sabato 29 dicembre 2012

Cambiare #sipuò. Intervista a Ugo Mattei

di Isabella Borghese

assieme a Luciano Gallino, Marco Revelli e Guido Viale è stato tra i fondatori di ALBA (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), formazione che ha avuto un ruolo non indifferente nella costituzione della formazione di “Cambiaresipuò”. Dopo l’assise nazionale al teatro Quirino, in questa intervista il giurista –tra i promotori anche della campagna referendaria contro la riforma-Fornero dell’art.18-  esprime non pochi dubbi sul quarto polo che si accinge a scendere in campo nella imminente tornata elettorale, ed in particolare manifesta le sue perplessità sulla candidatura a premier di Antonio Ingroia che proprio oggi ha sciolto la riserva accettando la candidatura di bandiera del rassemblement arancione

d. Ci siamo incontrati per la nascita di Cambiare si può. Da allora sono seguite diverse assemblee tutte verso la formazione di questo Quarto Polo. Un tuo bilancio sul percorso sino all'assemblea di ieri

r. L’ Assemblea al Quirino è stato un vero disastro. Uno scontro semi- militare fra canuti militanti di partito contro ex militanti. Si respirava l’ irrilevanza, la sconfitta, il cupio dissolvi della peggior sinistra. Ingroia è comparso ha parlato e non ha neppure ritenuto necessario far finta di ascoltare. Se ne è andato dopo mezz’ora! Altro che nuova politica … Il processo non è chiuso ma certo non è in buone mani.

d. Un'assemblea ricca di interventi e partecipata quella che ha visto il Teatro Quirino pieno di realtà diverse: politiche, di movimenti, associazioni e singoli individui. Nel teatro si è discusso a lungo, negli interventi che si sono successi, sulla possibile candidatura di Ingroia, su questo confronto con il Pd, mal visto da chi crede con fermezza nella costruzione del Quarto Polo. È  arrivata poi la notizia, da parte di Bersani, che non accetta il confronto con Ingroia. Il tuo punto di vista in merito

r. L’ho detto apertamente e lo ripeto. Per me Ingroia, per quel che rappresenta non certo come persona che non conosco, è il peggior candidato possibile. Non solo il metodo della sua scelta, informata alla logica puramente mediatica del suo lavoro, ma anche il merito: una tetra simbologia disciplinare e legalistica, un “uomo di Stato” che propone i metodi autoritari del ripristino della statualità come panacea di ogni male. “Riforme, meritocrazia, legalità e lotta alla corruzione” sono altrettanti capitoli dei Programmi di aggiustamento strutturale con cui il Fondo Monetario e la Banca Mondiale conducono la loro politica genocida. Io sono, e con me sono davvero tanti compagni, per l’ illegalità creativa e costituente, per una visione olistica della politica, per una vera rivoluzione del senso comune. In questi ultimo cinque anni, soprattutto con la Commissione Rodotà ed i referendum avevamo fatto passi da gigante nell’ elaborare e diffondere le nostre ragioni. Ci vogliono studio, riflessione ed impegno nelle lotte. Ingroia ha fatto un altro mestiere. Non ci si improvvisa attori del cambiamento sociale. Quanto a Bersani, credo che abbia tutto l’ interesse ad un polo guidato da Ingroia. Forse toglierà qualche voto a Grillo, dovrebbe consentire a De Magistris di sfilare l’IDV a Di Pietro, forse toglie qualche voto a Vendola e ricostruisce lo spauracchio ridicolo di Berlusconi che torna, portando il dibattito in dietro di vent’ anni. Ne guadagnerà il “voto utile”. Soprattutto, non emozionando alcuna delle giovani energie che ci sono nel paese, Ingroia non porterà a votare neppure uno di quelli che si astengono anche con Grillo in campo, che sono il vero spauracchio della partitocrazia. Quei voti si potrebbero conquistare con una simbologia e un’immagine nuova e credibile del tutto opposta a quella del giustizialismo antiberlusconiano.

Capitalismo e conoscenza – Intervista a Carlo Vercellone

di Pablo Miguez

Carlo Vercellone è uno dei principali riferimenti teorici del capitalismo cognitivo e svolge le sue attività come economista presso il laboratorio CNRS del Centro di Economia della Sorbona (CES), area Istituzioni. Il capitalismo cognitivo, oltre a riferirsi ad un programma di ricerca, è una categoria teorica e politica che cerca di rendere conto delle trasformazioni recenti del capitalismo alla luce dei cambi sociali e tecnologici che, a partire dagli anni settanta, hanno riconfigurato il funzionamento del capitalismo industriale e che si trovano alla base della presente crisi del capitalismo globale.
In questo intervento cerchiamo di affrontare in termini storici e teorici della tesi del capitalismo cognitivo, le quali hanno una genealogia che risale al marxismo autonomo italiano o operaismo degli anni settanta, in dialogo sia con la teoria francese della regolazione, a partire dagli anni ottanta, sia con il post-operaismo degli anni novanta. Questi autori lavorano attorno ad una nuova tappa del capitalismo che è stata teorizzata da numerose correnti ed approcci più o meno critici, dal marxismo fino all’economia della conoscenza, l’economia dell’innovazione, la teoria della crescita economica e le teorie della società post-industriale, ognuna delle quali è caratterizzata da una certa enfasi su temi diversi e con derive talvolta contraddittorie.
Nel caso del capitalismo cognitivo, i suoi temi centrali sono la natura e il ruolo attuale della conoscenza nella valorizzazione del capitale, gli effetti tecnologici e sociali della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le sue derivazioni nelle politiche sullo sviluppo in materia di educazione e proprietà intellettuale nella crisi del welfare state, approfonditamente teorizzate da economisti come Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré, Christian Marazzi, Antonella Corsani, Enzo Rullani e il proprio Vercellone.
Nel caso di Vercellone, i temi sui quali si concentra il suo lavoro si muovono attorno a tre assi di lavoro, vale a dire la cosiddetta “crisi della legge del valore”, l’importanza del general intellect e infine la questione del “divenire rendita del profitto”. In questo dialogo realizzato in occasione della sua prima visita in Argentina invitato dall’Universidad Nacional de General Sarmiento, affrontiamo alcune di queste tematiche ed altre su cui riflette nel suo primo libro in lingua spagnola: Capitalismo cognitivo. Renta, saber y valor en la época posfordista, di prossima pubblicazione in Argentina.

Pablo Miguez: Puoi spiegare perché il capitalismo cognitivo è uno sguardo critico e non celebrativo delle nuove tecnologie e della conoscenza come mezzi della valorizzazione del capitale?

Carlo Vercellone: Esattamente, perché la tesi del capitalismo cognitivo si sviluppa in un contesto in cui – in particolare nei paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ma anche in altri – con gli approcci della rivoluzione informazionale, si dispiega uno sguardo apologetico delle trasformazioni del capitalismo che facevano prevedere un’evoluzione dove le nuove tecnologie avrebbero liberato il lavoro dall’alienazione e dallo sfruttamento. A differenza di ciò, l’ipotesi del capitalismo cognitivo parte da un approccio critico e, in questo senso, opera un’inversione tanto delle tesi apologetiche dell’economia basata sulla conoscenza come delle tesi della rivoluzione informazionale. Possiamo vedere ognuno di questi aspetti.
In primo luogo, rispetto agli approcci dell’economia basata sulla conoscenza, l’ipotesi del capitalismo cognitivo ribadisce con forza la natura capitalistica dell’attuale processo di trasformazione, il quale significa opporre al concetto stesso di economia basata sulla conoscenza quello di capitalismo cognitivo, che lo sussume e lo inquadra in una serie di forme istituzionali. Possiamo vedere questo processo di sussunzione attraverso vari dispositivi come i diritti di proprietà intellettuale e i nuovi meccanismi di controllo del lavoro che, invece di favorire lo sviluppo di un’economia basata sulla conoscenza, la bloccano con l’obbiettivo di poterne catturare il valore e i sapere prodotti per la conoscenza per trasformarli in un capitale, in un una merce fittizia.

PM: Le nuove disuguaglianze generate dalla cattura di questa creatività sono il risultato di ciò che tu chiami “divisione cognitiva del lavoro”?

CV: La divisione cognitiva del lavoro non è necessariamente un processo di sfruttamento nel senso tradizionale del termine. Indica piuttosto come, davanti ad una cooperazione del lavoro sempre più autonoma, dove si tratta di agire sempre di più non sulla materia inanimata, ma sulla gestione dell’informazione e della conoscenza, sulle produzioni dell’uomo per l’uomo, il modo di organizzare il processo di produzione si trasforma radicalmente. Quindi, in un’organizzazione cognitiva del lavoro, non vi è alcuna prescrizione dei tempi e dei metodi come nel taylorismo, ma abbiamo la collaborazione di più soggetti dove ognuno porta con sé una parte della conoscenza per la realizzazione di un progetto, di una idea, di un intervento dell’uomo per l’uomo. Un esempio potrebbe essere quello della differenza tra la catena di montaggio e il lavoro in un ospedale dove, su una patologia, si combinano più conoscenze in forma complementare, come per esempio la conoscenza di un infermiere, del medico, dello psicologo. Ovvero: c’è un processo di complementarietà tra blocchi di sapere che si integrano per ottenere un risultato. Lo stesso vale quando l’oggetto non è l’uomo, ma la produzione di “beni invenzione”, vale a dire prototipi (come un software, una produzione culturale) dove differenti soggetti confluiscono in un’organizzazione a progetto unendo questi saperi per raggiungere un risultato.

