È  pronto il “Pacco Fornero-Monti” su licenziamenti e ammortizzatori sociali
Dopo i primi incontri alla Camera tra Fornero e parti sociali è chiaro che con le modifiche dell’art.18 della Legge 300 (lo Statuto dei Lavoratori) imposte dal governo si manterrebbe integralmente (anzi si "estenderebbe") solo la tutela del licenziamento per motivi “discriminatori”. Tutela per altro formalmente già garantita dalla Costituzione e per lo più inutilizzata.
Mentre questo governo di padroni, con il forte sostegno del Presidente della Repubblica e l’appoggio pressoché unanime dell’arco parlamentare (PD in testa), con il testo che presenterà al voto darà mano libera ai licenziamenti per motivi “economici” decisi unilateralmente dalle aziende.
È chiaro che questa motivazione potrà essere usata arbitrariamente e vanificherà tutte le altre eventuali applicazioni.
Per questo motivo la parola d’ordine degli scioperi e delle mobilitazioni di tutto il mondo del lavoro, dipendente o atipico, deve essere una: “Nessuna modifica all’articolo 18! Estensione delle tutele per tutti!”
Ogni “manutenzione” o aggiustamento anche parziale che i sindacati accettassero cancellerebbe di fatto questa tutela che invece andrebbe estesa così com’è a tutto il lavoro subordinato dipendente o precario che sia.
Infatti con la modifica dell’art. 18 verrai licenziato se:
1)  Sciopererai;
2)  Sei donna e vuoi fare figli;
3)  Ti ammali di una patologia invalidante e hai ridotto le tue capacità lavorative;
4)  Passi un periodo di vita difficile e non dai il massimo;
5)  Hai acciacchi ad una certa età che riducono le tue prestazioni (e con l’allungamento dell’età lavorativa è      ipotesi certa);
6)  Sei “antipatico” al datore di lavoro o ad un capo che ti mettono a fare lavori meno qualificati e umilianti;
7)  Chiedi il rispetto delle norme sulla sicurezza;
8)  Rivendichi la dignità di lavoratore;
9)  Sei politicamente scomodo;
10) Non ci stai con i superiori;
11) Contesti l’aumento del ritmo di lavoro;
12) Ti iscrivi ad un sindacato combattivo e conflittuale;
13) Appoggi una rivendicazione salariale o di miglioramento delle condizioni di lavoro;
14) Hai parenti stretti con gravi malattie o problemi familiari e hai bisogno di lunghi permessi;
16) Non sei più funzionale alle strategie aziendali;
17) Reagisci male alle offese di un superiore;
18) Dimostri anche allusivamente una mancanza di stima verso il capo e il proprietario;
19) l'azienda per cui hai dato una vita di lavoro non ha più bisogno di te;
20) l'azienda per cui lavori vuole arbitrariamente alleggerirsi il peso del costo del lavoro senza dover dichiarare uno stato di crisi.

La Cgil va alla guerra ...... così è se vi pare, ma .........

del COORDINAMENTO RSU
Ormai tutti i media sdoganano una Cgil sul piede di guerra in difesa dell'art.18. In effetti così sembrerebbe vista la decisione di indire un pacchetto di 16 ore di scioperi, di cui 8 con manifestazione nazionale.
Ma a leggere il documento conclusivo del direttivo Cgil si nota però una sottile (anche se ben mimetizzata) apertura verso quella mediazione a cui il PD sta lavorando (per altro senza garanzia di successo), ossia quel che viene ormai denominato "il modello tedesco".
Quindi si dice che si sta lottando per la difesa dell'articolo 18, ma in realtà si punta ad una mediazione che preveda si il reintegro, come possibilità a fronte di licenziamento illegittimo (anche per la causale economica) ma lasciandolo nella disponibilità di un giudice del lavoro.
Quindi, in caso di licenziamenti illegittimi, il giudice non "deve" ordinare il reintegro, ma "può" farlo ...  se vuole.
Ora il decreto legge governativo (con la formula "salvo intese") andrà al parlamento, e la Cgil non nasconde di sperare molto in una mediazione parlamentare che vada nella direzione del modello tedesco.
Ciò vuol dire dunque che lo sciopero indetto dalla Cgil, essendo subordinato ed ordinato ad influire sul dibattito parlamentare, si farà (se si farà) non prima di maggio, ossia solo quando si sarà misurata la possibilità per il PD di emendare in qualche modo il decreto del governo.
Nel frattempo nulla o poco si muove (a parte i lavoratori metalmeccanici, gli unici che stanno scioperando e facendo assemblee). Si ha cioè chiara l'impressione che la Cgil non intenda aprire una vera vertenza nei confronti del governo, ma che abbia deciso di delegare al parlamento (in sostanza al PD) l'individuazione di una possibile mediazione che in qualche modo permetta alla Cgil di poter vantare un qualche riferimento al modello tedesco .... comunque un arretramento la cui dimensione dipenderà dal livello della mediazione.
Ma così è visto che tutti, chi un modo chi in un altro, vedono con terrore qualsiasi azione che possa far saltare il Governo.
E qui casca l'asino. Sia da parte del PD, sia da parte della Cgil (per non parlare di Cisl e Uil) interpretano lo scontro sull'articolo 18 come un incidente di percorso, risolvibile con un po di buon senso da parte del Governo.
Non si riesce quindi a comprendere come ciò non sia affatto un incidente, ma un tassello di uno scontro di classe di ben più ampia portata che ha come obiettivo quello di stabilire nuovi e più feroci rapporti di subordinazione del lavoro al capitale.
Il programma di Monti (a parte l'incidente sull'art.18) gode di ampio consenso e complicità anche da parte sindacale (come spiegare altrimenti il silenzio e la non reazione sindacale di fronte all'intervento sulle pensioni), eppure questo programma è chiaro ed esplicito: dragare risorse dai salari, dai risparmi, dalle pensioni per pagare un debito che certo non è stato causato dai lavoratori e dallo stato sociale.
Un programma che nel fare questo (e per poter continuare a farlo) ha bisogno di imporre una chiara e solida subordinazione del lavoro agli obiettivi della finanza e del capitale.
Ha cioè bisogno di manipolare gli stessi riferimenti costituzionali.

