di Stati generali della precarietà
Chi ha la ventura di vivere quest’epoca non potrà certo dire di aver attraversato decenni noiosi e indifferenti. Dopo quasi due secoli di progressi politici sociali e economici improvvisamente, prima lentamente poi sempre con maggiore velocità, il corso della storia sembra invertire la propria direzione e un’ immensa opera di ristrutturazione politico-economica spazza via uno dietro l’altro i diritti fondamentali: le conquiste, i salari dignitosi, uguaglianze, solidarietà e sovranità.
Certo ci sarebbe da questionare sul significato della parola progresso: sulla sua disomogenea distribuzione sia sociale che geografica, su chi ha potuto fruirne i benefici; si potrebbe pure discutere sugli effetti collaterali di questo progresso: l’insostenibilità dell’impatto ambientale di una politica tutta rivolta al consumo sfrenato, l’insostenibilità e sulla fugacità culturale e neurale di un sistema comunicativo che agisce come bombardamento della corteccia celebrale; si potrebbe dibattere a lungo, ma vi è una questione che non può essere elusa.
Per quasi duecento anni si è combattuto, NEL BENE O NEL MALE, per il progresso dei diritti, nel nome dell’uguaglianza e della solidarietà. E poi è caduto il muro di Berlino (ma non faremo i nostalgici del terzo millennio). Negli ultimi trent’anni – tradendo le aspettative umaniste e ridicolizzando le tensioni ideali e filosofiche che ci avrebbero voluto parte del primo maxi “prepensionamento” della storia spinto dal saggio citatissimo di Fukuyama ”La fine della storia” (1992)- si è invece concretizzata di giorno in giorno la più grossa restaurazione che la storia conosca. Opera maiestatis di ingegneria economico politica (da far impallidire il congresso di Vienna, Yalta, Bretton Wood…), che ha travolto tutto e tutti ad una velocità impressionante, e che sta spazzando via quei pilastri (istruzione, diritti, solidarietà umana) che fino a qualche “istante” fa erano considerati le fondamenta acquisite e certificate alla base della civiltà occidentale.
I contabili economici “lavorando” con impareggiabile maestria sulla crisi dei debiti pubblici, gonfiati paurosamente da spese illegittime, stanno stritolando stati sovrani, demolendone le economie e affossandone i relativi sistemi di protezione, tutela, formazione sociale, e stroncando di fatto le tendenze alternative di governo della crisi. Mai le economie globale sono state così interconnesse e mai nella storia i poteri sono stati così sbilanciati verso una supremazia tecno-economica che ha già acquisito una fisionomia matura di un potentato burocratico. La finanza imperatrice di questa fase della globalizzazione economica domina e stravolge attuando una vera e propria rivoluzione reazionaria.
In Italia quest’onda d’urto è stata ottenuta tramite una politica rivolta alla precarizzazione delle vite e dei territori, colpendo interi strati generazionali che sono caduti , in sequenza, urtandosi l’un l’altro. La ricchezza nazionale appartiene sempre meno ai salari e sempre più ai profitti e alle rendite. Impressionanti al riguardo sono i dati dell’ Ires: in dieci anni, dal 2000 al 2010 i salari hanno perso circa 5.500 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%. La pensione è una chimera, le tipologie contrattuali censite sono 47 e le leggende che parlano di una loro riduzione nascondono l’amara verità: si stanno correggendo solo quelle incongruenze nella riforma complessiva del mercato che danneggiano più l’azienda che il lavoratore. E il tutto è condito con il tam tam ideologico che la capacità di crescita dell’Italia dipende dallo snaturamento dell’art. 18, ovvero da una maggiore libertà di licenziare individualmente. Niente di più falso.
Forse non tutti sanno (e i media italiani sono i primi a nasconderlo) che se consideriamo l’indicatore OCSE di protezione dei lavoratori (individuali), l’Italia si trova agli ultimi posti della classifica, contro una media dei paesi OCSE superiore di oltre il 40%. Al di sopra del valore italiano (quindi con più vincoli al licenziamento individuale) troviamo paesi come la Corea, la Polonia, la Svezia, il Giappone. Germania, Francia e Lussemburgo hanno livelli di protezione che non hanno pari in tutti gli altri paesi. Sostanzialmente il lavoro individuale dell’Italia ha livelli di tutela più bassi rispetto alla media dei paesi OCSE, mentre la protezione dai licenziamenti collettivi è perfettamente in linea con la media. Diversamente, non si spiegherebbero i licenziamenti collettivi intervenuti in Italia in questi ultimi 3 anni.
Si definisce così il quadro concettuale e ideologico che sta alla base del golpe finanziario che ha instaurato il nuovo governo Monti-Napolitano e che vede nel lavoro il cardine della riforma: il lavoro è il bene supremo e tramite il lavoro si esercita ricatto, si distribuisce povertà, si occupa la vita altrui (come nel reato di clandestinità). Il quadro sociale è tanto frammentato da non riuscire più a trovare un punto di lettura, i migranti sono contrapposti ai nativi, i garantiti ai precari, i tutelati ai meno tutelati. Un’unica certezza: le organizzazioni storiche portano sulle proprie spalle il peso enorme delle responsabilità politiche, obiettive, della sconfitta. La realtà è terrificante ed è il frutto genuino e velenoso del potere finanziario che si è fatto potere politico facendo saltare ogni mediazione. La realtà è diventata un incubo. Apparentemente è impossibile invertire la tendenza. Eppure non è così.
La forza terribile con cui il capitale ci schiaccia sta anch’essa mostrando i suoi limiti: con l’umiliazione e il disfacimento dei grandi centri di potere della sinistra si liberano quelle forze sociali che da sempre rappresentano l’esercito più temibile dei movimenti sociali. Le micro-resistenze sono marginali e residuali se isolate l’une dalle altre. Se invece questi margini crollano queste micro-resistenze possono assumere il loro carattere più nobile che non è quello di essere retroguardie di un mondo passato ma è quello di essere unità rigenerative di innovazione e incursione sociale. Bisogna indicare quindi con chiarezza chi e con quali mezzi e verso dove è necessario scatenare la controffensiva. Se prendere parola è difficile, se agire è pericoloso ciò non toglie che ci siano tante persone in ascolto e altrettante in attesa.
La manifestazione del 31 marzo a Milano deve essere una tappa di un percorso in cui molteplici realtà , grandi e piccole, devono aggregarsi intorno ad un’idea potente: abbattere la precarizzazione, che è vincolo, cappio, bavaglio, catena della società italiana. Per fare questo serve un’idea, un orizzonte più vasto su cui ripartire, un orizzonte credibile, capace di parlare alle differenti realtà sociali colpite dalla precarietà. Il sussidio di disoccupazione agisce per il 25% di chi rimane senza lavoro, l’articolo 18 tutela meno del 50% della forza lavorativa. Gli ammortizzatori sociali sono iniqui, riguardano solo alcuni lavori e sono fonte di sperequazione e scambismi politici. Non è questo il punto da cui partire, non è questo il panorama futuribile con cui irretire “la passione del popolo”.