PM: Uno sguardo rapido potrebbe far pensare che questo valga solo per la produzione della tecnologia avanzata, software, biotecnologia, eccetera, però la nozione di capitalismo cognitivo non si riferisce solo alla tecnologia avanzata…

CV: Effettivamente non si riferisce solo alla tecnologia avanzata né esclusivamente alle produzioni dell’uomo per l’uomo. Direi che, incluso nell’economia industriale più classica, assistiamo a un rafforzamento della dimensione cognitiva del lavoro che inverte l’organizzazione taylorista e ha determinato forme di organizzazione del lavoro dove la dimensione cognitiva si esprimeva nella stessa produzione materiale. Consideriamo, in particolare, il celebre esempio della fabbrica della Volvo dello stabilimento di Uddevalla, dove la catena di montaggio era stata abolita completamente, i lavoratori potevano organizzare i propri tempi di produzione ed erano a conoscenza dell’intero ciclo di produzione. Lì, fu abolita qualsiasi forma di gerarchia tradizionale, in quanto già c’era un’autogestione dell’organizzazione della produzione. Mentre la concezione del prodotto era eterodeterminata, nonostante ciò abbiamo potuto assistere alla contraddizione tra la logica del capitalismo cognitivo e quella di un’economia fondata sulla conoscenza, visto che la fabbrica –nonostante fosse la più efficace di tutte le fabbriche Volvo – fu chiusa perché queste forme di organizzazione cognitiva del lavoro pongono un problema maggiore per il capitale: nella misura in cui ci fosse un riconoscimento di questa autonomia del lavoro, questo potrebbe arrivare fino a rivendicare il controllo stesso della produzione e le sue finalità sociali. In una certa misura, si osserva un elemento chiave della storia del capitalismo dove la logica dell’efficacia economica differisce dalla logica della redditività economica posto che quest’ultima, che spesso implica la logica del controllo del lavoro, può arrivare al punto di sostituire le opzioni più efficienti. Per utilizzare una metafora che piace agli economisti, così come la moneta cattiva sostituisce la moneta buona, nello stesso modo il modello produttivo meno efficace dal punto di vista dell’organizzazione della produzione però più efficace per il controllo del lavoro, può sgomberare il modello produttivo buono.

PM: Vorresti dire che non staremo quindi di fronte ad una superazione del sistema industriale, perché quest’ultima segue vigente con tutte le sue contraddizioni, piuttosto di fronte ad una nuova logica che si sovrappone a quella propria dello sviluppo industriale?

CV: La storia procede sempre in forma non lineare, con salti e rotture radicali, tuttavia attraverso un processo di ibridazione, di combinazione. Così come il capitalismo industriale non eliminò le antiche forme dell’organizzazione del lavoro tipiche del capitalismo mercantile – basti pensare che il putting out system, il lavoro a domicilio decentralizzato tra artigiani, rappresentava in Inghilterra, nel 1580, la stessa percentuale di lavoratori che quella degli operai della fabbrica –, nella stessa maniera, nel capitalismo cognitivo, la logica sempre più importante della produzione di conoscenza, questa logica che da’ alla prima unità un ruolo centrale nella creazione del valore, non elimina la logica del capitalismo industriale, ma che la sottomette e la integra dentro una nuova logica di valorizzazione del capitale.

Dopo la fine della rappresentanza. Disobbedienza e processi di soggettivazione

di Maurizio Lazzarato

Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68
 
Le mobilitazioni che sorgono un pò ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.
Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?
In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?
Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva». Questa ipotesi di lavoro merita di essere ripresa e prolungata nella situazione contemporanea a partire da una constatazione: il neoliberalismo ha fallito nell’articolare questo rapporto.
La generalizzazione della soggettivazione imprenditoriale, che si esprime nella volontà di trasformare ogni individuo in impresa, rivela alcuni paradossi. L’autonomia soggettiva, l’attivazione, l’impegno soggettivi, costituiscono nuove forme di impiego e quindi, propriamente parlando, una eteronomia.
D’altra parte, l’ingiunzione all’azione, alla presa d’iniziativa e al rischio individuale, sfociano nella depressione, malattia del secolo, espressione del rifiuto di assumere un’omologazione e un impoverimento dell’esistenza portato dalla «riuscita» individuale del modello imprenditoriale.
Come ci addentriamo nella crisi, aperta dai tracolli «finanziari» a ripetizione, il capitalismo abbandona la sua retorica della società della conoscenza o dell’informazione, e le sue mirabolanti soggettivazioni (i lavoratori cognitivi, i manipolatori di simboli, i creativi sconfitti e i vincenti). Una volta che le promesse di arricchimento di tutti, attraverso il credito e la finanza, sono crollate, non rimane che una politica di salvaguardia dei creditori, proprietari dei titoli del «capitale».
Per affermare la centralità della proprietà privata, l’articolazione tra «produzione» e «produzione di soggettività» si crea a partire dal debito e dall’uomo indebitato. Nell’economia del debito, il capitale agisce sempre come punto di soggettivazione, ma non solamente per costituire gli uni come capitalisti e gli altri come lavoratori, ma anche e soprattutto per identificarli in «creditori» e in «debitori». Fallimento economico e fallimento nella produzione delle figure soggettive del proprietario, dell’azionista, dell’imprenditore, vanno di pari passo. Questi fallimenti trovano la loro origine nel doppio rifiuto delle figure soggettive neoliberali: rifiuto di divenire «capitale umano», e nella crisi, rifiuto di divenire «uomo indebitato».
A questi rifiuti proletari e a questa impasse capitalista, i partiti e i sindacati di «sinistra» non forniscono alcuna risposta, poiché non dispongono più di soggettività di ricambio da proporre. Le stesse teorie critiche contemporanee falliscono pensando al rapporto tra capitalismo e processo di soggettivazione. Il capitalismo cognitivo, la società dell’informazione, il capitalismo culturale (Rifkin) rappresentano l’articolazione tra produzione e soggettività in maniera molto riduttiva. La loro pretesa di costituire un paradigma egemonico per la produzione e la produzione di soggettività è sconfessata dal fatto che, il destino della lotta di classe, per come si mostra con la crisi, non sembra giocarsi intorno alla conoscenza, all’informazione e alla cultura.
Quali sono, quindi, le condizioni per una rottura politica ed esistenziale nell’epoca la produzione di soggettività costituisce la prima, e la più importante, delle produzioni capitaliste? Quali sono gli strumenti specifici della produzione di soggettività per eludere la sua fabbricazione, industriale e seriale, organizzata dalle imprese e dallo Stato? Quali modalità di organizzazione costruire per un processo di soggettivazione che sfugga sia all’assoggettamento, sia all’asservimento?
Negli anni Ottanta Foucault e Guattari, attraverso percorsi differenti, designano la produzione di soggettività e la costituzione del «rapporto con il sé» come i problemi politici contemporanei che da soli, forse, possono indicare delle vie d’uscita dall’impasse in cui siamo impigliati.
Per Foucault partire dalla «cura di sé» non significa inseguire l’ideale «dandy» di una «vita bella», ma porre la questione di un intreccio tra «estetica dell’esistenza» e una politica che le corrisponda. I problemi di «una vita altra e un mondo altro» si pongono insieme, a partire da una vita militante, la cui premessa è costituita dalla rottura delle convenzioni, delle abitudini, dei valori stabiliti. Il paradigma estetico di Guattari non incita nemmeno a un’estetizzazione del sociale e del politico, ma a fare della produzione di soggettività la pratica e la preoccupazione principale di una nuova modalità di militanza e di un nuovo modo di organizzarsi politicamente.
I processi di soggettivazione e le loro modalità di organizzazione hanno sempre dato luogo a dibattiti cruciali all’interno del movimento operaio che sono stati occasione di rottura e di divisioni politiche tra «riformisti» e «rivoluzionari».
Non possiamo comprendere la storia del movimento operaio se ci rifiutiamo di vedere le «guerre di soggettività» (Guattari) a cui ha portato. «Il tipo di operaio della Comune di Parigi è diventato talmente “mutante” che non c’è altra soluzione per la borghesia che sterminarlo. Abbiamo liquidato la Comune di Parigi, come in altre epoche le riforme di Saint Barthélémy». I bolscevichi si sono posti esplicitamente la questione dell’invenzione di un nuovo tipo di soggettività militante, che, tra l’altro, doveva rispondere al fallimento della Comune.