venerdì 23 marzo 2012

Perché ho votato contro al direttivo Cgil

di Giorgio Cremaschi
Il direttivo nazionale della Cgil non si è concluso all’unanimità e questo non certo sulla scelta di decidere 16 ore di sciopero e di costruire il massimo della mobilitazione per fermare Monti e il suo disastro, non solo sull’articolo 18. Su questo, almeno da parte nostra, non ci sono dissensi e incertezze.
Il punto vero su cui si è a lungo discusso riguarda la posizione concreta che la Cgil assume sull’articolo 18 e un pò su tutto il resto.
Nel corso della discussione, e ancor più nelle conclusioni del segretario generale è emersa con chiarezza la seguente posizione. Oramai il danno è terribile, questo governo va avanti come un treno con i consensi, anche istituzionali che ha. Il governo Monti è sostanzialmente contro di noi, ma per combatterlo dobbiamo costruire alleanze e proposte tali da metterlo in difficoltà. Per questo sull’articolo 18 non si può mantenere la posizione sinora assunta dagli organismi - quell’articolo non si tocca -, ma bisogna essere disponibili a delle mediazioni che salvino la sostanza. Per queste ragioni il direttivo ha respinto a maggioranza, 73 contro 30, un emendamento al documento finale presentato da Nicola Nicolosi e Maurizio Landini e votato anche dai segretari generali della conoscenza e della funzione pubblica che, in maniera semplice e chiara chiedeva di confermare la posizione sull’intangibilità dell’articolo 18. Il fatto che questo emendamento sia stato respinto a favore di un testo apparentemente simile, ma in realtà aperto a diverse interpretazioni, chiarisce che la segreteria della confederazione vuole un mandato per limitare i danni. Questa posizione non poteva essere condivisa da chi ritiene che la battaglia sull’articolo 18 sia una battaglia di principio di fondo e non un elemento contrattualizzabile.
Per queste ragioni nel voto finale ai 95 sì, compresi Nicolosi e Pantaleo, si sono contrapposte 13 astensioni, tra cui quelle di Landini e Rinaldini, e con 2 voti contrari, il mio e quello di Fabrizio Burattini.

Mercato del lavoro. Cambia tutto...cambiamo anche il sindacato

COORDINAMENTO RSU
L'interesse di capitale ha infine portato a casa quello che voleva. La sostanziale eliminazione di quanto ancora resisteva in materia di tutela del lavoro. Quel che è stato deciso in materia di manutenzione dell'art.18 è di fatto la sua cancellazione.
È un pò la quadra del cerchio di una offensiva che in pochi mesi è riuscita a rendere derogabili dai contratti e dalle leggi i trattamenti salariali e normativi dei lavoratori, ed a rendere più ricattabili e sottomessi i avoratori grazie alla perdita di tutele in materia di reintegro per giusta causa.
Una condizione questa che libera l'interesse di capitale a condurre fino in fondo l'attacco alla contrattazione sindacale riducendola a poco o nulla in nome di uno sviluppo declamato come interesse generale ma che in realtà è solo la ricerca del massimo profitto privato.
La Cgil non ha firmato e proporrà un piano di mobilitazione. Vedremo di che mobilitazione di tratterrà ma sopratutto vedremo su quale piattaforma si sosterrà.
In effetti il problema è questo. La Cgil non ha una piattaforma. Lo dimostra il modo con cui è stato gestito il confronto col Governo.
Era chiaro fin dall'inizio quale fosse l'obiettivo di Monti e quale fosse la sua determinazione, ma la Cgil è andata al confronto solo sperando di limarne le pretese, attenta a non mettere in crisi un governo sostenuto anche dal centrosinistra.
Così, all'idea montiana che la crisi non sia determinata dai limiti che l'accumulazione capitalistica ha incontrato nel suo sviluppo ma dai troppi lacci e lacciuoli che lo Stato (la costituzione e le leggi) ed i lavoratori (con la contrattazione ed il quadro di tutele) pongono alla crescita del profitto privato, la Cgil non ha saputo contrapporre nulla che non fosse un... speriamo che io me la cavo.

Conto alla rovescia per la manifestazione del 31 marzo

di Federico Rucco
La manifestazione nazionale a Milano del 31 marzo “Occupyamo Piazza Affari" si sta imponendo come appuntamento politico centrale per tutte le forze che intendono opporsi ai dikat del governo Monti-Napolitano

Si respira un clima di consapevole euforia nelle riunioni del Comitato No Debito alla vigilia della manifestazione nazionale di Milano. L'ultima riunione ha “ripassato” tutti i problemi connessi all'organizzazione di un appuntamento politico che dalla sua aveva avuto finora solo la determinazione a realizzarlo e la lungimiranza sulla data. Essa cade infatti all'indomani del diktat sull'art.18 e il mercato del lavoro imposto dal governo Monti, intercettando in qualche modo la voglia di reagire ad un esecutivo bulldozer che vorrebbe riportare i lavoratori, le condizioni e le relazioni sociali del paese all'Ottocento. Il Comitato No Debito ci tiene a sottolineare in questo le responsabilità di Napolitano. Lo ha fatto in piazza alla manifestazione sotto Montecitorio martedi scorso, lo ha ribadito nella riunione nazionale di ieri, lo scriverà sul proprio striscione per la manifestazione di Milano. L'appuntamento del 31 marzo ha avuto tra l'altro la volontà e la capacità di allargare il fronte, tanto da costituire un apposito comitato promotore esteso a forze sindacali e sociali che non sono nel Comitato No Debito. “Sarà una manifestazione antagonista nei contenuti e pacifica nello svolgimento” affermano diversi interventi. Sarà una manifestazione conflittuale e non rituale, perchè abbiamo posto chiaramente il suo obiettivo: la Borsa, il luogo dove le vite e il futuro di milioni di persone non contano nulla e vengono funzionalizzate alle esigenze speculative del capitale finanziario. Le adesioni stanno crescendo vertiginosamente, sono ormai oltre 400 tra organizzazioni e individualità,coloro che hanno sottoscritto l'appello di convocazione.
Il corteo avrebbe voluto partire da un altro simbolo della metropoli milanese: la Bocconi. L'università privata delle èlite che ha prodotto Monti e i suoi ministri. La Questura ha detto no e si partirà da piazza delle Medaglie d'Oro (metro Porta Romana). Per lunedi pomeriggio a Milano è prevista la riunione organizzativa sulla manifestazione mentre giovedi si terrà la conferenza stampa e, questa si, si farà proprio davanti alla Bocconi. La riunione di Roma ha anche proposto che sabato 31 marzo una delegazione porti una corona alla lapide per Roberto Franceschi, lo studente milanese ucciso dalla polizia nel 1973 proprio davanti alla Bocconi. In piazza, dicono i No Debito, ci sarà quel fronte sociale che il governo e la Bce vorrebbero dividere: i precari e i lavoratori stabili, insieme e non contrapposti, ci sarano i sindacati di base come Usb e Cub e pezzi della Fiom e della Cgil ma ci saranno anche i No Tav, gli occupanti di case, i centri sociali, insomma una vera alleanza sociale che intende mettersi di traverso su tutti I fronti ai diktat del governo e delle istituzioni europee. Si comincia anche a fare qualche scaramantica previsioni sulla partecipazione, si parla di decine di pullman da tutta Italia ma ci si preoccupa anche dei soldi che non ci sono perchè la manifestazione è autofinanziata, una garanzia di indipendenza politica importante ma anche un problema reale. E' stato aperto anche un sito ad hoc sulla manifestazione per fornire tutte le informazioni utili e magari raccogliere un po di sottoscrizioni : https://sites.google.com/site/manif31marzomilano/home

