venerdì 23 dicembre 2011

Indebitamento studentesco di importazione USA

di Gennaro Giorgione (Facoltà di Sociologia, Urbino)


Oggi gli studenti universitari italiani lo possono fare: studiare e specializzarsi senza ostacoli
conomici. Finalmente il sogno democratico e americano di studiare e conseguire un titolo di studio universitario si concretizza nelle mani di ogni giovane. Ognuno può aspirare a costruirsi una carriera professionale, sebbene tuo padre è disoccupato e tua madre è casalinga o sebbene tutti e due non arrivano alla quarta settimana del mese. La prassi è semplice, basta recarsi in una banca e chiedere un prestito finanziario per studiare.
Ma tutto ciò, più che rallegrare fa scender le lacrime. Un’altra bolla sta per esplodere negli Stati Uniti.
In America, per tali motivi gli studenti hanno contratto un debito da quasi mille miliardi di dollari. La somma dei debiti accumulati per l’iscrizione ai corsi universitari ha superato le carte di credito come maggior fonte di debito del Paese.
Nel sistema accademico americano, come in molti altri Paesi, le tasse universitarie sono molto alte e salgono col crescere della qualità dell’insegnamento. Per questo, ottenuta l’ammissione al college, gli studenti iscritti contraggono un mutuo per pagare le rette, consapevoli poi che l’istruzione universitari garantirà loro un lavoro abbastanza remunerativo da poterlo estinguere nel giro di pochi anni, una volta ottenuta la laurea. Ma questo meccanismo funziona così solo sulla carta, e la contrazione dell’economia e del mercato del lavoro negli USA ha molto complicato le cose. Una laurea non è più garanzia di occupazione, tanto meno di un’occupazione soddisfacente e redditizia e i tassi d’interesse dei mutui diventano sempre più difficili da sostenere.
La mancanza di opportunità lavorative causa un prolungamento del percorso formativo nei costosi atenei. I neolaureati frequentano ulteriori corsi, si specializzano sempre di più, entrando in un’aspettativa perenne, ma indebitandosi progressivamente, anche perché nonostante la crisi le rette universitarie aumentano invece di diminuire.
Se c’è un’esagitazione per assicurarsi i prestigiosi laureati delle università dell’East Coast, questo non accade per gli atenei meno ambiti, che peraltro impongono tasse come quelle di Harvard. A questa situazione si ricollegano i prestiti fatti a studenti di basa estrazione sociale, quindi si mischiano scarsa capacità iniziale di rimpinguare il debito e scarse prospettive di essere assunti. In pratica è lo stesso meccanismo dei subprime che scatenarono la crisi del 2007.
In questo quadro, i dati registrano un aumento delle tasse universitarie di 650 punti più dell’inflazione. La bolla immobiliare USA è stata solo 50 punti in più rispetto all’indice dei prezzi al consumo. Ma la cosa più denigrante è che al di fuori del mercato gonfiato della finanza i salari dei laureati sono rimasti fermi o addirittura diminuiti. I neolaureati saranno i primi bersagli della disoccupazione e il responso recita che la generazione più indebitata della storia americana non trova un lavoro che le permetta di estinguere i suoi debiti. E’ come se si creasse una sorta di circolo vizioso nel quale uomini della finanza continuano a concedere somme a cinque zeri a giovani che vanno incontro a uno dei tassi di disoccupazione più alti degli ultimi decenni e a un mercato del lavoro globale sempre più competitivo.
Nel caso della bolla immobiliare, le banche si sentivano protette perché potevano trasformare i prestiti a rischio in titoli garantiti dai mutui ipotecari, facili da vendere in un mercato convinto che i prezzi potessero solo salire. Distribuendo il rischio le banche riuscivano a convincere le agenzie di rating che i loro prodotti finanziari erano sicuri. Ovviamente non lo erano, ma considerata la macchina capitalista americana, costruita per monetizzare anche i destini umani, nel settore dell’istruzione quei prodotti esistono ancora. I nuovi servizi mutuali ad hoc si presentano negli States con diciture come: “Student loan asset backed Securities” o “Slubs”.
Cosa succede in Italia?