Il sindacato che non c’è (più)

di Lelio Demichelis

Cgil da un lato, Cisl e Uil dall’altro. Dietro le divisioni tra i sindacati c’è un cambiamento profondo, nel modo di intendere i rapporti tra lavoro e impresa e nelle forme di controllo sul lavoro

Critiche alla Cgil, ovviamente, avendo osato sfidare e contestare le sue politiche recessive in termini economici e illiberali in termini di diritti sociali e politici; nessuna critica invece, altrettanto ovviamente, a Cisl e Uil, sostenitrici di fatto di queste stesse politiche recessive e illiberali. Nella conferenza stampa pre-natalizia, Mario Monti – il narciso Mario Monti, anche in questo nel solco della continuità con il berlusconismo, con le dovute differenze di forma ma non di sostanza – si è chiuso nella proprio solipsismo e nella propria surrealtà neoliberista.
Tra i molti spunti che la conferenza stampa ha offerto al commento, questo del sindacato merita però un approfondimento. Perché nel momento in cui la crisi economica diventa sociale ed esistenziale, una parte del sindacato continua a chiamarsi fuori dalla discussione e dalla difesa degli interessi che dovrebbe difendere (semmai con forza accresciuta e non con silenzi complici), riproponendo una drammatica differenziazione di modelli sindacali (semplificando: chi difende davvero i lavoratori e i cittadini, la Fiom o la Cisl, Landini o Bonanni? – e dopo un anno di governo Monti la risposta dovrebbe essere scontata e invece non lo è).
E dunque: conflitto sindacale e sociale, in nome degli interessi dei lavoratori e dei cittadini da tutelare rispetto alla controparte imprenditoriale e di governo, in nome di interessi generali, pubblici e collettivi, nonché di democrazia da rafforzare ed estendere e di diritti da ampliare, interessi necessariamente diversi da quelli del profitto, dell’impresa e della paranoia del pareggio di bilancio; oppure complicità (termine che l’ex ministro Sacconi amava molto) tra sindacato e impresa e del sindacato con l’impresa, in nome dei supremi interessi dell’economia nazionale, della globalizzazione, della rete e della competitività? Vedere il segretario della Cisl Bonanni nella seconda fila nella sala dell’evento Fiat di Melfi dello scorso 20 dicembre (Marchionne&Monti insieme per rifare l’Italia e per cambiare, come era stato detto, il modo di vivere degli italiani) era piuttosto imbarazzante.

Il conflitto di interessi tra Bonanni e il lavoro

Imbarazzante ovviamente per chi critica le anti-politiche economiche e sociali del governo Monti, della Bce e dell’Unione Europea (e vorrebbe un’Europa meno stupida, più autentica, meno ideologizzata); per chi è convinto che le soluzioni adottate per uscire da questa crisi siano state non solo sbagliate in termini di teoria economica ma soprattutto irrazionali (non si crea ripresa producendo deliberatamente recessione, se si crea recessione e impoverimento di massa è per altre ragioni e per altri scopi).
Ma imbarazzante evidentemente non è per chi, come appunto Bonanni, esplicitamente ha sostenuto il governo Monti (& Marchionne) e le sue politiche senza per questo provare alcun conflitto di interessi in se stesso e tra i propri ruoli pubblici. Sì, conflitto di interessi: tra l’essere soggetto di rappresentanza e di tutela degli interessi del lavoro e dei lavoratori e il voler essere insieme fautore e sostenitore di politiche (e di interessi altri e diversi: finanza, banche, speculazione, ideologia neoliberista) che quegli interessi dei lavoratori e dei cittadini hanno invece scientemente distrutto, sia in termini di reddito che in termini di diritti sociali e quindi politici e civili. Conflitto di interessi tra l’essere sindacato che lotta per i diritti di tutti e il barattare i diritti sociali, di rappresentanza, di democrazia all’interno delle fabbriche in cambio di un po’ di potere, cedendo di fatto ad un ricatto. Un conflitto di interessi che dovrebbe essere evidente e appunto imbarazzante (ma non lo è) per chi – sempre Bonanni – confonde la volontà e il desiderio di realizzare, dove possibile, “la democrazia economica con l’azionariato collettivo e la possibilità di esprimere rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza” – e questo perché “i lavoratori sono responsabili, ma chiedono di contare di più” (intervista a Il Sole 24 Ore del 2 luglio 2009) – con la complicità con l’impresa che la Cisl sta attuando con il governo e con la Fiat.
Complicità che poi significa subire/accettare ciò che l’impresa decide in quanto soggetto ormai unico e quasi-assoluto di sovranità nel luogo di lavoro (cancellando cento anni di lotte sindacali, anche della stessa Cisl per la democrazia nei luoghi di lavoro), l’impresa come sovrano quasi-assoluto che disconosce, misconosce, nega a suo piacere ogni logica di democrazia, di dialogo, di cittadinanza attiva nei luoghi di lavoro, come appunto è accaduto nel Gruppo Fiat contro la Fiom. Complici Cisl e Uil che hanno giocato la carta della complicità e non quella del conflitto, ponendo i lavoratori nelle condizioni di contare di meno rispetto al passato, lasciandosi irretire dalla favola di un posto di lavoro e di 20 miliardi di euro di investimenti, senza la minima capacità ma soprattutto senza la minima volontà di esercitare quello che un tempo si chiamava spirito critico. E insieme dimenticando quello che diceva (nel 1942!) non un pericoloso sovversivo, ma un liberale come William Beveridge, uno dei padri dello stato sociale europeo: ovvero che il mercato del lavoro dovrebbe essere sempre favorevole al venditore, cioè al lavoratore, anziché al compratore (l’impresa). Beveridge poi aggiungendo che se “l’esperienza o la logica dimostrassero che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per assicurare la piena occupazione, questa abolizione dovrebbe essere intrapresa”. Appunto: la piena occupazione come obiettivo politico ed economico, ma soprattutto – questo sì – di coesione sociale. Obiettivo del liberale Beveridge.

sabato 22 dicembre 2012

Uscire dall’economia. Intervista a Serge Latouche

di R.Troisi/A. Castagnola/A. Goni Mazzitelli/Budoni

L’affermazione della decrescita non serve e non si propone di acquisire un potere, un pò come l’esperienza zapatista. Anzi, costituisce un contropotere sociale. Prima di ogni altra cosa, la decrescita è una provocazione, un grido che contesta l’invenzione stessa dell’economia. L’economia, infatti, come la sua controfigura «green» o il lavoro salariato, esiste solo in un orizzonte di senso, quello del capitalismo. È una ragione di speranza in questi tempi? Sì, in alcune città della Grecia e della Spagna, a differenza di quanto accaduto in Argentina dieci anni fa, pezzi di società che subiscono l’austerità hanno cominciato a incontrare gruppi che sperimentano forme di decrescita. Per questo il potere, che teme il cambiamento profondo dice: «Siate seri, non è il momento di parlare di queste cose».
Cita il suo amico Cornelius Castoriadis e poi il subcomandante Marcos. Parla di fotocopiatrici, di Gruppi di acquisto solidale giapponesi e di un interessante documentario di Coline Serreau. Intervistare Serge Latouche è sempre un viaggio piacevole che percorre molti temi, con le sue risposte a volte in francese a volte in italiano. E se gli chiedi di ragionare di lavoro e di lavoratori, come abbiamo fatto noi, è piuttosto probabile che non userà francesismi: «Fare la cassiera in un supermercato è un lavoro di merda»

D. Considerando quanto sta avvenendo negli ultimi anni, quale rapporto esiste tra l’attuale struttura del potere e i processi della decrescita?

R. Su questi temi, cioè sulla relazione tra decrescita e Stato, e più in generale tra decrescita e politica, sono stati scritti molti articoli negli ultimi mesi, perché dentro il movimento della decrescita in Francia da tempo ci sono dibattiti su questi argomenti. Anch’io ho scritto un saggio che mi ha richiesto molto lavoro, perché confesso che su questo problema le mie idee non erano chiare. Certo ho scritto spesso sul ruolo dello Stato e sulla politica. Ma alcuni mi hanno accusato, soprattutto persone vicine alle culture e ai movimenti anarchici, di aspettare dallo Stato la realizzazione della decrescita. Allora ho capito che la cosa sbagliata che scrivevo era «la decrescita è un progetto politico». Penso che la formula non sia felice. La decrescita è un progetto sociale, non un progetto politico, Lenin aveva un progetto politico. Tutti quelli che hanno un progetto politico vogliono realizzarlo, per questo la tradizione rivoluzionaria, soprattutto in America latina, resta legata alla presa del potere.
Pensiamo a quando il subcomandante Marcos e le comunità zapastiste hanno preso San Cristóbal de las Casas, in Chapas, il 1° gennaio 1994: la prima cosa che hanno detto è stato: «Non vogliamo prendere il potere perché sappiamo che se prendiamo il potere saremo presi dal potere». Per questo penso che avere un progetto politico sia diverso dall’avere un progetto sociale. Un progetto di una società alternativa deve essere pensato concretamente in funzione del luogo, della cultura dove il movimento agisce, ma il problema è che ha a che fare anche con il potere. Naturalmente è una buona cosa, se alcuni nostri amici diventano deputati, ministri, consiglieri ma sappiamo bene che qualsiasi politico è sempre sottomesso alla pressione dei grandi poteri, non esiste un governo buono…
Per queste ragioni penso che non dobbiamo fare un partito politico per la decrescita e partecipare alle elezioni. In alcuni casi possiamo sostenere dall’esterno un certo programma, oppure un partito, ma il movimento deve essere sempre un contropotere, un gruppo di pressione anche con il più cattivo dei poteri. Perfino quando la pressione è forte possiamo ottenere qualcosa, come dimostra la vicenda dgli accordi di Cochabamba sull’acqua, ottenuti nonostante in Bolivia allora, nel 2000, ci fosse un potere quasi fascista. Quel potere fu costretto ad ascoltare la protesta che chiedeva la cancellazione del contratto con la multinazionale Bechtel. Una grande vittoria. Perciò la strategia deve essere quella dei piccoli passi avanti, anche quando il potere cambia, come nella stessa Bolivia in cui oggi è presidente Evo Morales: la pressione deve essere mantenuta anche contro Morales. Insomma, credo che i movimenti della decrescita oggi debbano mantenere questo spirito di contropotere di ispirazione gandhiana.
Non dico che tutti i partigiani della decrescita condividono questa visione, per esempio alcuni miei amici propongono di non votare più alle elezioni, io invece sono favorevole. Naturalmente sappiamo bene che dalle elezioni non uscirà mai un governo buono; se per caso ci fosse un governo di nostalgici diventerebbe subito un cattivo governo. Su questo punto ho cambiato idea nel tempo: prima condividevo l’idea del mio amico Cornelius Castoriadis, che aveva un progetto politico, la democrazia radicale, che lui credeva possibile costruire … Oggi, invece, credo che quello possa essere soltanto un orizzonte di senso, che non si realizzerà mai. Tuttavia, dobbiamo cercare di realizzarlo ogni giorno. Non possiamo aspettare il cambiamento o la democrazia radicale per agire: dobbiamo utilizzare tutti i mezzi e agire al livello più basso, più concreto, dove si possono fare le cose.