Lezioni di default dalla crisi greca

di Andrea Fumagalli*
A più di una settimana dalla conclusione della ristrutturazione del debito greco, può essere utile, a mente più serena, ripercorrere e valutare le tappe che hanno portato ad un vero e proprio default controllato
Il 9 marzo scorso si è chiuso l’operazione di scambio (swap) di titoli di Stato greci che ha coinvolto i creditori privati. Da un punto di vista tecnico, la maggior parte degli investitori istituzionali e privati, che hanno dato la propria adesione, hanno accettato di cambiare i propri titoli con nuovi titoli di minor valore: in particolare, i vecchi titoli di stato sono stati scambiati con:
 a. nuove obbligazioni con scadenze comprese fra il 2023 e il 2042 dal valore nominale complessivo pari al 31,5% dei titoli originariamente in possesso (quindi una svalorizzazione del 68,5%);
 b. un warrant (titolo finanziario particolare) emesso dalla repubblica ellenica con importo nominale pari al 31,5% (quindi una svalutazione ancora del 68,5%) e scadenza nel 2042 che darà diritto al pagamento di interessi annuali nel caso in cui la Grecia dovesse osservare il previsto percorso di crescita del Pil.
 c. nuovi titoli zero coupon emessi dall’Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) con scadenze a 12 e 24 mesi aventi un valore nominale pari al 15% (perdita dell’85%).
In conclusione si è trattata di una riduzione del valore dei titoli di stato greci mediamente pari al 73% del valore nominale. Il risultato è stato un taglio netto del debito greco privato da 206 a 107 miliardi di euro, pari a più di un terzo del debito complessivo.
Tale riduzione ha prevalentemente interessato le grandi banche europee. L’adesione degli istituti di credito all’offerta di concambio è stata, comunque, massiccia. Le 450 aziende rappresentate dalla Institute for International Finance hanno accettato tale taglio su un patrimonio complessivo vicino ai 110 miliardi di euro. Come dire che dalla sera alla mattina hanno cancellato 80 miliardi dall’esposizione di Atene In realtà quasi tutti gli istituti avevano già svalutato in bilancio tra il 50 e il 70% il valore dei loro bond ellenici e di conseguenza lo swap greco ha ridotto ulteriormente il valore patrimoniale dei titoli in questione solo del 10-20%. Tra gli italiani le Generali hanno perso 328 milioni, Intesa Sanpaolo 593 e Unicredit 316 (dati: http://www.iif.com).

giovedì 22 marzo 2012

I veri obiettivi della riforma Monti-Fornero & Bce

di Luca Casarini *
Tutta la retorica della flexsicurity per salvare i giovani, dei sacrifici da far fare ai più garantiti per rompere il dualismo del mercato del lavoro, del togliere un pò di “privilegi” per estendere le tutele in maniera universale, tutto questo armamentario si è rivelato solo fuffa. Parole, propaganda, balle. Per come è andata questa pseudo trattativa, condotta dal governo con l’ausilio del monarca Giorgio Napolitano, che ha già lanciato l’anatema nei confronti di coloro che oseranno “rompere” il vincolo della Grande Coalizione, sembrano due i veri obiettivi dell’esecutivo. Il primo è palese, e riguarda quella sfera simbolica attraverso la quale si costruiscono le reputationdegli stati solventi e credibili per coloro che acquistano il loro debito: la“bastonatura” dei sindacati “riottosi”, di quelli che vorrebbero negoziare, anche solo in minima parte, prezzo e condizioni di vita della forza lavoro che rappresentano. Il refrain sul quale si muove infatti, la governance europea, è quello di un nuovo “interesse generale” che va oltre e contro la composizione di un patto sociale come accordo tra parti dagli interessi contrapposti. Il nuovo patto sociale deve essere il frutto di una visione metafisica, quasi mistica, della società e del suo funzionamento. La politica dei sacrifici ha una lunga storia, e un’ideologia trasversale che la sostiene. “Bisogna fare così, perchè è l’unica strada, perchè così è stato deciso”. A nulla valgono le considerazioni diverse, quelle che ad esempio mettono in discussione la bontà delle ricette di austerity per affrontare la crisi. Come ogni religione che si rispetti, anche la dottrina del liberismo della crisi, non può sottoporsi a troppi esami. Una dottrina è una dottrina, e come tale ha diritto a non offrire prove di veridicità. Può sempre rifugiarsi insomma, nel territorio insondabile del “miracolo che verrà”, una soglia questa che non è oltrepassabile dal raziocinio ma può solo essere annunciata dai Grandi Sacerdoti, i tecnici. Quindi, come ha più volte ricordato l’altro Mario, quello a capo del board della Bce, “il vecchio modello di welfare europeo” deve cedere il passo a qualcos’altro, qualcosa che nasce attorno al rigore fiscale, al pareggio di bilancio come precetto costituzionale, all’idea che il pagamento del debito, e non il lavoro, sia la nuova chiave di accesso alla cittadinanza. Per costruire questa fede, perchè non esiste nessuna motivazione empiricamente dimostrabile che tutto ciò sia giusto, o ineluttabile, il debito pubblico oggi comincia ad essere conteggiato come debito procapite, tanto da inculcare dentro la testa dei “fedeli”che effettivamente ognuno di noi abbia speso, senza rendersene conto, quei 32 mila euro che oggi ci vengono caricati sulle spalle come “national debt footprint”. Il Governo dunque lavora alla costruzione della reputation, e gli insegnamenti della Tatcher e di Reagan sembrano essere i suoi riferimenti. In questo senso un accordo troppo armonico, condiviso, unanime con le parti, non avrebbe sortito lo stesso effetto d’immagine. Quindi fin dall’inizio, il Governo, come faceva il precedente Ministro Sacconi, lavorava ad uno strappo, meglio se con la Cisl e la Uil da una parte e la Cgil ( che ha la Fiom al suo interno) dall’altra.

People have the power. Movimento No Ponte quale futuro?