lunedì 19 dicembre 2011

Un orizzonte sovranazionale per rompere la trappola del debito

di CHRISTIAN MARAZZI

Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza di François Chesnais è un saggio sulla «geometrica potenza» dei mercati finanziari, un manuale prezioso, rigoroso e molto documentato, per i movimenti di resistenza contro gli effetti devastanti della finanziarizzazione che da trent’anni domina il pianeta, distruggendo l’esistenza di milioni di persone, l’ambiente e la democrazia. L’analisi storica del capitalismo finanziario, dalla crisi del modello fordista e del sistema monetario di Bretton Woods fino alla crisi dei debiti pubblici e della sovranità politica di oggi, ha al suo centro la divaricazione tra profitti e condizioni di vita, di reddito e di occupazione, che da tempo è all’origine della produzione di rendite finanziarie, del «divenire rendita dei profitti», quel processo che dalla crisi dei subprime del 2007 alla crisi dell’euro di oggi sta svelando la fragilità del sistema bancario mondiale e la ricerca disperata di misure politiche, istituzionali e soprattutto sociali volte a a salvare il potere dei mercati finanziari. Una crisi la cui funzione è esplicitata in un documento del Fmi del 2010: «le pressioni dei mercati potrebbero riuscire lì dove altri approcci hanno falllito», una vera e propria strategia da shock economy, come Naomi Klein ci ha ben spiegato.
Ma il libro di Chenais è anche un programma per la costruzione di un movimento sociale europeo, un movimento che deve porsi la questione della lotta contro i «debiti illegittimi», odiosa conseguenza delle politiche di sgravi fiscali degli ultimi vent’anni, dei piani di salvataggio del sistema bancario e della speculazione finanziaria sui debiti pubblici che sta aggravando pesantemente il servizio sui debiti, ossia gli interessi che gli stati devono pagare sui buoni del tesoro. Il «governo attraverso il debito», dove il debito è il riflesso speculare della polarizzazione della ricchezza e delle misure per ammortizzare il crollo bancario e finanziario, non è accettabile e va rifiutato: onorarlo significa rinunciare ai diritti sociali, schiacciare i redditi e lacerare quel che resta dei beni comuni e delle spese collettive indispensabili per tenere assieme la società. Come ha scritto Cédric Durant, riassumendo la proposta di Chesnais, «ciò significa interrompere i rimborsi – una moratoria – e stabilire chiaramente chi sono i creditori – attraverso un audit – al fine di stabilire la parte di debito che può essere rimborsata e quella che deve essere annullata».
È quanto propone il Comitato greco contro il debito, il primo paese in cui sia stato creato un comitato nazionale che ha consentito la creazione di comitati locali: «Il primo obiettivo di un audit è quello di chiarire il passato. Cosa ne è stato del denaro di quel prestito? A quali condizioni si è concordato quel prestito? Quanti interessi sono stati pagati, a quale tasso, quale quota di capitale è stata rimborsata? Come si è gonfiato il debito senza che questo andasse a vantaggio dei cittadini?». Imponendo di aprire e di verificare i titolari del debito pubblico, il movimento per l’audit civile osa l’impensabile: avanza nella zona rossa, nel sancta sanctorum del sistema capitalistico, lì dove, per definizione, non è tollerato alcun intruso.
A modo suo, ma coerentemente con il principio di trasparenza e di sovranità popolare che sta alla base dello Stato-nazione, Papandreu ci ha provato con la proposta di referendum popolare sulle misure d’austerità imposte dalla Unione europea. Ma la sua idea è durata lo spirare di un giorno, e se ci fosse riuscito è realistico pensare che ci sarebbe stato un colpo di Stato. Il che ci costringe a porre la questione, centrale nella lotta contro la schiavitù del debito, di quale sia il terreno sul quale mobilitarsi. L’idea della moratoria, dell’audit, del diritto all’insolvenza è sacrosanta, ma dove partire?

venerdì 16 dicembre 2011

Proposta di Appello Europeo per “Un’altra strada per l’Europa”