D. Hai conosciuto esperienze in giro per il mondo che consideri particolarmente valide come strategie per la decrescita?

R. Non esiste un’esperienza che si può etichettare come la vera esperienza della decrescita, della società frugale o della prosperità senza crescita. Quando ad esempio tre anni fa abbiamo incontrato quelli della Conai, la Confederazione delle comunità indigene dell’Ecuador, a Bilbao, abbiamo capito come la loro concezione del buen vivir è esattamente il progetto della decrescita, se pur in un contesto diverso e nonostante il coinvolgimento dei governi locali. In ogni caso penso che il progetto delle Transition town dell’amico Robert Hopkins, che ha partecipato con me alla Conferenza interazionale sulla decrescita di Venezia, sia l’esperienza che a livello locale realizza meglio ciò che per me corrisponde al progetto della decrescita: sviluppare la resilienza, ridurre l’impronta ecologica, ritrovare l’autonomia alimentare ed energetica. A un livello più limitato credo che il movimento dei Gruppi di acquisto solidale e il loro corrispondente giapponese, quello dei Teikei, che letteralmente significa «il cibo che ha la faccia del contadino», piuttosto che alcune esperienze della Rete francese delle imprese alternative e solidali, siano esperienze che vanno nella direzione del progetto della decrescita.

D. Se avessimo il potere e la capacità di suggerire delle strategie per la decrescita, cosa bisognerebbe fare tra le cose più urgenti?

R. Questo è un esercizio di politica virtuale, me lo hanno chiesto anche i verdi greci cosa fare adesso … Credo che la cosa più importante oggi sia cercare di realizzare il programma concettuale delle otto «R», rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare, la cui priorità è sintetizzabile con la riduzione dell’impronta ecologica. Ma tra le prime cose da fare c’è la necessità di dare lavoro: per questo ho proposto un programma che poggia su tre piedi rilocalizzare, riconvertire e ridurre. Rilocalizzare l’attività produttiva significa demondializzare e questo implica avere i mezzi per farlo, tra cui l’autonomia finanziaria monetaria. Occorre pensare anche a una politica protezionista: il libero scambio è il protezionismo più forte dei predatori e allora dobbiamo fare un protezionismo dei deboli e progetti di conversione ecologica. La riconversione più importante è quella dell’agricoltura: dobbiamo uscire dall’agricoltura produttivista e sostenere un’agricoltura senza pesticidi e concimi chimici. Su questi temi vengono pubblicati sempre più libri e documentari interessanti.
Il film-documentario Maison du future, ad esempio, è stato pensato in Francia dopo un dibattito alla televisione, nel quale Josè Bovè contestava due esperti di agricoltura secondo i quali è impossibile nutrire il mondo senza Ogm, pesticidi e concimi chimici: gli autori hanno girato il mondo per raccontare esperienze alternative che dimostrano come l’agricoltura più produttiva, e non più produttivista, è quella contadina. Quel film sarà presentato in diversi paesi nei prossimi mesi, dall’India ai paesi latinoamericani. Un altro documentario molto interessante è Solutions locales pour un désordre global, di Coline Serreau, una regista francese molto brava, che ha messo insieme esempi di coltivazioni alternative dal Brasile all’India, dalla Francia all’Ucraina.

Lo stato d’eccezione proclamato dal basso. Intervista a Paolo Virno

di Marco Scotini

«La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola». Ci piace mettere sullo sfondo dell’intervista, pubblicata su l’ultimo numero «alfabeta2» n. 25 – dicembre 2012, questa citazione di Walter Benjamin che Virno fa propria per descrivere i processi costituenti delle soggettività disobbedienti del nostro tempo, prefigurando però la possibilità di rovesciamento del paradigma politico secondo cui lo «stato d’eccezione», così come sostenuto dalla dottrina postdivinistica (da Hobbes allo Stato-moderno), è esclusiva prerogativa giuridica della sovranità statuale

D. Vorrei ripartire dal tuo testo Virtuosismo e Rivoluzione apparso nel lontano ‘93 sulla rivista «Luogo Comune» per affrontare quello strano soggetto politico che definiamo disobbedienza. Facendo seguito alla riflessione sulla «disobbedienza civile» di stampo liberale, e molto lontano da questa, proponevi allora un’idea di disobbedienza sociale (o di disobbedienza radicale) che sarebbe diventata una delle parole-chiave per identificare l’azione del movimento globale. Dopo quel tuo intervento (confluito poi nella Grammatica della moltitudine) altri contributi teorici rilevanti non mi sembra ci siano stati

R. Per me il problema era quello di pensare a una forma di disobbedienza radicale, tale cioè da andare al nocciolo stesso della forma moderna di Stato. Non si trattava e non si tratta di disobbedire a una legge reputata ingiusta in nome di un’altra legge, di una legge più basilare o di una legge anteriore e più autorevole, come per esempio il dettato costituzionale. Questo naturalmente è possibile ma non è il nostro problema. Il nostro problema è corrodere quello stesso obbligo di obbedienza, ancora vuoto di contenuti, che precede le singole leggi e che sta alla base dell’istituzione dello Stato moderno. Come a dire: lo Stato si forma su un obbligo preventivo a obbedire alle leggi che verranno, quali che esse siano. È una sorta di obbligo preliminare che si tratta di mettere in questione. In sostanza la domanda fondamentale per ogni riflessione sulle istituzioni politiche è: perché bisogna obbedire? Se si risponde a questa domanda dicendo «perché lo impone la legge» ci si condanna a un regresso all’infinito, nel senso che è fin troppo facile – a quel punto – chiederci: «Perché bisogna obbedire alla legge? alla legge che impone l’obbedienza?» e così via, naturalmente… Su che cosa si può fondare l’obbedienza? Su un’altra legge ancora? Ma non c’è termine a questo pensiero, non c’è un punto d’arrivo.
A suo modo questo è il problema di Hobbes (ma al posto di Hobbes non c’è nessuna difficoltà a leggervi Sarkozy, Blair, Monti), di un Hobbes tra virgolette, un Hobbes che indica in maniera approssimativa la statualità moderna e contemporanea. Egli scioglie questo problema dicendo «bisogna obbedire perché si esce dallo stato di natura». Nel momento in cui si esce dallo stato di natura e si forma una società politica lì occorre giuridicizzare la vita. Cioè giuridicizzare quella vita fatta di desideri, di abitudini, ecc. che esisteva prima e indipendentemente dallo Stato. Stato di natura questo vuol dire: una vita pregiuridica, non una vita animale. Quando la vita prende una forma giuridica, reinterviene quest’obbligo di obbedire che è preliminare alle leggi. Su questo Hobbes è molto chiaro, ci sono delle sue frasi nel De Cive e in altre opere in cui dice che l’obbligo di obbedienza in forza del quale le leggi sono valide precede ogni legge. Più chiaramente di così non si potrebbe dirlo. Allora il problema della disobbedienza da parte dei movimenti è quello di mettere in questione esattamente quest’obbligo preliminare e far riemergere quella vita pregiuridica che, a torto, si chiama stato di natura. «A torto» perché quando si dice stato di natura sembra di opporre la natura alla storia, l’istinto alla cultura in modo fuorviante e sbagliato. Dovremo pensare invece questa vita pregiuridica fatta di abitudini, linguaggio, opere, amicizia, conflitti, che non ha ancora una veste giuridica e alla quale si sottrae quell’obbligo preliminare che è vuoto di contenuto e obbedienza. Questo mi pareva che fosse (in termini ovviamente molto generali, schematici) la questione di allora. Ritengo che la disobbedienza (la disobbedienza dei movimenti, quella radicale) abbia qualcosa a che fare con lo stato d’eccezione. Cioè come se i movimenti, i poveri, gli sfruttati, coloro che non ci stanno, proclamassero una sorta di stato d’eccezione nel momento in cui disobbediscono. È interessante pensare a uno stato d’eccezione proclamato dal basso, anziché nel senso della dottrina politica per cui esso sarebbe una prerogativa del sovrano e dello Stato. Questo stato d’eccezione proclamato dagli oppressi attraverso la disobbedienza in fondo ricorda una pagina di Walter Benjamin che diceva «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola».