di Luigi Sturniolo
Sabato 24 marzo alle 9.30 il Movimento No Ponte ha indetto una Assemblea pubblica presso la Stazione Marittima di Messina. Come collegare le lotte a partire dalla Val di Susa e costruire una economia del Comune solidare e sostenibile?
Il movimento No Tav è un movimento politico, così come il Governo Monti ha carattere politico. Il paradosso di quest’ultimo risiede nel fatto che la sua natura tecnica viene sbandierata come formula di garanzia laddove l’attuale fase storica è contraddistinta dalla crisi della tecnica. Fukushima può essere considerato l’epifenomeno di un’applicazione della tecnica che ha fatto cortocircuito con l’ambiente e con l’uomo. Allo stesso modo la necessità di applicare artifizi matematici per tenere in vita la convenzione economica segnala la fine degli automatismi basati sullo scambio capitalistico. Il Governo Monti è un paradosso perché espressione di una crisi e medico della stessa. Il Governo Monti è la rappresentazione dell’affermazione della tecnica al tempo della sua crisi. L’essere chiamato a rappresentare la conoscenza oggettiva l’avrebbe voluto capace di certificare la giustezza delle proprie scelte sulla base della dimostrazione scientifica. E invece l’esecutivo tecnico in Val di Susa si è incagliato. E lì ha fatto quello che tutti i poteri fanno per dimostrare la propria ragione: ha esercitato la forza. E l’ha esercitata con grande dispendio di risorse.
Il movimento No Tav è un miracolo perché, quando nessuno se lo aspettava, ha dimostrato che il popolo può vincere. O almeno può battersi avendo ancora qualche possibilità di vittoria. Esso ha fatto del territorio la propria forza. Il territorio, messo a profitto dalle politiche delle grandi opere, diviene così luogo della resistenza. La Val di Susa non è cascata nel tranello basato sullo scambio devastazione/flussi di denaro. In Val di Susa il popolo ha il potere perché applica il metodo che tutte le resistenze praticano per vincere: la conoscenza del territorio, la sua familiarità, l’imporre all’avversario un tale dispendio di energie e risorse da rendergli sempre meno conveniente l’intrapresa. Tutti i ragionamenti sulla necessità del dialogo nascono da questa evidenza. Un dialogo un po’ peloso, certo, perché basato sul principio che, comunque, l’infrastruttura vada realizzata. Più che un dialogo, quindi, una propaganda, una pratica di convincimento, un tentativo di cooptazione (rimpinguato, adesso, da qualche decina di milioni di euro in opere compensative). Non una messa in discussione dell’opera, non una trattativa nella quale le forze in campo pongono sul tappeto le proprie argomentazioni e le proprie carte. Non una tregua, quindi, ma un dialogo con i blindati per strada.

sabato 17 marzo 2012

Arriva occupiamo Piazzaffari

di Checchino Antonini *
Presentato a Milano il percorso e le ragioni della manifestazione del 31 marzo dalla Bocconi alla Borsa. E una settimana prima, il 24 marzo a Roma, l'assemblea nazionale di Rivolta il debito
La Mayday milanese incontra i NoDebito ed è subito Occupy Piazza Affari.
E’ stato appena presentato a Milano, in una conferenza con Giorgio Cremaschi sotto la Scala, il corteo nazionale del 31 marzo contro le manovre del governo Monti, a ridosso della cosiddetta “riforma” del mercato del lavoro.
L’idea - vedi appello sul Megafono - era quella di attraversare Milano dalla Bocconi alla sede della Borsa per collegare due luoghi simbolo del governo “tecnico” e con un titolo, OccupyPiazzaAffari, che richiama l’ondata di movimento che in mezzo mondo contesta l’austerità e il modello neoliberista. Ma la Bocconi è off limit alle proteste, così il corteo si limiterà a sfiorarla, partendo da Porta Romana per ripercorrere, nell’ultimo tratto, le orme della Mayday, il primo maggio dei lavoratori atipici che anima la città da oltre un decennio. Tra le adesioni si segnalano quelle di No Tav, Rete per la scuola pubblica, Rivolta il debito (Rid), Esc, pezzi di Fiom, Attac e movimenti per l’acqua pubblica.

Quale cultura eliminando le biblioteche scolastiche?

Coordinamento Provinciale Docenti Utilizzati Sassari
“Finalmente” si riesce a chiudere le biblioteche scolastiche, trasferendo i lavoratori–ex docenti in altre amministrazioni.
Chi di noi avrà la salute, la forza, la voglia di riconvertirsi? Dove? Come?
Ci  ascolterete prima di ricollocarci,  o ci ritroveremo, con una lettera tra le mani, trasferiti in chissà quale città o ufficio?
Leggiamo nei resoconti sindacali che tra qualche giorno i funzionari del MEF e del MIUR decideranno la sorte di molti di noi. Un’operazione che si è tentata da anni con tutti i governi e che adesso sta, purtroppo, finalmente riuscendo.
Per favore niente pietismo… niente solidarietà ex post, state facendo una brutta operazione non solo dal punto di vista umano, ma anche dal punto di vista simbolico e di economia culturale.
La scuola  che dovrebbe educare alla tolleranza, alla tutela delle diversità, delle competenze, delle diversità cognitive, degli allievi, non riesce a tollerare, 4.000 docenti  ex–docenti che hanno avuto problemi di salute e per cui era difficile stare in classe ma che hanno altre competenze, che per anni si sono occupati di biblioteche!
E’ così difficile permettere che restino a lavorare nelle scuole? Che esempio per i ragazzi!
Voi tecnici e voi politici  parlate di meritocrazia, di efficienza, ma avete mai fatto un indagine seria, per sapere se le biblioteche scolastiche funzionano? Per conoscere il livello di gradimento, dei ragazzi, delle famiglie dei colleghi e dei Dirigenti Scolastici?
Pensate  seriamente, che in un momento come questo di passaggio dal cartaceo al digitale, sia uno spreco avere delle persone che stanno 36 ore in mezzo ai libri, ai computer… con i ragazzi e che se anche non fanno una lezione frontale, vivono nella scuola e per la scuola?