Dal Forum “Via di uscita”- Firenze 9 dicembre 2011

La crisi dell’Europa è l’esaurirsi di un percorso fondato sul neoliberismo e sulla finanza. Negli ultimi vent’anni il volto dell’Europa è stato il mercato e la moneta unica, liberalizzazioni e bolle speculative, perdita di diritti ed esplodere delle disuguaglianze. Alla crisi finanziaria, le autorità europee e i governi nazionali hanno dato risposte irresponsabili: hanno rifiutato di intervenire con gli strumenti dell’Unione monetaria per arginare la crisi, hanno imposto a tutti i paesi politiche di austerità e tagli di bilancio, che saranno ora inseriti nei trattati europei. I risultati sono che la crisi finanziaria si estende a quasi tutti i paesi, l’euro potrebbe saltare, si profila una nuova grande depressione, c’è il rischio della disintegrazione dell’Europa.
L’Europa può sopravvivere soltanto se cambia strada. Un’altra Europa può essere possibile, se prende il volto del lavoro, dell’ambiente, della democrazia, della pace, di più integrazione. È la strada indicata da una parte importante della cultura e della società europea, dai movimenti per la giustizia, dalle proteste in tutti i paesi contro le politiche di austerità dei governi. È una strada che non ha ancora trovato un’eco tra le forze politiche europee.
La strada per un’altra Europa deve far convergere le visioni di cambiamento, le proteste sociali, le politiche nazionali ed europee verso un quadro comune.
Proponiamo cinque obiettivi da cui partire:
• Ridimensionare la finanza. La finanza – all’origine della crisi – dev’essere messa nelle condizioni di non devastare più l’economia. L’Unione monetaria dev’essere riorganizzata e deve garantire collettivamente il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro; non può essere accettato che il peso del debito distrugga l’economia dei paesi in difficoltà. Tutte le transazioni finanziarie devono essere tassate, devono essere ridotti gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale, una regolamentazione più stretta deve impedire le attività più speculative e rischiose, si deve creare un’agenzia di rating pubblica europea.
• Integrare le politiche economiche. Oltre a mercato e moneta servono politiche comuni in altri ambiti, che sostituiscano il Patto di Stabilità e Crescita, riducano gli squilibri, cambino la direzione dello sviluppo. In campo fiscale occorre armonizzare la tassazione in Europa, spostando il carico fiscale dal lavoro alla ricchezza e alle risorse non rinnovabili, con nuove entrate che finanzino la spesa a livello europeo. La spesa pubblica – a livello nazionale e europeo – dev’essere utilizzata per rilanciare la domanda, difendere il welfare, estendere le attività e i servizi pubblici. Le politiche industriali e dell’innovazione devono orientare produzioni e consumi verso maggiori competenze dei lavoratori, qualità e sostenibilità. Gli eurobond devono essere introdotti non per rifinanziare il debito, ma per finanziare la riconversione ecologica dell’economia europea, con investimenti capaci di creare occupazione e tutelare l’ambiente.