D. Hai sempre definito la disobbedienza come conditio sine qua non dell’agire politico della moltitudine. Oggi dopo il movimento Occupy e le insurrezioni Nordafricane e del MedioOriente, ti sentiresti ancora di affermare la stessa cosa?

R. Naturalmente penso di sì. È ben possibile che il termine disobbedienza non sia oggi il termine più adatto, quello più chiaro, perché anche le parole hanno una storia ed è probabile che su questa parola si siano depositati equivoci e incomprensioni. Ma ritengo che alla base di ogni esodo o intrapresa costruttiva della moltitudine ci sia questo momento di distacco dall’obbligo di obbedienza, ci sia questa disobbedienza fondamentale. Si può disobbedire su un punto (ad esempio a proposito dello smantellamento dell’assistenza sanitaria o su qualsiasi altra questione dei nostri giorni) però su quel punto far valere questa sorta di indipendenza dal patto preliminare di obbedienza. Come posso dire? Si può essere radicali proprio perché ci si sente autonomi da un impegno a obbedire alle leggi quali che siano, anche se questa disobbedienza si applica necessariamente all’uno o all’altro obiettivo, sull’uno o sull’altro terreno.

La crisi si supera salvando il Pianeta

di Elvio Dal Bosco

“La crisi economica è drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il futuro di intere generazioni” (J. Schellnhuber). Questa dichiarazione, ripresa anche da Dal Bosco nel suo saggio (del quale proponiamo la lettura della parte conclusiva, segnalando a piè di pagina il link di rinvio alla versione integrale), lancia un grido di allarme sulla totale indifferenza per la “questione climatica” assunta dalle forze dominanti la globalizzazione, nel loro tentativo di porre in essere efficaci misure anticrisi e d’inscenare nuove dinamiche accumulative di capitale. All’interno di questo quadro critico Dal Bosco -partendo dalle dimensioni della crisi finanziaria e dalla divaricazione della forbice distributiva di ricchezza in costante aumento, in favore di una ristretta elite a danno della popolazione mondiale- giunge ad alcune considerazioni politiche ritenute essenziali per una prospettiva anticapitalistica, non solo per rimuovere le cause delle disuguaglianze attuali ma guardando anche alla prospettiva delle generazioni future, mettendo in stretta correlazione la questione ambientale, e in primo luogo quella climatica, con la critica del sistema dominante

(…) Invece di perderci in battaglie ideologiche di retroguardia sulla purezza anticapitalistica, dovremmo cercare di mettere in cantiere politiche di superamento del neoliberismo concreto che ci ha portato alla drammatica situazione del presente e del futuro prossimo, anche sul piano della battaglia ambientale, come afferma uno dei massimi studiosi della crisi climatica. In un’intervista su “Die Zeit” del 26 marzo del 2009 J. Schellnhuber, direttore del Postdamer Institut fuer Klimafolgenforschung e membro del Consiglio mondiale del clima, dal titolo Talvolta potrei urlare! sostiene: “La crisi economica è drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il futuro di intere generazioni.” Avrei qualche difficoltà ad accettare il termine “elite” per banditi che per conservare alte rendite stanno tranquillamente distruggendo il futuro perfino per i loro figli e nipoti...
Sul ruolo dello Stato è molto interessante il dibattito ospitato da Die Zeit . Nel dicembre del 2009 lo scienziato tedesco Ernst Ulrich von Weizsaecker è molto chiaro nel descrivere il rapporto fra Stato e imprese. Egli registra infatti: “Nel cosiddetto triangolo della sostenibilità ci sono un fattore forte e due deboli: quello forte è l’influenza economica, i deboli sono l’influenza sociale e quella ecologica. Credere che si possa avere la sostenibilità senza uno stato forte è pura illusione… La politica è diventata inefficace, perché il mercato attraverso il diktat del massimo profitto impedisce allo Stato di porre delle regole. Se un governo si immischia, il capitale farà di sicuro in modo che si fugga da tale paese. Il coordinamento internazionale sarebbe l’unica soluzione.”
Sullo stesso settimanale in data 7 gennaio 2010 interviene lo storico USA, Tony Judt, che incalza la Sinistra: “ La sinistra politica ha qualcosa da conservare: i diritti politici; essa ha ereditato la moderna spinta ambiziosa da esercitare in nome di un progetto universale di istruzione e innovazione. La socialdemocrazia deve sostenere le conquiste del passato con decisione. Lo sviluppo di uno stato delle prestazioni 21 sociali che nell’ edificazione lunga un secolo del settore pubblico ha impregnato la nostra identità collettiva e i nostri comuni obiettivi con la conquista dello stato sociale come un diritto e la sua garanzia un dovere sociale… Altri hanno utilizzato gli ultimi tre decenni per destabilizzare e respingere indietro sistematicamente questi miglioramenti: dovremmo essere molto più arrabbiati di quanto non lo siamo. Ci dovrebbe anche preoccupare : perché siamo stati tanto rapidi nel distruggere la diga che i nostri predecessori avevano costruito con tanta fatica? Siamo tanto sicuri che non arriveranno nuove ondate? “
Per la serie Lotta di classe dall’alto (titolo significativo usato da un settimanale liberale!) un altro autore, Boris Groys, filosofo e matematico dell’Università di New York, ricorda al cosiddetto ceto medio quale dovrebbe essere la sua funzione: “. È il ceto medio che supporta e cura lo stato sociale e occupa i suoi gradini gerarchici. Il ceto medio amministrativo addirittura lo rappresenta, pur essendo quello che ne approfitta di meno. Per cui c’è da attendersi che prima o poi questo ceto medio se ne accorgerà che è insensato reggere una struttura sociale di cui ne approfittano solo altri...Solo quando il ceto medio prenderà coscienza di questo fatto, potrà emergere una nuova battaglia politica, una nuova rivoluzione delle virtù, che sarà nel solco della tradizione della Rivoluzione francese e della Rivoluzione d’ottobre russa..” ( Die Zeit del 17 dicembre 2009)
Lo scontro non è più fra le classi secondo gli apologeti neoliberisti, ma fra le generazioni: in base alla ricchezza per classi di età, in Gran Bretagna la popolazione inferiore ai 40 anni costituisce la metà del totale ma possiede solo il 15 per cento delle attività finanziarie; fra il 1995 e il 2005 la quota di ricchezza detenuta dalle persone comprese fra 25 e 34 anni è calata, mentre sarebbe triplicata secondo la Banca d’Inghilterra quella della classe fra 55 e 64 anni (The Economist del 13 febbraio 2010). Questa è una conseguenza della precarizzazione del lavoro voluta dalle politiche neoliberiste; altro che attaccare i pensionati perché troppo ricchi e vedere come una iattura l’aumento della speranza di vita! Ben altri giudizi arrivano dal filosofo francese, Lucien Séve in Le Monde diplomatique del gennaio 2010 che rivendica l’effettiva emancipazione delle età sociali. “Si tratta di offrire a ognuno una formazione iniziale di alto livello, eliminare la disoccupazione giovanile, sradicare in profondità l’alienazione del lavoro, garantire una sicurezza continua del lavoro e/o della formazione, passare da un tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori del lavoro riccamente formativa, favorire al massimo la formazione dei cinquantenni alla vita post-professionale – offrendo così la prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione, rivalorizzate sulla base di una più equa distribuzione delle ricchezze e indicizzate sui salari. Ecco ciò che farebbe della Francia del 2040 il contrario di un paese invecchiato.”
Del resto, Fred Pearce, studioso di questioni ambientali di fama mondiale, ha relativizzato il problema demografico in Tutto scienze, supplemento settimanale de La Stampa ( 12 maggio 2010 ), scrivendo: “ Non possiamo risolvere il problema del cibo o dell’energia o dei cambiamenti climatici e tutto a causa della sovrappopolazione – dicono gli ambientalisti. È sbagliato: l’impatto decisivo sulla Terra non è quello dei popoli poveri, ma delle nazioni ricche. E infatti, anche se oggi l’umanità si bloccasse a 7 miliardi, l’ambiente continuerebbe a deteriorarsi a causa delle nostre cattive abitudini, come quella di bruciare combustibili fossili. Ecco perché, invece della Bomba della Popolazione, ci si deve preoccupare della Bomba dei Consumi: è questa, mentre si diffonde in Paesi un tempo sottosviluppati, che rischia di distruggerci.”