Il punto di vista precario sulla manifestazione Fiom-Usb del 9 marzo

di STATI GENERALI DELLA PRECARIETÀ
Lo sciopero e la partecipata manifestazione dei metalmeccanici della Fiom e Usb di venerdì 9 marzo è stata un’occasione per una mobilitazione di opposizione al nuovo governo Monti. Non può stupire quindi come numerosi siano stati gli slogan contro il PD e pure contro la Cgil, accusati di essere fedeli esecutori del piano di ristrutturazione economica imposto dalla troika economica. I temi di natura sindacale, legati al rinnovo del contratto metalmeccanico e all’autoritarismo della Fiat, si sono ampliati sino a prendere in considerazione il tema della democrazia (tracimando dalle fabbriche ai territori, esempio Val Susa), della riforma del mercato del lavoro (difesa dell’art. 18), della distribuzione del reddito (reddito di cittadinanza) e delle politiche di austerity perseguite dal governo Monti. Tutto bene, dunque? Certo, ma con qualche perplessità. Il motivo è semplice. Le rivendicazioni portate avanti sono tutte condivisibili ma ci appaiono, a noi precari e precarie, parziali e sostanzialmente difensive.
Difendere la democrazia sindacale in fabbrica e, latu sensu, nei luoghi di lavoro è un ottimo proposito, peccato che ciò non sia mai valso per i lavoratori atipici e precari, che non possono far parte delle rappresentanze di base. Ora che la Fiom viene espulsa dalla Rsu della Fiat, ci si accorge che le forme della rappresentanza del lavoro sono parziali. Ma già lo erano, anche quando la Fiom era ben rappresentata. Non si può, dunque, limitarsi a richiedere il ripristino della rappresentanza per tutti i sindacati; occorre andare oltre, ovvero consentire a tutte le tipologie del lavoro di essere presenti attivamente nei tavoli della contrattazione, a prescindere dalla maggior o minor rappresentatività.Difendere l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è cosa buona e giusta. Ma, oltre ad essere una posizione solo difensiva, è anche parziale, visto che tale misura di protezione contro possibili licenziamenti indiscriminati vale solo per metà della forza lavoro e la maggioranza dei precari e precarie ne è esclusa. Così come i precari e le precarie sono esclusi da buona parte degli ammortizzatori sociali, con la conseguenza che alla frequente e incontrollata perdita del posto di lavoro si accompagna nella maggior parte delle volte la miseria più nera, non potendo accedere a nessuna forma di sicurezza sociale. Ora, è vero che nella manifestazione di venerdì una delle parole d’ordine era la richiesta di un reddito di cittadinanza, ma a tutt’oggi a livello ufficiale la Fiom non ha ancora declinato in modo concreto che cosa intenda per “reddito di cittadinanza” e quali sono le modalità per conseguirlo. Al riguardo, abbiamo il fondato sospetto che la sua idea di basic income sia intesa più come un esteso sussidio di disoccupazione condizionato dalla e alla disponibilità di lavoro piuttosto che uno strumento, come interessa a noi precarie e precari, atto a favorire il diritto alla scelta del lavoro, superando così il ricatto irriformabile della precarietà. Il punto di vista precario (vedi i Quaderni di San Precario, la lettera aperta alla ministra Fornero) è al riguardo molto chiaro. Il reddito di base deve essere individuale, incondizionato, dato ai residenti, autoctoni e migranti (e non solo ai cittadini italiani). Abbiamo anche quantificato i costi e suggerito come reperire i finanziamenti. Di tutto questo, e di come renderlo praticabile, parleremo negli Stati Generali della Precarietà 4.0 che si svolgeranno il prossimo 17 e 18 marzo a Napoli. La battaglia per un reddito di base incondizionato inoltre non deve né può essere disgiunta dalla ripresa di una lotta sul salario. I recenti dati pubblicati dall’Ocse ci dicono che il livello salariale in Italia è tra i più bassi d’Europa (inferiore sino al 2009 alla Grecia), a conferma di una situazione che, di fronte all’aumento dei prezzi e alle politiche attuali di congelamento delle retribuzioni (esito dei nefasti accordi sindacali del 1992-93 e seguenti), incide pesantemente anche su chi dispone di un lavoro standard. Per questo riteniamo che la battaglia sul reddito deve essere agita in prima persona dai salariati con lavoro stabile così come una battaglia per l’aumento del salario è obiettivo strategico anche per le precarie e i precari. Il punto di vista precario è perciò anche un punto di vista sul salario che manca, che è poco, che è insicuro. È il punto di vista di chi è consapevole del fatto che, essendo sempre più labile il confine tra salariati e precari, non è possibile nessuna difesa del salario come tale. Il punto di vista precario vuole rovesciare il rapporto di potere che vorrebbe sottomettere completamente i salariati ai piani delle imprese.

venerdì 16 marzo 2012

La Cgil pronta a firmare. La minoranza esclusa dalla riunione

dalla Redazione Contropiano
Clamorosa decisione della maggioranza Cgil: convocata una riunione dei segretari nazionali di categoria e della camere del lavoro regionali per decidere cosa fare nella trattativa. Contrariamente alla prassi di sempre, la minoranza de "la Cgil che vogliamo" non è stata neppure invitata. E' un passaggio gravissimo che trasforma le istituzioni democratiche all'interno del più grande e storico sindacato italiano in proprietà privata della segreteria confederale. E che preannuncia un accordo talmente schifoso che non si può neppure discuterne con tutto il gruppo dirigente, ma solo con la parte che direbbe "sì" ai desiderata del segretario generale, la craxiana Susanna Camusso. L'unica categoria a esprimere contrarietà alla decisione, a quanto si è appreso, è ancora una volta la Fiom.
Gianni Rinaldini, coordinatore nazionale de La CGIL che Vogliamo, l’area programmatica esclusa dalla riunione decisionale sulla trattativa, ha dichiarato:
"E' in corso in CGIL una riunione dei segretari generali delle categorie e dei territori sulla trattativa col governo sul mercato del lavoro. Per la prima volta è stata esclusa dalla discussione la minoranza congressuale che per prassi consolidata e per rispetto del pluralismo a riunioni di questo livello ha sempre partecipato. Se le motivazioni attenessero al rispetto della riservatezza sarebbero infondate e persino offensive del senso di responsabilità dei componenti la minoranza. E' piuttosto,a questo punto, legittimo – e inquietante- il sospetto che le ragioni di tale esclusione riguardino il merito dei testi che la CGIL si appresterebbe a sottoscrivere".

mercoledì 14 marzo 2012

La fabbrica dell’uomo indebitato

In Europa, alla stregua di altre parti del mondo, la lotta di classe oggi si dispiega e concentra intorno al debito. Con una crisi del debito che arriva a toccare gli Stati Uniti e il mondo anglo-sassone, ovvero i paesi che hanno prodotto, oltre all’ultimo disastro finanziario, soprattutto il neoliberismo.
La relazione creditore-debitore, che sarà al centro della nostra argomentazione, intensifica i meccanismi di sfruttamento e di dominio in forma trasversale, senza fare alcuna distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi, pensionati o beneficiari di sussidi. Di fronte al capitale, che si presenta come il Grande Creditore, il Creditore universale, sono tutti «debitori», colpevoli e responsabili. Una delle principali poste in gioco del neoliberismo resta quella della proprietà – com’è chiaramente dimostrato dalla «crisi» attuale –, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (di capitale) e non proprietari (di capitale).
Attraverso il debito pubblico a indebitarsi è l’intera società, cosa che non impedisce, ma esaspera, «le disuguaglianze», che sarebbe venuto il momento di chiamare «differenze di classe».
Le illusioni economiche e politiche di questi ultimi quarant’anni cadono l’una dopo l’altra, rendendo le politiche neoliberiste ancora più brutali. La new economy, la società dell’informazione, la società della conoscenza sono tutte solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno trionfato sul comunismo pochissime persone (qualche funzionario dell’Fmi, dell’Europa e della Banca centrale europea, insieme a qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. La grandissima maggioranza degli europei viene tre volte deprivata dall’economia del debito: deprivata del già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; deprivata di una quota sempre maggiore della ricchezza che le lotte trascorse avevano strappato all’accumulazione capitalistica; ma soprattutto, deprivata del futuro, ovvero del tempo, come decisione, scelta, come possibile.
La successione delle crisi finanziarie ha fatto violentemente emergere una figura soggettiva che era già presente, ma che oggi ormai investe l’insieme dello spazio pubblico: la figura dell’«uomo indebitato». Le realizzazioni individuali promesse dal neoliberismo («tutti azionisti, tutti proprietari, tutti imprenditori») ci spingono verso la condizione esistenziale di quest’uomo indebitato, responsabile e colpevole del suo stesso destino. Questo saggio vuole proporre una genealogia e un’esplorazione della fabbrica economica e soggettiva dell’uomo indebitato.