• Aumentare l’occupazione, tutelare il lavoro, ridurre le disuguaglianze. I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, e hanno riportato le disuguaglianze in Europa ai livelli degli anni trenta, ora serve mettere al primo posto sia la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi che la democrazia e la contrattazione collettiva.
• Proteggere l’ambiente. La sostenibilità, l’economia verde, l’efficienza nell’uso delle risorse e dell’energia devono essere il nuovo orizzonte dello sviluppo europeo. Tutte le politiche devono tener conto degli effetti ambientali, ridurre il cambiamento climatico e l’uso di risorse non rinnovabili, favorire le energie pulite, le produzioni locali, la sobrietà dei consumi.
• Praticare la democrazia. Le forme della democrazia rappresentativa e della democrazia sociale attraverso partiti, rappresentanza sociale e governi nazionali, sono sempre meno capaci di dare risposte ai problemi. A livello europeo, la crisi toglie legittimità alle burocrazie – Commissione e Banca centrale – che esercitano poteri senza risponderne ai cittadini, mentre il Parlamento europeo non ha ancora un ruolo adeguato. In questi decenni la società civile europea ha sviluppato movimenti sociali e pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa – dalle mobilitazioni dei Forum sociali alle proteste degli indignados in molti paesi – che hanno dato ai cittadini la possibilità di essere protagonisti. Queste esperienze hanno bisogno di una risposta istituzionale. Occorre superare il divario tra i cambiamenti economici e sociali di oggi e gli assetti istituzionali e politici che sono fermi a un’epoca passata. L’inclusione sociale e politica dei migranti è una condizione imprescindibile di promozione della convivenza civile e rappresenta un’opportunità per l’inclusione dell’area europea dei movimenti dell’Africa mediterranea che hanno rovesciato regimi autoritari.
• Fare la pace. L’integrazione europea ha consentito di superare molti conflitti, ma l’Europa resta responsabile della presenza di armi nucleari e di un quinto della spesa militare mondiale: 316 miliardi di dollari nel 2010. Con gli attuali problemi di bilancio, drastici tagli e razionalizzazioni della spesa militare sono indispensabili. L’Europa deve costruire la pace intorno a sé con una politica di sicurezza umana anziché di proiezione di forza militare. L’Europa si deve aprire alle nuove democrazie del Medio oriente, così come si era aperta ai paesi dell’Europa dell’est. Si deve aprire ai migranti riconoscendo i diritti di tutti i cittadini del mondo.
Le mobilitazioni dei cittadini, le esperienze della società civile, del sindacato e dei movimenti che hanno costruito quest’orizzonte diverso per l’Europa devono ora trovare ascolto nelle forze politiche e nelle istituzioni nazionali ed europee.
Trent’anni fa, all’inizio della “nuova guerra fredda” tra est e ovest, l’Appello per il disarmo nucleare europeo lanciava l’idea di un’Europa libera dai blocchi militari e chiedeva di “cominciare ad agire come se un’Europa unita, neutrale e pacifica già esistesse”. Oggi, nella crisi dell’Europa della finanza, dei mercati, della burocrazia, dobbiamo lanciare l’idea e le pratiche di un’Europa egualitaria, di pace, verde e democratica.