Ricordare/Trasformare/Uscire da qui

di Elisabetta Teghil

L’esperienza passata condiziona quella futura, per questo è necessario conquistare una memoria autonoma e collettiva del movimento femminista. La memoria è l’occasione per produrre nuove possibilità e dare un senso agli eventi presenti e futuri
 
Il femminismo è nato dalla prassi consapevole di soggetti che intendevano liberarsi e la liberazione di noi tutte è il programma del passato, del presente e del futuro.
C’è stato un momento magico in cui le donne hanno pensato di potersi riappropriare del proprio corpo, della propria sessualità, della propria vita.
È durato un anno? qualche anno? un mese? qualche mese? per ognuna è stato un tempo diverso, ma è bastato per prendere su di sé una consapevolezza che è potenza, che è l’aver assunto la certezza che la liberazione può essere, che non è utopia, mito, sogno o follia, ma autonomia e autodeterminazione.
La conoscenza del nostro corpo, dai primissimi timidi tentativi, si è aperta poi a ventaglio, è stata la scoperta della fisicità, la gestione della salute, della sessualità, dei desideri, della mente fino ad una grande e positiva sensazione di onnipotenza, sensazione di poter finalmente decidere di sé e per sé.
Ma, anche, consapevolezza della costruzione sociale del nostro essere e del corpo, per cui esistevano tante immagini esterne della femminilità e del corpo stesso, quante erano e sono le classi e le frazioni di classe.
Quindi, compenetrazione di conoscenze di sé e di conoscenze del “fuori”.
Ma mentre cercavamo di portare avanti questo percorso di consapevolezza e di utilizzare politicamente le correlazioni che avevamo messo in atto per spezzare l’organizzazione e l’ordine sociale classista e sessista, la risposta del femminismo socialdemocratico è stata ricostruzione dei ruoli e puntello di questo ordine sociale.
E questo processo è stato attuato attraverso appositi grimaldelli: il gratuito, la delega, le esperte e gli esperti.
L’uso strumentale del gratuito ha offuscato e nascosto come in una nebbia la differenza che esiste tra il diritto ad avere i servizi gratuiti da parte dello Stato da cui non si può e non si deve prescindere e il delegare allo stesso i propri spazi di aggregazione e di crescita politica. Oltre all’enorme mistificazione passata attraverso il concetto del ”cambiare le Istituzioni dal di dentro”.
L’affidamento di nuovo agli esperti, anzi alle esperte, perché il numero di donne che fanno le psicologhe, le sessuologhe, le psichiatre, le specialiste in senso lato del comportamento ….è notevole, ha condotto alla medicalizzazione delle esistenze da un lato e, dall’altro alla perdita della capacità di conoscersi e di riconoscersi in autonomia.
Non esistono segni “ fisici” veri e propri. L’immagine sociale del proprio corpo, con cui ogni soggetto deve fare i conti, si ottiene attraverso l’applicazione di un sistema di classificazione sociale.
I segni costitutivi del corpo sono prodotti di una fabbricazione culturale vera e propria.
Dimenticare questo ha comportato devitalizzare l’impulso rivoluzionario del femminismo, deviandone la sensibilità, l’immaginazione e l’analisi verso forme di determinazione individuale e collettiva opposte alle premesse ideali.
I sentimenti umani di reciproco riconoscimento, di mutuo aiuto e di vicendevole costruzione delle proprie esistenze, sono stati tradotti in promozione individuale e sostituiti da meccanismi di promozione sociale, isolando le soggettività indisponibili a questa soluzione e le tante non coinvolte in questo processo, mettendole nella situazione di essere represse. Chi ha fatto queste scelte si è resa complice del razzismo istituzionale che rinchiude nei Cie per condizione, della discriminazione e persecuzione di comportamenti, etnie, nazioni o parti politiche della società.
La ricerca della felicità individuale e collettiva è stata capovolta in una realizzazione personale totalmente dimentica dell’originaria azione creativa e dialettica del femminismo, capovolgimento favorito attraverso l’indirizzo dei mezzi comunicativi e formativi di massa, per cui ogni riflessione e pratica eterodiretta rispetto alle pratiche dominanti, viene rinchiusa nella logica del negativo e del patologico, da reprimere, utilizzando le componenti socialdemocratiche riformiste come agenti controrivoluzionari.
La visione esclusivamente emancipatoria della condizione della donna, annulla l’idea e gli ideali di liberazione, rimuovendo l’orizzonte comune e collettivo della libertà.
Il femminismo, oggi, viene percepito nel comune sentire come qualcosa di opportunistico, con connotazioni negative e corporative, con lo stesso meccanismo con cui la sinistra socialdemocratica ha consegnato i giovani della periferia al fascismo.
La grande vittoria del patriarcato è di aver stravolto il carattere originario e originale del femminismo e di averlo fatto attraverso la componente socialdemocratica.
E la vittoria della componente socialdemocratica è passata attraverso l’area della comunicazione sociale, attraverso la produzione di falsificazioni, la manipolazione e l’intossicazione della memoria femminista con il controllo preventivo e la condanna dei comportamenti potenzialmente antagonistici.
Il femminismo è scardinamento dei ruoli e, proprio perché il personale è politico, è scardinamento dell’organizzazione sessuata della società.
Ma, dato che nessun ambito sociale vive di sé e per sé, è scardinamento e rifiuto dei ruoli organizzativi della società tutta.
La socialdemocrazia è impostata per conservare, mentre il femminismo è un programma che fa della memoria uno strumento di consapevolezza e di forza per uscire da questa società.
Il nostro impegno è piccolo e grande allo stesso tempo e non è merce di contrattazione.
L’obiettivo è la nostra liberazione.

domenica 9 dicembre 2012

Lettera aperta agli operai di Genova

del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti

sabato 15 dicembre manifestazione a TARANTO
contro
il “decreto-salva RIVA” e “la fabbrica di morte”
per
la riconversione ecologica delle produzioni industriali
 il risanamento ambientale dei territori
e il diritto al reddito

OPERAI, CITTADINI E MAMME DI GENOVA, SIAMO VENUTI A CONOSCENZA, TRAMITE GIORNALI E TELEVISIONI NAZIONALI, DELLE VOSTRE PROTESTE DOVUTE ALLE NOTIZIE DI MESSA IN “LIBERTÀ” DEGLI OPERAI DEI VOSTRI STABILIMENTI DEL GRUPPO ILVA. SEMPRE TRAMITE I MEDIA ABBIAMO ADDIRITTURA APPRESO DI FESTEGGIAMENTI DOPO L’EMANAZIONE DEL DECRETO SALVA-ILVA.
NOI OPERAI, CITTADINI E MAMME DI TARANTO VI PONIAMO ALCUNE DOMANDE:
1. COME VI SENTIRESTE SE A CAUSA DELLE MALATTIE DOVUTE ALL’INQUINAMENTO MOLTE DONNE FOSSERO IMPOSSIBILITATE AD ALLATTARE I PROPRI FIGLI O ADDIRITTURA FOSSERO COSTRETTE A RINUNCIARE ALLA MATERNITÀ?
2. COME VI SENTIRESTE SE LE PERSONE A VOI PIÙ CARE, IN PARTICOLARE NEONATI E BAMBINI, FOSSERO COLPITE DA PATOLOGIE ONCOLOGICHE E NON, STRETTAMENTE COLLEGATE ALL’INQUINAMENTO INDUSTRIALE?
3. COME VI SENTIRESTE SE AI VOSTRI FIGLI VENISSE VIETATO, PER ORDINANZA EMESSA DAL SINDACO A CAUSA DELL’INQUINAMENTO INDUSTRIALE, DI GIOCARE NEI GIARDINI PUBBLICI?
4. COME VI SENTIRESTE SE VIETASSERO IL PASCOLO DELLE VOSTRE GREGGI PER UN RAGGIO DI 20 KM E DISTRUGGESSERO MITILICOLTURA E PESCICOLTURA POICHÉ IL TERRENO E IL MARE RISULTANO CONTAMINATI IN PROFONDITÀ DI SOSTANZE TOSSICHE, SE MUTILASSERO COSÌ IL VOSTRO TERRITORIO DELLE SUE RISORSE NATURALI ED ECONOMICHE PIÙ PECULIARI, PRIVANDO TOTALMENTE MIGLIAIA DI FAMIGLIE DEL LORO SOSTENTAMENTO E IMPEDENDO DI FATTO ANCHE LO SVILUPPO FUTURO DI LAVORO ALTERNATIVO?
5. COME VI SENTIRESTE VOI OPERAI SE I PRIMI AD ESSERE COLPITI DALL’INQUINAMENTO INDUSTRIALE E DAL RICATTO OCCUPAZIONALE FOSTE VOI?
RICORDANDO CHE IN UN RECENTE PASSATO LA VOSTRA CITTÀ ED I PAESI LIMITROFI HANNO DOVUTO LOTTARE PER I PROBLEMI SOPRA CITATI E CHE A SEGUITO DI QUESTE LOTTE (PORTATE AVANTI IN PARTICOLARE DAL COMITATO DONNE DI CORNIGLIANO) I VOSTRI DIRITTI SONO STATI GIUSTAMENTE RISPETTATI:
CHI MEGLIO DI VOI PUÒ COMPRENDERE I NOSTRI PROBLEMI?
CHIEDIAMO CON QUESTO DI MODERARE IL VOSTRO SENTIMENTO DI GIOIA E DI COMPRENDERE E POSSIBILMENTE PARTECIPARE ALLE NOSTRE INIZIATIVE DI SENSIBILIZZAZIONE AFFINCHÉ I NOSTRI DIRITTI VENGANO RISPETTATI COME LO SONO STATI I VOSTRI.
NON DOBBIAMO PAGARE NOI INSIEME A VOI, CON IL RICATTO OCCUPAZIONALE, UNA SITUAZIONE CHE SAPPIAMO BENE DA CHI È STATA PROVOCATA, OSSIA GRUPPO RIVA E STATO ITALIANO CHE DEVONO FARSI CARICO DEL REDDITO DI TUTTI GLI OPERAI COINVOLTI, GARANTENDO DA SUBITO UN LAVORO PULITO, IN TUTTI GLI STABILIMENTI ILVA ITALIANI.
PERTANTO, RIBADIAMO CON FORZA, CONVINTI DI ESSERE NEL GIUSTO E DI INCONTRARE LA VOSTRA SOLIDARIETÀ, IL NOSTRO NO AL DECRETO LEGISLATIVO DENOMINATO SALVA ILVA IN QUANTO ANTICOSTITUZIONALE E PRIVO DI RISOLUZIONE AI PROBLEMI OCCUPAZIONALI E DI REDDITO, AMBIENTALI E DI SALUTE.
TARANTO A QUESTO DECRETO CHE SALVAGUARDA SOLO I PROFITTI DEL GRUPPO RIVA RISPONDERÀ CON UNA MANIFESTAZIONE IL 15 DICEMBRE ED INVITA VOI E CHIUNQUE VOGLIA UNIRSI A SOSTENERE QUESTO CORTEO.
SI AI DIRITTI, NO AI RICATTI
 