domenica 11 marzo 2012

Salute sui luoghi di lavoro. Il governo Monti taglia anche i controlli

una lettera per protestare contro questo incredibile e pericoloso progetto
Ci siamo sentiti in dovere di fare questo appello per Andrea Gagliardoni, Matteo Valenti, Ruggero Toffolutti, Giuseppe Coletti, Vladimir Toder, Tullio Mottini, Maurizio Manili, Antonio Schiavone, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rocco Marzo, Antonio Santino, Rosario Rodinò , Giuseppe Demasi e per gli altri tantissimi lavoratori che non si sono più perchè sono morti sul lavoro.
L’abbiamo fatto anche per chi rimane invalido sul lavoro, per chi si ammala e muore di malattie professionali.
Vorremmo che questo appello fosse pubblicato dai mezzi d’informazione, ma non perché lo chiediamo noi, ma perché credete sia la cosa più giusta da fare.
Perché sopprimere o ridurre i controlli per la tutela ambientale, per la salute e la sicurezza sul lavoro è molto pericoloso.
Si rischia di creare un senso di impunità in molti imprenditori, significa ridurre le tutele per la salute e la sicurezza sul lavoro.
Sappiamo benissimo che molti imprenditori considerano la sicurezza sul lavoro come un costo insopportabile per le aziende, figuriamoci adesso in questo tempo di crisi e con i controlli soppressi o ridotti.
I controlli per la tutela ambientale, per la salute e la sicurezza sul lavoro sono molto importanti.
Noi vorremmo un Italia migliore, dove ogni anno non ci siano oltre 1200 ammazzati sul lavoro, dove non ci siano migliaia di morti per malattie professionali, dove non ci siano oltre 25 mila invalidi sul lavoro, dove non ci siano un milione di infortuni sul lavoro.
Se in cuor vostro, credete che questo appello sia giusto, che vale la pena di combattere per una giusta causa, beh allora diffondete l’appello, aderite per email, inviatelo a tutti i vostri contatti email, pubblicatelo sui vostri blog, sui vostri siti web, sulle vostre bacheche facebook e su Twitter.
Saluti.  (Marco Bazzoni-Operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza-Firenze)

sabato 10 marzo 2012

SOS geotermia. Moratoria subito prima che sia troppo tardi

SOS GEOTERMIA  (Coordinamento dei Movimenti Amiatini)
Comitati e cittadini contro la geotermia sull'amiata si coordinano. Il Monte Amiata, splendida ed antichissima terra a cavallo tra le provincie di Siena e Grosseto, è da anni sotto l'attacco dell'ENEL e della Regione Toscana. Il motivo? La Geotermia, presunto energia verde e rinnovabile, che invece inquina ed uccide
Una richiesta pressante per una moratoria nello sfruttamento geotermico sul monte Amiata è quanto emerso dall'incontro dei Comitati e cittadini amiatini che si sono riuniti il 4 marzo scorso per dare nuovo impulso alla campagna SOS GEOTERMIA, che già da diversi mesi svolge opera di informazione sui rischi legati a tale attività.
SOS GEOTERMIA si propone quindi come una 'rete' di Comitati, Associazioni e cittadini che intendono opporsi al depauperamento e sfruttamento del territorio e delle sue risorse e che auspicano invece uno sviluppo economico dell'Amiata legato alla sua vocazione naturale fatta di prodotti tipici, artigianato e turismo.
Ci troviamo oggi di fronte ad un'emergenza legata all'acqua: i dati ufficiali denunciano una drastica diminuzione negli ultimi 20 anni del volume dell'acquifero potabile della montagna ed il contemporaneo aumento delle concentrazioni di Arsenico che dal 'naturale' valore intorno ai 2/3 microgrammi/litro oggi ha raggiunto e, in alcuni casi, superato il valore di 10 microgrammi/litro.
Ricordiamo che il valore di 10 è il massimo ammesso dalla legge e che negli ultimi dieci anni la regione Toscana ha usufruito di ben 9 anni di 'deroghe', significando che abbiamo bevuto acqua avvelenata, essendo l'arsenico riconosciuto come 'cancerogeno' già a partire da concentrazioni di 2 microgrammi/litro. L'OMS (Organizzazione Mondiale di Sanità) consiglia di evitare il consumo di acqua con valori di arsenico superiori a 5, soprattutto a bambini, donne incinte, anziani e malati.
All'avvelenamento progressivo delle sorgenti le amministrazioni e gli enti gestori, che in questi anni non hanno mai fornito la prescritta 'informazione' ai cittadini, oggi stanno rispondendo all'emergenza con la miscelazione e il filtraggio dell'acqua che non elimina le cause, ma consente loro di 'certificare' il rientro nel limite massimo di 10. Oltretutto i costi di tali "palliativi" vengono scaricati sulle bollette dei cittadini; i danni alla salute causano costi sanitari che ancora gravano su chi subisce tali conseguenze; i danni all'ambiente squalificano il territorio e rendono vano ogni tentativo di valorizzazione dello sviluppo turistico.
Come SOS GEOTERMIA riteniamo che questa sia una politica folle proprio perché si tratta di una 'pezza' che non risolve il problema, che invece è destinato a moltiplicarsi con l'eventuale, sciagurato avvio della nuova centrale Bagnore 4. Per non parlare della presenza di altri inquinanti, sia nell'acqua che nell'aria.
Oggi lanciamo un appello urgente alle popolazioni dell'Amiata, ai nostri amministratori, agli enti gestori, ai media: fermiamo la 'macchina geotermica' ora, subito, per valutare, sulla base dei tanti dati scientifici già noti e spesso ignorati, i rischi alla salute e al territorio, all'economia delle produzioni tipiche.
Preannunciamo un intensificarsi delle iniziative nei prossimi mesi, che coinvolgeranno tutti i paesi e le popolazioni dell'Amiata fino a che non si giunga ad una 'moratoria' generale dell'attività geotermica.

venerdì 9 marzo 2012

appunti dalla Val Susa.Composizione, specificità, generalizzazione

di Gigi Roggero
Questi appunti, schematici e parziali, sono solo una prima breve trascrizione ragionata delle discussioni con militanti e persone interne al movimento No Tav, oltre alla partecipazione diretta alle sue embrionali forme di radicamento. Non è nostra intenzione narrare o spiegare questo movimento, perché questo lo devono fare e lo stanno facendo coloro che ne sono parte. L’obiettivo è invece di contribuire alla discussione collettiva su alcune delle indicazioni che da queste lotte ci vengono