Primi firmatari (relatori e organizzatori dell’incontro di Firenze):
Rossana Rossanda, Maurizio Landini, Paul Ginsborg, Luigi Ferrajoli, Mario Pianta, Massimo Torelli, Gabriele Polo, Giulio Marcon, Guido Viale, Annamaria Simonazzi, Norma Rangeri, Donatella Della Porta, Alberto Lucarelli, Mario Dogliani, Tania Rispoli, Claudio Riccio, Gianni Rinaldini, Chiara Giunti, Domenico Rizzuti e Vilma Mazza.

sabato 10 dicembre 2011

Contro il feticismo costituzionale, per l’insolvenza costituente

di Collettivo UNINOMADE

 


Chi aveva pensato che la crisi aprisse spazi praticabili per una qualche alleanza tra movimenti sociali e pezzi della rappresentanza, è definitivamente servito. Come era non troppo difficile immaginare, non è avvenuta alcuna resurrezione dello Stato: il processo di crisi radicale delle istituzioni nazionali, e in generale il tracollo della rappresentanza hanno conosciuto al contrario un’accelerazione definitiva. La mossa disperata di Papandreou è stata certo la mossa opportunistica, tardiva e disperata di leader corrotto al tramonto. Non per questo, è meno significativa di quanto sia tremendamente illusorio pensare che nella crisi possano esistere spazi di difesa a livello dello stato nazione. La via referendaria, con il suo rapidissimo affossamento da parte europea e le conseguenze drastiche sia in Grecia che in Italia, testimonia, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che la dimensione della democrazia nei confini nazionali, tutta intera la tradizione della democrazia nazionale e dei suoi poteri costituiti, non ha più niente da opporre al governo della finanza, se non la propria nostalgia. Il governo della finanza ci mette mezza giornata a liquidare chi agita la bandiera della sovranità.
Va detto subito e con grande chiarezza: davanti al dispiegarsi della governance finanziaria a tutti i livelli, il rifugio nell’idea di una sovranità democratica nazionale come spazio protetto, è completamente fuori tempo massimo. Anche in Italia del resto non manca chi ora comincia a gridare all’alternativa tra democrazia e finanza: la Lega è ovviamente in prima fila, sempre pronta a proporre il proprio cieco identitarismo come fortezza ringhiosa per le paure e i risentimenti generati dal terrore di perdere la “roba”. Ma anche a “sinistra” il richiamo alla democrazia nazionale, magari nelle forme del feticismo elettorale, trova i suoi seguaci. Vendola ha raggiunto in questi giorni vette difficilmente superabili nel giustificare il governo della finanza ponendo la strabiliante condizione dei limiti temporali al governo Monti. A parte la risibilità del pensare che tutta la baracca dei “tecnici” e degli “esperti” sia stata mobilitata solo per un rapidissimo lavoretto commissariale, la cosa che lascia stupefatti è l’idea che tutto diventerebbe accettabile se solo si lasciasse aperto comunque uno spiraglio elettoralistico, non troppo in là nel tempo. Il terreno della rappresentanza politica, agonizzante oggi sino al punto di lasciare il campo alla gestione diretta del “commissario” per eccellenza dei mercati finanziari, dovrebbe resuscitare non si sa come da qui a quattro mesi, e trasformarsi in primavera in un meraviglioso strumento di resurrezione democratica. Ma stiamo parlando di chi era riuscito a teorizzare le “primarie di programma”, tutt’al più un vago rito sondaggistico, come la più avanzata frontiera della nuova democrazia partecipativa, quindi non ci sorprendiamo. Spiace semmai che nei giochini da illusionista da fiera ci caschino di tanto in tanto settori di movimento in cerca di “alternativa”: ma anche lì le ambiguità e l’improduttività più assoluta delle scorciatoie costituite dai rapporti più o meno strumentali sono oramai diventate evidenti, e, si vuol sperare, improseguibili.

lunedì 10 ottobre 2011

La Penisola del lavoro

UNA LUNGA LINEA DI SANGUE E INDIFFERENZA

Chi vi scrive è un gruppo di persone (RLS, operai, liberi professionisti, tecnici della prevenzione ASL, familiari delle vittime del lavoro), che ha cercato e cerca in tutti i modi e con un impegno quotidiano, di tenere viva l’ attenzione sulla carenza di prevenzione, protezione e sul dramma delle morti sul lavoro, chiamate ancora ed inaccettabilmente "morti bianche".
L’ uso dell’ aggettivo "bianco" è fuorviante e sbagliato, perché sono sporche, di calcinaccio, di nerofumo, di terra e di sangue, inaccettabile perché allude all’ assenza di una responsabilità per l’ accaduto: NESSUN RESPONSABILE, NESSUN COLPEVOLE, NESSUNA GIUSTIZIA!!!
Quello che non si dice in modo chiaro e netto e non si scrive mai abbastanza è che i morti sul lavoro quasi mai sono dovuti alla fatalità o alla “leggerezza” delle vittime (quasi che per una leggerezza fosse plausibile una sorta di “pena di morte” immediata, sul campo e senza processo), ma il più delle volte sono causati dalla decisione dei responsabili di “tagliare”, sia nelle risorse sia nei tempi di lavorazione, imponendo prestazioni sempre più elevate e veloci, consapevoli del rischio conseguente sulla prevenzione, formazione e sicurezza.
Andrebbero quindi chiamati col loro nome e molti sarebbe giusto definirli omicidi, di cui questo governo è corresponsabile, con la sua politica di risparmi e tagli fatta sulla pelle delle persone.