venerdì 7 dicembre 2012

Ma l’economia è democratica?

di Luigi Ferrajoli

una nostra sintesi del saggio che nella versione integrale esamina compiutamente i temi della crisi del nostro tempo, mettendo a fuoco il rapporto tra economia e politica nel quadro del mercato globale, la criticità dei capisaldi della democrazia occidentale maturata nel corso dell’ultimo secolo – la sovranità e lo stato di diritto- ed alcune ipotesi essenziali per la fuoriuscita dall’attuale tunnel che caratterizza lo scenario politico non solo nazionale (per la lettura completa cliccare il link a piè di pagina)

1.         Io credo che il tema di questo intervento – il rapporto tra economia e politica e la dipendenza della seconda dalla prima – sia il tema di fondo del nostro tempo: un tema che è tutt’uno con il tema della crisi della sfera pubblica, del ruolo e ancor prima della natura della politica e perciò, in ultima analisi con il tema, al tempo stesso teorico e politico, della crisi della democrazia, non solo in Italia ma in Europa e più in generale a livello globale.
Il rapporto tra politica ed economia si è ribaltato. Non abbiamo più il governo pubblico e politico dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica. Non sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i mercati, cioè poche decine di migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi pubblici generali, ma sono le potenze incontrollate e anonime del capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a vantaggio degli interessi privati e speculativi della massimizzazione dei profitti. Le ragioni di questo ribaltamento sono molte e complesse. Non parlerò dei conflitti di interesse e delle molte forme di corruzione e condizionamento lobbistico attraverso cui l’economia condiziona la politica. Questi condizionamenti ci sono come mostrano le cronache di questi giorni. Ma il ribaltamento dipende da due ragioni, una di ordine strutturale, l’altra di ordine culturale e ideologico.
La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della finanza: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente e inevitabilmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto all’interno dei territori statali e nel senso che gli orizzonti della politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e senza i limiti e i vincoli apprestati dal diritto – dalle legislazioni e dalle costituzioni – che è tuttora un diritto prevalentemente statale. È insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a divenire sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/regolazione giuridica. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari, da Marchionne alla finanza speculativa, si sono sviluppati come poteri illimitati, sregolati e selvaggi, in grado di imporre le loro regole e i loro interessi alla politica. […]
Il secondo fattore del ribaltamento del rapporto tra politica ed economia è di carattere ideologico. Esso consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la prima, ben più che rafforzata, è per così dire “verificata” dalla seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di necessità naturale, e della scienza economica come scienza a sua volta naturale, dotata della stessa oggettività empirica della fisica. […]
Il sopravvento dell’economia sulla politica e l’abdicazione della seconda al ruolo di governo nei confronti della prima non sarebbero infatti possibili senza un simultaneo processo di liberazione della politica da limiti e da vincoli legali e costituzionali. È  in questo duplice processo che risiede la crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica, che a sua volta richiede la rimozione della costituzione dall’orizzonte dell’azione di governo onde consentirle l’aggressione all’intero sistema dei diritti fondamentali e delle loro garanzie: dai diritti sociali alla salute e all’istruzione ai diritti dei lavoratori, dal pluralismo dell’informazione alle molteplici separazioni e incompatibilità dirette a impedire concentrazioni di potere e conflitti di interesse.

2.         Ne consegue, da questo ribaltamento del rapporto tra economia e politica una triplice crisi.
2.1       In primo luogo la crisi della democrazia politica. La democrazia politica è nata ed è tuttora vincolata alle forme rappresentative dei parlamenti e dei governi nazionali. La subalternità delle politiche nazionali ai cosiddetti mercati – il fatto che è ai mercati ben più che ai loro elettorati che i governi nazionali devono rispondere – ha svuotato, insieme al ruolo di governo della politica, il ruolo e la stessa legittimità delle istituzioni rappresentative, alle quali i mercati impongono interventi antisociali, in danno del lavoro e dei diritti sociali e a vantaggio degli interessi privati della massimizzazione dei profitti, delle speculazioni finanziarie e della rapina dei beni comuni e vitali . Ne consegue un ruolo parassitario della politica e delle istituzioni democratiche e un inevitabile e generalizzato discredito del ceto politico, attestato dai tassi sempre più bassi di popolarità dei partiti, dei loro leader e delle stesse istituzioni rappresentative: che è un discredito e una crisi della politica in quanto tale, sempre più subordinata all’economia, sempre più in crisi di autorevolezza, sempre più lontana – per incapacità, o per subalternità ideologica, o per connivenza con il mondo degli affari – dai bisogni e dai problemi dei paesi che sarebbe chiamata a governare. [...]
2.2       C’è poi una seconda crisi o un secondo aspetto della crisi: la crisi del diritto e delle forme dello stato di diritto consegnateci dalla tradizione liberale. Il paradigma dello “stato di diritto”, come dice questa stessa espressione, si è sviluppato nei confronti soltanto dello Stato, cioè dei poteri statali. Non ha investito né i poteri sovrastatali, essendo stato il diritto positivo identificato per lungo tempo con il solo diritto statale, né i poteri economici privati, a loro volta ideologicamente concepiti, dalla tradizione liberale – da Locke a Marshall – anziché come poteri, come diritti di libertà. Di qui, da questa limitazione del ruolo del diritto, l’impotenza degli Stati, in grado solo di dare risposte locali a problemi globali e, soprattutto, non all’altezza di quei poteri insieme privati e globali che sono i poteri della finanza. […]
2.3       Infine questa dipendenza della politica dall’economia segnala un terzo aspetto, il più profondo e vistoso, della crisi che stiamo vivendo: la crisi, ancor prima che della democrazia e dello stato di diritto, dello stesso Stato moderno, inteso lo Stato quale sfera pubblica deputata alla difesa degli interessi pubblici, separata dall’economia e rispetto a essa eteronoma e sopraordinata. è una crisi epocale: la crisi dello Stato quale istituzione politica separata e sopraordinata all’economia. La separazione tra società civile e stato, tra economia e politica, è infatti un tratto caratteristico della modernità giuridica e politica che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno, in opposizione allo stato patrimoniale dell’ancien regime.[…]
È questa la triplice crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica. Il suo aspetto paradossale è il carattere fallimentare, sotto gli occhi di tutti, delle politiche imposte dai mercati alle tecnocrazie deputate alla loro attuazione. Il mercato senza regole, dopo essere stato la causa della crisi – in assenza di politiche capaci di governarlo – continua a riproporsi come la terapia: tagli alla spesa pubblica nella sanità e nell’istruzione, privatizzazioni, liberalizzazioni, imposte su pensioni e salari e, insieme, riduzione degli investimenti e delle entrate fiscali, crescita delle disuguaglianze e rottura della coesione sociale. Una terapia distruttiva, anche sul piano economico, dato che aggrava le cause stesse della crisi, a cominciare dalla maggiore povertà e dalle restrizioni del potere d’acquisto e dei diritti sociali, dando vita a una spirale recessiva incontrollata.