Diciamolo subito: le lotte in Val Susa non costituiscono un’esplosione improvvisa, dei moti imprevisti, un evento senza genealogie. Al contrario, affondano le proprie radici in una storia ormai ventennale di sedimentazione e organizzazione. Sarebbe stato possibile il movimento No Tav senza un investimento politico e una continuativa presenza militante? Non sappiamo, ma di certo avrebbe difficilmente conquistato questa forza e direzione collettiva. Ciò non significa, però, che le lotte siano il semplice e lineare prodotto di una determinazione politica, perché questa si situa dentro un contesto e una composizione sociale specifici. La Val Susa è una valle stretta, lunga e densamente popolata, e non corrisponde a un tipico territorio di montagna: ruoli chiave sono svolti, oltre che dal lavoro agricolo, dall’industria (siderurgia e indotto Fiat), dal terziario avanzato, dal pendolarismo verso Torino (soprattutto nella bassa valle, che va da Avigliana a Susa) e dai flussi transfrontalieri (a cui si aggiungono, nell’alta valle, le attività legate all’industria turistica). La Val Susa e la sua composizione sociale e di classe sono quindi in stretta connessione con lo sviluppo urbano e metropolitano di Torino, ne costituiscono un’articolazione con caratteristiche affatto peculiari. A ciò si aggiunga la presenza nella valle di una memoria come quella partigiana che, per quanto possa avere dei tratti mitici, assume in questa situazione un carattere vivo e produttivo. É questa specifica composizione, con la sua storia soggettiva di trasformazioni, conflitti e resistenza, la condizione di possibilità delle lotte No Tav, al cui interno quella scommessa politica è stata agita.
Lo sviluppo di questa storia non era oggettivamente inscritto nelle sue origini, o per dirla in altri termini non c’è nessun esito deterministico a partire dagli elementi dati. Ci pare utile e comodo, ancorché riduttivo e forse descrittivamente non preciso, individuare grosso modo tre fasi del movimento No Tav. La prima comincia negli anni ’90 e arriva fino al 2005: è la fase di creazione e formazione di un’opposizione via via sempre più larga al progetto del treno ad alta velocità. Qui si ritrovano necessariamente le ambivalenze caratteristiche delle lotte territoriali, tra i rischi di chiusura localista e la capacità di generalizzazione. Dentro queste ambivalenze si inizia però da subito a costruire un’indicazione di lotta complessiva (già nel 2001 a Genova, per limitarci a un unico esempio, c’è una grande partecipazione dei No Tav alla mobilitazione contro il G8). Nel dicembre 2005 lo sgombero violento del presidio di Venaus e la battaglia di massa che, pochi giorni dopo, ha consentito di riconquistarlo rendono visibili i processi di organizzazione e consolidata presenza del movimento. É ormai chiaro a tutti che il No Tav non è più solo una mobilitazione circoscritta alla Val Susa, ma sta diventando questione generale. A partire da qui potremmo collocare una seconda fase, in cui crescono ulteriormente i comitati popolari e si cementa la ferma posizione di sindaci, amministratori e rappresentanti delle istituzioni locali che – spinti dall’irrappresentabilità del movimento e non per semplice coscienza individuale – si oppongono al Tav, senza se e senza ma. Chi tentenna o retrocede, perde qualsiasi credibilità e decade di fatto. Nel 2010 le posizioni Sì Tav costeranno al Pd e ai suoi pavidi alleati la Regione Piemonte, ma da questa come da molte altre lezioni gli eredi del Pci non hanno tratto nessun insegnamento, almeno tattico, né sono strutturalmente in grado di trarne. Le bandiere No Tav foderano la valle e non solo, a simboleggiare la creazione di una vera e propria istituzionalità del comune in lotta.

giovedì 8 marzo 2012

In piazza contro Monti, Marchionne e Draghi


di Giorgio Cremaschi*
L’assenza ufficiale del Partito democratico dalla manifestazione della Fiom è solo un ulteriore segno della crisi profonda di questa forza politica. Il governo Monti si muove come un treno, anzi come una Tav, nella devastazione dei diritti sociali e civili del paese. Il suo è il classico programma della destra liberale europea, quello di Merkel e Sarkozy, di cui non a caso Monti si augura la rielezione. Questo è anche il programma della Bce guidata da Draghi. In una famigerata lettera inviata ancora al governo Berlusconi, la Bce e la Banca d’Italia, chiedevano quei tagli sociali e quel via libera ai licenziamenti che oggi il governo sta realizzando. E’ chiaro infatti che anche la cosiddetta trattativa sul mercato del lavoro ha uno sbocco segnato: la messa in discussione dell’articolo 18.
Così come si è devastato il sistema pensionistico, con una controriforma che ha reso quello italiano, lo riconosce la stessa Unione Europea, il più feroce del continente. Nel frattempo il parlamento dei nominati cambia la Costituzione in un punto fondamentale, il pareggio di bilancio. Questa scelta, combinata con il trattato europeo denominato “fiscal compact”, che impegna l’Italia per vent’anni a fare tagli di spesa e manovre per ridurre della metà il debito pubblico, produrrà una miscela micidiale ai danni dello stato sociale e dei diritti. La stessa miscela che sta distruggendo la civiltà e la democrazia in Grecia.
Questa politica di austerità e tagli comunque non rinuncia agli sprechi. Il primo è proprio quello della Tav in Valle Susa, ed è per questo che la lotta di quel popolo e di quel movimento parla a tutta l’Italia. Il secondo è quello degli F35, il cui costo abnorme passa sotto silenzio mentre non si trovano neanche i soldi per assumere gli insegnanti di sostegno. In continuità con il periodo berlusconiano resta poi la copertura governativa alla continua aggressione ai diritti dei lavoratori e alla sfacciataggine di Marchionne. Che da un lato afferma di amare tutto di Monti, e credo che ne sia ricambiato, e dall’altro continua a rispondere con arroganza e strafottenza alla Fiom e a quelle persone perbene che gli chiedono che fine abbia fatto il suo programma di investimenti e di lavoro.

martedì 6 marzo 2012

Lettera aperta al governo sul mercato del lavoro

Stati Generali della Precarietà
Caro
Mario Monti e Ministri Tutti,
A marzo regalerete la riforma del mercato del lavoro mentre avete rimandato al 2013 il riordino del sistema iniquo e arretrato degli ammortizzatori sociali.
Il pacco Monti-Fornero è un passaggio fondamentale nelle politiche di flessibilizzazione realizzate negli ultimi due decenni. I progetti alla base della riforma provengono tutti e tre dal Partito Democratico – Ichino, Damiano, Nerozzi alias Boeri – e sono un esempio di “ingegneria normativa” che porterà a 47 il numero di tipologie contrattuali utilizzate nella giungla della precarietà. Tutto cambia perché niente cambi, soprattutto per i precari.
Attualmente l’indennità di disoccupazione copre il 25% dei licenziati, la cassa integrazione – in particolare quella in deroga – crea sperequazione, clientelismo e riguarda solo una parte dei lavori. L’articolo 18 tutela (per modo di dire) solo il 60% della forza lavoro e sommando finte partite iva e parasubordinazioni la percentuale scende. E’ la concezione stessa dei diritti e delle tutele ad essere parziale e minoritaria, quindi perdente. Serve invece un’idea ampia e convincente per unificare generazioni e lavori. I tavoli di negoziazione tra governo e sindacati non prendono affatto in considerazione la condizione di milioni di precari e precarie che quotidianamente producono ricchezza.
Nelle mani precarie c’è invece la possibilità di capovolgere l’ordine dei problemi e delle priorità: non più garantiti contro precari, giovani contro meno giovani, nord contro sud, lavoro contro non lavoro, italiani contro migranti. Non già profitti garantiti alle grandi lobby ma accesso al reddito di base incondizionato, ai servizi fondamentali e ai beni comuni.
Gli Stati Generali della Precarietà vogliono rovesciare il triste destino di questo marzo per trasformarlo nel mese dell’attivazione e della cospirazione precaria. Dal Primo Marzo giorno dello sciopero migrante fino al 10 marzo gli Stati Generali della Precarietà apriranno in diverse città spazi di connessione, presa di parola e attivazione tra chi non si rassegna alla vita precaria, ma invece rivendica reddito di base incondizionato contro il ricatto della precarietà.
 