mercoledì 21 settembre 2011

Per una discussione collettiva su scuola e università

di Giorgio Martinico - Collettivo Universitario Autonomo Palermo

Che ci sia in giro per le nostre città una nuova effervescenza sociale, che si stiano dispiegando sempre più irriducibili conflitti, appare evidente anche al più disattento osservatore.
Che in questa fase politico-sociale i mutamenti di prospettiva, composizione, forza dei movimenti di massa stiano segnando e condizionando le scelte di exit strategy del grande capitale dalla crisi economica, diventa innegabile anche dal più disonesto commentatore.
Infine, che nell’ambito dell’istruzione (e dei suoi intestini conflitti) questa nuova forza si sia trasformata in “potenza” concreta, offensiva, radicale, è chiarissimo a chiunque!
Abbiamo alle spalle una serie di interventi governativi su scuola e università pubblica volti a completare un ventennale restyling del sistema pubblico di formazione. Tali provvedimenti pesano, ovviamente, come macigni sulle nostre schiene piegate già da una crisi globale i cui costi socializzati o ancora da ripagare sono la posta in palio della partita che ci apprestiamo a giocare.
Ma abbiamo dietro di noi – anche e soprattutto – una sequenza politica che, dal 2008 a oggi, ci consegna esperienze di movimenti massificati, nuove forme e luoghi della politica, rivolte e riots; siamo ormai giunti alla piena  consapevolezza che nuovi attori sociali si stanno affacciando ai balconi della storia e che queste soggettività hanno dei chiari comuni denominatori: è l’emersione dei movimenti del “lavoro cognitivo” e della galassia il cui centro di gravità è rappresentata dalla “condizione precaria”.
Cosa è successo in questi anni sul fronte-formazione? Cosa di buono e cosa di cattivo ereditiamo da questa inaugurale fase di scontro? E per il futuro poi…

venerdì 2 settembre 2011

Il diritto al default come contropotere finanziario

di Andrea Fumagalli - Collettivo UniNomade, Università di Pavia

In queste settimane di crisi finanziaria e di pressione speculativa sui paesi mediterranei, l’Europa non ha fatto una bella figura. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la costruzione di un’Europa politica, economica e sociale è ancora lungi dall’essere raggiunta. Al momento, siamo di fronte solo all’unione monetaria europea, che è cosa diversa dall’Europa. I poteri sono in mano alla Bce, non ad un parlamento regolarmente eletto a suffragio universale in grado di legiferare con poteri superiori a quelli nazionali. E, infatti, è la Bce che detta legge, tramite l’oligarchia dei poteri forti oggi rappresentati dall’asse Merkel –Sarkozy (un neo Berlusconi in salsa oltralpe!).
Eppure, ci potrebbero essere gli spazi per creare le premesse della costruzione di quell’Unione europea, sociale, economica, solidale e federale che tutti auspichiamo, in grado di essere superiore agli opportunismi nazionalistici. Un’ Unione europea che è del tutto antitetica a quella che viene rappresentata dalla lettera “segreta” o “confidenziale” di Trichet e Draghi al governo italiano, nella quale vengono dettate le linee di politica economica che l’Italia dovrebbe seguire se vuole ottenere un aiuto per evitare il rischio di default e l’aumento degli oneri d’interesse.
Il diktat della Bce si basa su due false ma comode convenzioni, che derivano dal dogma neo e social-liberista: a. neutralità dei mercati finanziari e fiducia nel loro ruolo di arbitro imparziale dell’efficienza del libero mercato e b. la possibilità che politiche fiscali recessive del tipo lacrime-sangue possano raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio pubblico e quindi contrastare la speculazione.

La favola dei mercati finanziari concorrenziali, imparziali e neutri.
Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.
Per quanto riguarda il settore bancario, i dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al I° trimestre 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (fonte: http://www.occ.treas.gov/topics/capital-markets/financial-markets/trading/derivatives/dq111.pdf).
Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni,– che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”) . Oggi, sempre secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale, con un incremento di 20 volte rispetto a venti anni fa. Inoltre, tale quota è aumentata nell’ultimo anno, grazie alla diffusione dei titoli di debito sovrano (mai nome è più mistificatorio nell’epoca della crisi della sovranità nazionale!). Ad esempio, per quanto riguarda il debito pubblico, italiano, circa l’87% è detenuto da investitori istituzionali, per oltre il 60% all’estero (a differenza di quanto avviene in Giappone).
Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi si confermano come fortemente concentrati: una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 70% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori che svolgono una funzione meramente passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci, tra Sim e banche, citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.
Quando si leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, non sono altro che espressione di una precisa gerarchia e potere. E la Bce lo sa bene.