Dalla crisi non si esce con un nuovo modello keynesiano

di Xavier P. Igresas

Cresce l'interesse nei paesi Pigs per le proposte di fuoriuscita dall'Unione Europea. Il giornale Semos Galiza ha intervistato Luciano Vasapollo, economista e direttore del Cestes, in occasione del forum economico internazionale “Comprendere le cause della crisi” tenutosi a fine novembre, forum organizzato dalla fondazione Fesga e dal sindacato conflittuale CIG della Galizia

d. Professore Lei definisce la UE come una “Super-Germania” e l’euro come un “super-marco”
r. La costruzione europea, dell’unione sia come potenza geo-economica sia come area monetaria, è la costruzione di un polo imperialista che compete contro gli USA e altri attori. Nel quadro della competizione globale c’è l’area del dollaro, l’area asiatica e anche l’area europea. Pertanto, la costruzione europea è una costruzione imperialista, al servizio di una visione economica, politica, monetaria e potenzialmente militare. Il nucleo duro è il modello tedesco, con la sua forza economica, con il suo modello esportatore, con il marco che è stata la moneta più forte sulla quale si è costruito l’euro. Tutta la costruzione europea si basa è incentrata sul ruolo imperialista. Questo vuol dire che paesi come Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sono stati costretti a essere funzionali alla nuova divisione internazionale del lavoro, a questo modello esportatore dell’impresa tedesca e alle regole volute e imposte dal sistema bancario tedesco e quindi dalla BCE.

d. Che ruolo ha la periferia europea nell’attuale UE?
r. A partire dai primi anni ‘70 decisero di costruire un modello in cui l’industria tedesca doveva essere centrale e l’esportatore principale che ha sempre bisogno, logicamente, di qualcuno che importi all’interno di una proprio polo geoconomico e geopolitico di riferimento. Per questo nell’area semiperiferica dei paesi mediterranei, si sono forzati questi paesi alla delocalizzazione produttiva, alla privatizzazione e a chiudere l’era dell’intervento degli Stati nell’economia, per permettere che all’interno della costruzione dell’UE non si rafforzassero competitori industriali contro la Germania e allo stesso tempo avessero un’economia importatrice, in cui il loro principale ruolo è di servizi di basso valore aggiunto, e agire come consumatori e importatori. Tutto quello che succede oggi nell’Europa mediterranea è il risultato di ciò che si è iniziato a fare dai primi anni ‘70, periodo in cui è iniziata la crisi attuale. Quella che noi viviamo non è una crisi finanziaria, non è solo una crisi ciclica iniziata nell’ anno 2007; è una crisi che origina dopo la fine dell’accordo di Bretton Woods, una crisi sistemica di sovra-accumulazione di capitale e in questo contesto va riducendosi sempre più lo spazio competitivo a livello internazionale e per questo che i potentati economico-finanziari europei necessitano di un’area monetaria e politica molto forte, perché se così non fosse, la Germania non avrebbe spazio nella competizione globale.

d. Abbandonare l'euro e l'Unione Europea è una pazzia o una misura necessaria?
r. Se si pensasse di uscire dall’euro con una via “ nazional-fascistoide” ,con un singolo paese, con la vecchia moneta, la finanza internazionale non lo permetterebbe e si rafforzerebbe l’attacco speculativo finanziario e monetario. Ma, se si partisse da un nuovo protagonismo della classe lavoratrice in una visione internazionalista capace di porsi sul terreno di percorsi e processi di lotta per creare un’area per uscire contemporaneamente e in maniera congiunta dall’euro, tre, quattro o cinque paesi, per costruire un’alleanza economica e commerciale, con una moneta virtuale di compensazione, questa formula doterebbe questi territori della stessa forza che ha oggi l’ALBA in America Latina. L’unico modo è iniziare a dare battaglia a partire dal movimento sindacale conflittuale e dai movimenti sociali, affinché non si paghi il debito, e destinare le risorse economiche a investimenti di carattere sociale. Nello stesso tempo, è necessario nazionalizzare le banche, che significherebbe poter orientare la linea di credito verso i settori strategici, e, come anche si sta facendo nell’ALBA, nazionalizzare i settori energetico, trasporti e telecomunicazioni,rafforzando il ruolo pubblico e gratuito di efficienti servizi nella sanità, istruzione sistemi pensionistici e di sostegno al reddito che, tutto ciò darebbe un ulteriore impulso all'economia in una dimensione sociale, efficiente e solidale.

mercoledì 5 dicembre 2012

Reddito minimo. Iniziativa popolare per la proposta di legge

di Davide Gallo Lassere

associazioni, movimenti, realtà sociali, comitati hanno lanciando una campagna per la proposta di una legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito in Italia che avrà come termine dicembre 2012. La proposta di legge di iniziativa popolare per l'istituzione del Reddito Minimo Garantito è stata annunciata nella Gazzetta Ufficiale del 8 Giugno 2012 n. 132.
Per informazioni vai sul sito http://www.redditogarantito.it/#!/home

Per appoggiare l’idea di un reddito minimo garantito non bisogna per forza di cose decretare la fine del lavoro, come se l’enorme sviluppo tecnico e la razionalizzazione produttiva del neocapitalismo fossero davvero dei processi inarrestabili o non avessero alcuna ricaduta sistemica dall’altra parte del globo. Tanto meno appare necessaria una ferrea presa di posizione critica contro le logiche capitalistiche di messa in valore della forza-lavoro, con le loro appendici di sfruttamento, dominio e alienazione. Molto più modestamente, l’attrazione sempre più diffusa per la creazione di forme minimali di distribuzione di ricchezza in moneta sonante segna l’avvenuto disincanto nei confronti del vecchio mito di Sinistra secondo cui il lavoro configura la via maestra per conquistare l’emancipazione materiale ed esistenziale.
Senza entrare nel merito di uno dei dibattiti più appassionanti che ha attraversato le scienze sociali e la filosofia antropologica degli ultimi decenni, è qui sufficiente operare una distinzione ortografica, concettuale e politica tra Lavoro e lavoro. Non è infatti importante, almeno in questa sede, discutere la teoria del valore-lavoro o vagliare l’ipotesi di Karl Polanyi a proposito del ruolo fondamentale giocato dalla mercificazione del lavoro (la terza “merce fittizia”, oltre a terra e denaro) nei meccanismi di genesi e sviluppo del capitalismo moderno. Ciò che più conta è sottoporre a dubbio radicale il culto incondizionato del Lavoro; ossia la santificazione dell’attività lavorativa quale suggello di ogni vita umana riuscita. Il lavoro (con la minuscola questa volta) è sempre esisto e sempre esisterà. Rappresenta un’invariante antropologica. È infatti ineluttabile per l’uomo doversi plasmare in continuazione con il sudore della propria fronte le condizioni materiali adatte in cui vivere e potersi riprodurre. Ciò che, invece, appare meno assoluta ed essenziale è la valorizzazione unanime dell’animal laborans.
Neoliberali e veteromarxisti potranno rinfacciare che l’oziosità fu privilegio di piccoli strati agiati delle società premoderne, come la nobiltà guerriera e possidente o il clero religioso. Chi scrive, sulla scorta di autorevoli studiosi, è convinto che la realizzabilità delle politiche di pieno impiego, perlomeno allo stato attuale delle cose, rappresenti tutt’al più una pia illusione. Alla stessa maniera, il lettore vagamente informato ben sa che la stabilità e la gratitudine lavorative, almeno per una fetta sempre più larga di popolazione, hanno ormai l’amaro sapore di un sogno svanito a tempo indeterminato. Ecco allora che, nonostante tutte le pecche – anche gravi – dell’attuale proposta di legge, finalmente pure in Italia (uno dei pochi paesi occidentali a non prevedere ancora alcun sostegno diretto al reddito) comincia timidamente ad affiorare sulla scena pubblica una tematica ben presente su altri palcoscenici nazionali da oltre vent’anni.
Per quanto emendabile, l’attuale iniziativa popolare (alla quale si può aderire fino al 31 dicembre) offre comunque un’ottima base di partenza per proporre delle interessanti politiche di partecipazione alla vita sociale che aggirino la ricompensa salariale. Se è pur vero, infatti, che identità personale e legame sociale – il riconoscimento – trovano nel lavoro un terreno proficuo in cui germogliare, allo stesso tempo non si può più rigettare moralisticamente (o ideologicamente!) l’ipotesi per cui la realizzazione di sé e la gratificazione personale incontrino nell’otium del tempo libero una valida alternativa viabile sotto tutti i punti di vista: economico-finanziario, politico, culturale e sociale.
Aldilà delle impietose origini etimologiche (labor, da cui lavoro, significa fatica, mentre il tripalium, da cui travail o trabajo, era uno strumento di tortura), l’immagine del mondo sottostante alle proposte di reddito garantito rappresenta quanto di più seducente ed entusiasmante possa regalare il panorama attuale delle idee politiche: limitare al massimo il regno della necessità, appacificare per quanto possibile la conflittualità sociale che ne deriva, non far più dipendere la soddisfazione dei bisogni primari dall’aleatorietà dello sforzo individuale; rendere insomma ognuno libero dalla costrizione più immediata, al fine di perseguire autonomamente la ricerca della felicità, senza vincoli di ordine biecamente materiale.
Se il tempo è denaro, il tempo libero è denaro che non si vuole o non si ha (più) bisogno di guadagnare. A partire da una solida base di reddito garantito, può perciò essere rimessa in moto l’immaginazione sociale, escogitando forme di vita e pratiche sociali che prescindano dall’esigenza di acquisire sempre più denaro o che si impernino attorno a usi alternativi dello stesso o a monete parallele e complementari – capaci cioè di retribuire quei tipi di attività (socialmente utili o ludiche e ricreative) difficilmente remunerabili altrimenti.