Vite precarie. Il gioco a ribasso dei precarizzatori

ControLeFabbricheDellaPrecarietà
Oggi la precarietà è uno stato di fatto: non è un’eccezione, una questione generazionale o contrattuale, ma è la regola generale che investe tutto il lavoro, dalle cooperative alle fabbriche, dalla formazione nelle scuole e nelle università ai servizi sanitari e sociali. La crisi economica sta infatti determinando un continuo gioco al ribasso sulla nostra vita, il nostro lavoro e il nostro salario: i precarizzatori chiedono piena disponibilità alle loro esigenze, mentre diventa sempre più difficile organizzarsi e lottare dentro e contro la precarietà.
Contro questa condizione, abbiamo deciso di prendere parola. Non partiamo da zero, ma dalla forza accumulata con lo sciopero del lavoro migrante del primo marzo degli scorsi due anni. Quelle giornate hanno mostrato che è possibile scioperare in modo incisivo unendo ciò che il razzismo e la precarietà vogliono dividere: il particolare “contratto separato” che si chiama contratto di soggiorno per lavoro è una leva che, ricattando una parte dei lavoratori affinché accettino qualsiasi mansione e salario, serve per precarizzare tutti gli altri. Anche attraverso la Bossi-Fini, la precarietà è diventata la condizione generale del lavoro. Accanto alla Bossi-Fini, però, anche la fabbrica, il welfare e l’università sono altrettante fabbriche della precarietà.

lunedì 5 marzo 2012

dalla postfazione de "Il ghiaccio era sottile"

Marcello Tarì
[...] I movimenti autonomi ci hanno mostrato che il dispiegamento della negatività non è la «prefazione» del futuro. Questo significa che la furia della rivolta non è separata dall’intelligenza che costruisce la possibilità di vivere altrimenti. La cooperazione che vive nel sabotaggio della metropoli è la stessa che è capace di costruire una comune. Saper innalzare una barricata non vuol dire molto se allo stesso tempo non si sa come vivere dietro di lei. Abbiamo tanto da imparare, in un senso come nell’altro.
Gli affetti che circolano tra dei compagni e delle compagne non sono suddivisi tra un dentro e un fuori: si dispiegano e si inclinano a seconda delle situazioni che sono in grado di vivere. Una situazione rivoluzionaria è quella situazione in cui disarticolazione dell’ambiente nemico e frammenti di comunismo circolano anarchicamente, in cui vibra un’intensità capace di concentrarsi su di un azione offensiva alla stessa maniera in cui fa avanzare l’abitabilità di un mondo. La situazione rivoluzionaria allora non è solamente ciò attraverso cui si contorna meglio l’oggetto delle ostilità, ma è ciò che fa sì che l’amicizia ridiventi finalmente un concetto politico.
La retorica antagonista sul «ritorno nei territori» è insopportabile: non esiste nessun territorio a prescindere dalla capacità di lotta, così come non esiste capacità di offensiva senza la presenza di basi materiali. Altrimenti l’unico vero ritorno sarà quello verso il nulla. Solamente l’incrociarsi di un conflitto diffuso con la sperimentazione locale di una forma-di-vita può «fare il territorio». Difatti il lamentoso ritornello del «ritorniamo ai territori» riappare ogni qualvolta, magari dopo un momento di rivolta molto intenso, non si sa che fare poiché non solo non c’è il coraggio di approfondire quel momento di sospensione ma non si ha nessun vero legame con delle situazioni viventi e nessuna amicizia politica con cui condividere uno spazio qualsiasi. Se, ad esempio, un «quartiere liberato» è un quartiere in cui i rapporti mercantili hanno poca o nessuna presa, un luogo dentro il quale l’economia dei dispositivi smette di funzionare, ovvero la fine del deserto sociale, autonomia significherà innanzitutto darsi i mezzi materiali ed elaborare le relazioni affettive che permettono a questa indipendenza di durare e diffondersi. In questo senso non si tratta tanto di «occupare» luoghi, territori o altro ancora, bensì di liberare questi dall’occupazione della polizia e delle relazioni mercificate che, tramite i dispositivi, ne sanciscono l’inabitabilità poiché funzionano separando volta a volta l’oggetto dal suo uso, la parola dal suo potere, il pensiero dall’azione, l’immagine dalla sua passione, e così via. Ogni passo in avanti nel rovesciamento di questi ostacoli all’abitare il mondo è una possibilità di intensificazione del comunismo. «Autonomia diffusa», ieri come oggi, vuol dire la diffusione ovunque di pratiche che mentre sperimentano la condivisione siano in grado di rompere l’accerchiamento dei dispositivi che si oppongono alla sua realizzazione.
Non vi è nessun «bene comune» separato dall’uso comune che si può fare dei mondi che abitano i corpi e dei corpi che li attraversano. Per questo vivere il comunismo è anche mettere in discussione ogni genere di diritto proprietario: non alla proprietà comune ma a un uso fuori dal diritto va commisurato il suo essere in atto. Del socialismo ne abbiamo avuto davvero abbastanza e finché ci si aggirerà nei dintorni della metafisica della proprietà e del diritto non si riuscirà a intravedere la fine della civiltà del capitale. Ogni qualvolta siamo in grado di deporre il diritto e di liberare l’uso quella fine è più prossima. Uscire dal paradigma dell’economia va necessariamente di pari passo con la sovversione di quello del governo.
Dovrebbe essere evidente che ogni volta che si dice comunismo non si tratta affatto solo di oggetti da produrre o di macchine per produrre ma di una relazione alle cose, alle macchine, alle piante, al mondo, in cui circolano degli affetti e dei corpi i quali accedono a una forma-di-vita che si determina materialisticamente come comune. È l’uso solamente che permette di liberare in ogni oggetto e in ogni corpo, in ogni parola e in ogni immagine la forma-di-vita attraverso cui un comune si singolarizza e viceversa, cioè di lasciar essere la sua stessa libertà. La questione del comunismo consiste nell’elaborazione dell’uso tra quelli che abitano e condividono uno stesso mondo.
Infine, non si può possedere o volere il comunismo: esso avviene gratis. [...]
dalla postfazione all’edizione italiana