lunedì 29 agosto 2011

La Tunisia è la nostra università

Appunti e riflessioni dal Liberation Without Borders Tour

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO


La Tunisia è, oggi, uno straordinario laboratorio politico. Distruggendo definitivamente ogni inveterata reminiscenza del rispecchiamento coloniale, secondo cui le "periferie" dovrebbero osservare il "centro" per vedervi riflessa l'immagine del proprio futuro, sono invece le lotte a determinare il punto avanzato dentro il capitalismo globale. Fare inchiesta in questo laboratorio significa la possibilità di trovare risposte e nodi politici insoluti.
Innanzitutto, emergono qui indicazioni fondamentali sulla temporalità della crisi. Tra il 2007 e il 2008, quando abbiamo cominciato a sviluppare la nostra analisi sulla crisi economica globale, non potevamo registrare il deflagrare di nuovi cicli di lotta, o meglio questi assumevano un carattere frammentario e non generalizzato. Oggi possiamo constatare come sia lo stesso concetto di ciclo che deve essere completamente ripensato: nel momento in cui la crisi diventa non più fase specifica ma elemento permanente e orizzonte insuperabile del capitalismo cognitivo, le lotte assumono una differente temporalità. Aspettano e attaccano il nemico dove è più debole, ovvero dove è più forte la composizione del lavoro vivo.
Quelle in Tunisia e in Egitto, allora, sono state le prime insurrezioni dentro la crisi economica globale. Ancora di più, hanno rimesso all'ordine del giorno le parole d'ordine dell'insurrezione e della rivoluzione, di cui molti, troppi pensavano di essersi liberati insieme ai ferri vecchi del Novecento. Ma queste parole d'ordine vengono imposte all'agenda dei movimenti in modo nuovo. L'insurrezione non è più, dunque, legata alla presa dello Stato, i perimetri dello spazio nazionale sono definitivamente ecceduti. Si insorge per distruggere i confini, per affermare il diritto alla fuga e alla mobilità del lavoro vivo.
Allora, è per i militanti tunisini chiara la percezione delle coordinate della sfida, che si disegnano su un piano immediatamente transnazionale. Anche qui, possiamo vedere come un altro elemento peculiare della crisi contemporanea, quello del contagio (si veda il decisivo contributo di Christian Marazzi nei suoi diari), viaggi in realtà all'inseguimento dei movimenti del lavoro vivo e delle sue pratiche di organizzazione. L'insurrezione tunisina è stata l'innesco per il movimento in Egitto e in tutto il mondo arabo. E ora dal Wisconsin alla Spagna alla Grecia la parola d'ordine diventa: fare come a piazza Tahrir. Il contagio dei conflitti avviene attraverso la rete, dai social network agli sms. Non si tratta, semplicemente, di strumenti che facilitano la circolazione delle informazioni e della comunicazione. La rete qui viene interamente riappropriata dal sapere vivo, diviene forma dell'organizzazione moltitudinaria, espressione e pratica dell'intelligenza collettiva. Che straordinaria esperienza vedere come, concretamente, i dimostranti si muovono nello spazio metropolitano: in un sabato qualsiasi l'appuntamento è alle 10 del sabato mattina davanti a un teatro della centrale Avenue Bourghiba, passano 40 minuti e non c'è nessuno, i poliziotti dietro al filo spinato sono tesi e non capiscono; in una manciata di secondi cento, duecento, trecento persone si radunano, urlano al governo di transizione che se ne deve andare, rivendicano la continuazione del processo rivoluzionario. Quando la manifestazione viene attaccata con bastoni e coltelli da poliziotti in borghese, e/o loschi figuri al soldo dei commercianti preoccupati per i loro affari alla vigilia della stagione turistica, si disperde in modo apparentemente improvviso com'era comparsa. Ma pochi minuti dopo lo sciame si ricompone ancora più numeroso davanti al ministero degli affari sociali, e poi ancora sotto alla sede del sindacato per imporre la convocazione di uno sciopero generale.